Il libro ha una struttura originale e complessa. Inizia citando Nietzsche il quale dichiara che solo 34 generazioni lo separano da Catone, così dimostrando
di pensare in termini di generazioni successive e non sovrapposte. Una
generazione deve cessare di esistere prima che un'altra le succeda: metafora
di un mondo in cui i vecchi accentrano potere fino alla propria morte. Continua
con storie di vita "da mediano"; mediano nel senso
statistico (che ha metà della popolazione sopra e metà sotto), mediano nel
senso della scienza politica (l'elettore mediano è quello che, proprio a causa
della sua posizione nel senso statistico del
termine, è centrale nella determinazione dein risultati elettorali), e mediano
nel senso della cultura pop (da Ligabue - Fausto ha corretto un mio orribile errore di attribuzione). Queste storie di vita, sei
storie, sei generazioni, dai nati all'ombra del Giro d'Italia del '32 fino ai nati negli anni '80, gli anni
della Coppa del Mondo
ZoffBergomiCabriniCollovatiGentileScirea - respiro
-OrialiTardelliContiGrazianiRossi, occupano una trentina di pagine e
introducono la discussione sulla struttura economica e sociale che si è venuta
a creare nel paese negli ultimi 70 anni. Forse questa parte è troppo lunga. O
forse sono io che non riesco a leggere trenta pagine di storie, per quanto paradigmatiche,
senza una sostanziale dose di analisi. Aggiungo una nota stilistica: le
metafore sportive, specie calcistiche e ciclistiche, si sprecano qui come nel
resto del
libro; può piacere o meno; a me non dispiace.
Il cuore del
libro è il Capitolo II, Una generazione di perdenti? È il cuore
perché i) documenta il declino del
paese, ii) ne analizza le cause e le manifestazioni; in altri termini, dai
disturbi alla diagnosi della malattia. Il Capitolo III presenta una diagnosi
ulteriore, non alternativa, ma in certo senso più profonda, in termini di
caratteristiche culturali dell'identità nazionale. Il Capitolo IV
indica le cure per fermare il declino. Infine il Capitolo V contiene raccomandazioni sul sistema politico, incapace di selezionare una appropriata classe dirigente.
In questa recensione cercherò di essere il più schematico e analitico
possibile. Questo perché la mia ambizione qui è di
scoprire "il modello", il modello economico degli autori che funziona
da supporto logico e analitico dell'analisi. Non è cosa facile. Il libro non
è scritto per un economista e l'operazione di de-costruzione ècomplessa assai. Comunque ci provo.
Il declino dell'economia italiana è facilmente documentato. Nel Capitolo II si citano un po' di indici aggregati (si potrebbe essere più sistematici, ma tutto sommato l'immagine un po' impressionistica che si deriva da questi indici è abbastanza corretta, forse un po' generosa..... ma non siamo troppo pignoli): i) il tasso di crescita medio tra il 1990 e il 2004, dell'1.4%, meno della
metà di quello spagnolo, meno di un quarto di quello dell'Irlanda, e comunque
di alcuni decimi inferiore al tasso di crescita di Francia e Germania ; ii) la produttività del
lavoro, che addirittura decresce ultimamente in Italia, unica in Europa; iii) il tasso di occupazione (il rapporto tra occupati e abitanti in età
lavorativa) è strutturalmente basso, oggi al 57%, contro il 65% della media
OCSE; iv) il capitale umano, misurato dalla percentuale della popolazione con educazione universitaria, è anch'esso
strutturalmente inferiore rispetto al resto d'Europa.
Quali sono le cause del declino
italiano? (Bèh, tutto quello che seguenel libro c’è, ma c’è anche un po’ di mio
specie nella analisi dei canali attraverso cui operano le varie cause del declino.)
1) Prima fra tutte il mercato del lavoro inflessibile e la
contrattazione salariale centralizzata che: i) riduce la produttività perché
non permette il turn-over che seleziona le combinazioni più produttive di
lavoro e capitale, ii) è causa della scarsa partecipazione, specie delle donne, al mercato del lavoro, perché le donne in età fertile abbisognano di entrare
e uscire dal mercato con facilità, iii) riduce il rendimento dell'educazione
universitaria, perché favorendo la redistribuzione comprime i salari, iv)
induce una redistribuzione a favore delle generazioni in età avanzata,
attraverso il sistema pensionistico.
2) E poi i mercati finanziari inefficienti perché non
concorrenziali, che rendono difficili strutture proprietarie di dimensione
efficiente e strutture di governance delle imprese a proprietà diffusa (ed
ecco che abbiamo la lunga lista di imprese gestite da "figli di"
senza particolare merito, a pagina 69).
3) Ma anche le restrizioni alla concorrenza specie nelle
professioni, che abbinate a dinamiche dei salari compresse e distorte a favore
delle generazioni in età avanzata, limitano i rendimenti dello studio.
4) Infine, un sistemauniversitario
di bassa qualità e un pessimo sistema politico e istituzionale che genera
la casta.
Nel libro si fa poi notare che, per quanto il declino del paese sia essenzialmente per definizione un fenomeno aggregato, le cause del declino che abbiamo identificato tendono ad agire soprattutto sui giovani. Si argomenta che sono i giovani a pagare i costi maggiori del declino del paese. In effetti, la rigidità del mercato del lavoro ha effetti soprattutto sui lavoratori non protetti dai sindacati, cioé i giovani. La recente difesa sindacale della pensione a 58 anni è esempio calzante. Allo stesso modo, le inefficienze dei mercati finanziari, le rendite nelle professioni, non facilitano il ricambio generazionale e quindi anch'esse colpiscono i giovani in maniera particolarmente accentuata. Infine, l'università allo sbaraglio,....., bèh, è ovvio. È quindi corretto, io credo, notare ed evidenziare che c'è una generazione nel paese che sta pagando cari gli errori di politica economica di questi passati decenni. In effetti questa generazione, i quarantenni e i cinquantenni, siamo noi (Tito, Vincenzo, io,...). Si suggerisce che, il fatto che i quarantenni ed i cinquantenni siano quelli che più sembrano perdere dalle politiche economiche passati e presenti, e il fatto che i quarantenni e i cinquantenni siano anche minimamente rappresentati nelle posizioni di potere della classe dirigente, privata e soprattutto pubblica, non è forse un caso.
Qual è la diagnosi profonda dei mali
del paese?
Il Capitolo III contiene un'analisi a questo proposito. Questa analisi è
difficile da riassumere in breve. È un misto di riferimenti a una sorta di
inconsapevole accettazione della situazione da parte della cittadinanza, che
non capisce né si interessa molto a cosa avviene, e al "familismo
amorale," inteso come caratteristica peculiare della cultura italiana, che
giustifica la mancanza di interesse per la situazione economica del paese. Il “familismo
amorale” inoltre induce le famiglie a operare trasferimenti a favore delle
nuove generazioni opposti e contrari a quelli che avvengono a livello di
politica economica del
paese. In questo modo quindi il “familismo amorale” fa sì che la politica
economica del
paese sia accettata nonostante essa "stia tradendo le nuove
generazioni". Insomma, ognuno si occupa dei propri figli, ma non dei figli degli altri, ripetono gli autori. Ci sarebbe moltissimo da discutere su questa analisi; specie da uno come me che su queste cose ci ha costruito una, seppur minima, carriera. Ma tralascio, perché la recensione sta diventando più lunga del libro, e perché tutto sommato, queste sono questioni di lungo periodo (forse anche lunghissimo -il libro di Banfield che per primo usa l'espressione "familismo amorale" si riferisce alla provincia di Potenza non molto dopo la guerra). Il declino del paese non si ferma cambiando la cultura dei cittadini, semplicemente perché non sappiamo come farlo. Bisogna agire su cause meno profonde, operando poi perché (o lasciando che) la cultura si aggiusti.
Quali sono le cure quindi per i mali
del paese?
Per fermarne il declino? Lasciamo stare cose tipo: fermare il familismo e il conseguente consociativismo, che proiettano i
giovani all'interno della famiglia invece che "fuori", in società. In pratica, il familismo e tutte le altre terribili caratteristiche della cultura italiana si manifestano nella struttura del mercato del lavoro, dei mercati finanziari, eccetera, come abbiamo visto sopra. È lì che dobbiamo agire. Allora, in pratica, che fare?
Il libro, ci fa piacere notare, non si limita ad analisi vaghe sulla cultura degli italiani, ma contiene una lista di proposte concrete. Riporto la lista:
i) "Pagare di più gli insegnanti migliori, quelli più capaci, più
preparati"; sottomettere gli studenti "periodicamente a test
oggettivi", e favorire altre forme di meritocrazia nella scuola
secondaria; favorire la meritocrazia nell'attribuzione dei fondi per la ricerca
all'università, e in generale introdurre competizione nelle università.
ii) Riformare la struttura contrattuale del mercato del lavoro per istituire
un contratto unico, a tempo indeterminato, con le seguenti
caratteristiche: sei mesi di prova (alla fine del quale il
licenziamento è possibile senza particolari costi), un periodo di
inserimento, fino ai tre anni dall'assunzione (in cui il lavoratore è
tutelato contro il licenziamento disciplinare e discriminatorio e riceve una
indennità in caso di licenziamento per ragioni economiche), un periodo di
stabilità (in cui la tutela contro il licenziamento si estende anche a
quello per ragioni economiche, suppongo secondo le linee di quello che succede
oggi ai contratti a tempo indeterminato).
iii) Assicurare un reddito minimo garantito a tutte le famiglie, come rete
di assicurazione sociale generalizzata.
iv) Varie forme di sussidio alla natalità, dalla costruzione di asili nido
al credito d'imposta per le donne, che copra alcune categorie di spesa, previa
documentazione, per i figli.
v) Deregolamentazione delle libere professioni, con una ristrutturazione a
favore della trasparenza delle tariffe dei professionisti.
vi) Riforma pensionistica a favore del
metodo contributivo, cioé a favore di pensioni a capitalizzazione, e con
abolizione delle pensioni di reversibilità.
vii) Liberalizzare taxi e trasporti pubblici, contenere il traffico urbano
mediante misure tipo il ticket d'ingresso.
E poi, più in generale, si ritiene che sia fondamentale dare spazio ai giovani nella economia e nella società. Argomentazioni a questo proposito sono sparse un po' per tutto il libro, e sono poi anche concentrate nell'ultimo capitolo, che discute di come garantire più rappresentatività e qualità della classe dirigente politica.
Chi avesse iniziato la lettura cercando di farsi un'idea del libro evitandosi le sue 158 pagine, si può fermare qui. Io però continuo con le mie opinioni, sulla questione delle cause del declino del paese e soprattutto sulle cure. Provo a coordinare il tutto in una serie di commenti.
Commento 1: Peccato di moderazione. Partiamo dale cause del declino: mercato del
lavoro inflessibile, mercati finanziari inefficienti e non competitivi,
generalizzate restrizioni alla concorrenza, mercato universitario inefficiente.
Tutte queste sono cause importanti del declino
del paese, a
mio parere; concordo pienamente con gli autori. (Il lettore può guardare alla nuvola di parole di NFA per vedere quanto abbiamo scritto su questi temi, tutti, a prova che non solo io sono d'accordo, ma, essenzialmente, lo siamo tutti).
Il libro però, riguardo al mercato del lavoro, mette in
evidenza più l’inefficienza della contrattazione centralizzata che non la
mancanza di flessibilità. Dopo tutto gli autori sono consci che “precarietà”
e’ una brutta parola. Io e gli amici di NFA abbiamo argomentato altrove, che è
proprio molta ma molta più precarietà che serve al mercato del lavoro italiano.
(Certo, la chiamiamo flessibilità che suona meno peggio di precarietà). È necessario per i lavoratori
e per le imprese che entrare e uscire dal mercato del lavoro sia facile e rapido. Il lavoro
nero, la scarsa occupazione delle donne, l’eccessiva disoccupazione giovanile,
specie al sud, i bassisalari per i
giovani, sono tutti fenomeni causati in parte rilevante dalla mancanza di flessibilità. Confrontiamo la nostra situazione con quella del Regno Unito, dove il mercato del lavoro è molto più flessibile (riprendo da un vecchio articolo a firma di tutta la redazione).
Nel Regno Unito il tasso di occupazione medio è di circa 17
punti percentuali superiore all'italiano: 74% verso il 57%! Questo
significa che il cittadino inglese medio ha molte più opportunità di
lavoro di quello italiano. Ma le cose in Inghilterra sono
particolarmente migliori per i settori più a rischiò del mercato del
lavoro, quelli particolarmente esposti al rischio di
inoccupazione. Il tasso di attività delle donne da 20 a 24 anni è quasi
del 70%, in Italia è appena sopra il 30%. Il tassi di attività per le donne è, per ogni gruppo di età, almeno di 10 punti percentuali più alto nel Regno Unito. La situazione delle donne è la stessa di quella dei giovani. Da
30 a 55 anni il tasso di attività in Italia e Regno Unito è pressoché
lo stesso. Il divario grande è nel mercato del lavoro dei giovani, le
vere vittime del sistema italiano. La differenza è di 25 punti
percentuali per il gruppo da 20 a 25 anni di età: nel
Regno Unito oltre il 70% lavora, mentre in Italia solo
il 45%. Il nostro problema è tutto qui. Questa è la differenza tra un
mercato del lavoro (e quindi una società) dinamico e vivo e uno
ingessato e necrotico! Se guardassimo a questi dati per il Sud del
paese, dove la rigidità, la contrattazione collettiva nazionale ed il
posto pubblico fisso la fanno da padroni, le cose sarebbero ancora più
drammatiche.
A mio avviso questo non è detto in modo abbastanza chiaro e
forte, nel libro. Un confronto tra il mercato del lavoro italiano e quello del Regno Unito o dell'Irlanda (che sta
attraendo i giovani migliori dalla Francia - 20 mila immigrati francesi in Irlanda, negli
ultimi anni - e dal resto dell’Europa a causa
della vitalità della sua economia e delle sue politiche liberiste nel mercato del lavoro) sarebbe stato molto utile ad argomentare a favore della flessibilità.
Commento 2: Peccati di omissione.
Ma a parte la questione del mercato del lavoro, ci
sono due peccati di omissione nella diagnosi del declino contenuta nel libro. A mio
avviso sono due peccati di omissione gravi: non si parla di tasse né di mezzogiorno.
Il paese è tassato a livelli altissimi. Una idea delle tasse in percentuale del PIL, in media, per diversi paesi viene dal rapporto di Citizens for Tax Justice, ed è contenuta qui. È vero, alcuni paesi del Nord Europa e la Francia hanno tasse più elevate, ma in Italia nel 2005 le tasse in percentuale del PIL erano sopra al 40%; circa il 5% in più che in Spagna, 10% in più che in Irlanda, e 15% in più che negli Stati Uniti.
Le tasse
sulle imprese– non compensate da efficienti
servizi pubblici- le rendono meno
competitive sui mercati internazionali. I dati sul cuneo fiscale, la differenza fra quanto un lavoratore costa
all'impresa e quanto il medesimo lavoratore guadagna dall'essere
impiegato, fanno impressione: il 38% in Italia, il 35% in Spagna, il 25% nel Regno Unito, il 19% negli Stati Uniti, l'11% in Irlanda. E la situazione peggiora drammaticamente. L'articolo di Andrea e Thomas Manfredi sulla oppressione fiscale documenta con chiarezza la mancata crescita del reddito disponibile delle famiglie dovuta all'aumento dell'imposizione fiscale.
E non è tutto qui. i) La spesa pubblica, come sappiamo, è spaventosamente inefficiente: questo significa che il cittadino e le imprese ricevono poco, relativamente ad esempio alla Francia, in cambio delle tasse; e ii) l'evasione è elevatissima e concentrata per professioni (sappiamo bene che i lavoratori dipendenti contribuiscono in misura sproporzionata al gettito fiscale): questo significa che i costi di inefficienza e distorsione del sistema fiscale sono enormi.
Inoltre il mezzogiorno riceve da cinque decenni trasferimenti e risorse nette. Le pensioni di invalidità, la sovra-rappresentazione delle popolazioni meridionali negli impieghi pubblici, gli immensi trasferimenti per la sanità al Sud sono gli esempi più ovvii. Un solo esempio: la spesa sanitaria rispetto al PIL ha il suo valore massimo in
Campania – dati 2004 – pari al 9,89% più che doppio del valore minimo,
registrato in Lombardia, pari a 4,46% (i dati provengono dal Rapporto Osservasalute 2007 pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni
Italiane che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma). Sorprendentemente, al Sud è anche concentrata una frazione molto elevata della evasione fiscale. Ad esempio abbiamo qui notato come dai dati della Agenzia delle
Entrate sulle stime dell'evasione fiscale IRAP risulti che l'intensità dell'evasione (Media 1998-2002 base imponibile evasa / dichiarata) sia ad esempio del 13% in Lombardia, del 22% in Emilia Romagna, cioé al livello per esempio della Francia; mentre sia superiore al 50% in buona parte del Sud, ad esempio
del 60% in Campania e in Puglia, del 65% in Sicilia, e addirittura del 93% in Calabria.
Una parte sostanziale (difficile da quantificare per ovvie ragioni, ma non credo di sbagliarmi nel definirla sostanziale) delle risorse distribuite al Sud sono distribuite attraverso la criminalità organizzata e
una classe politica ad essa funzionale. Tali trasferimenti e risorse hanno reso
il mezzogiorno completamente dipendente dal resto del paese, senza riuscire affatto – anzi – a
chiudere la distanza tra il Nord e il Sud in termini di reddito e di ogni
variabile socio-economica che si voglia utilizzare come indice di qualita’
della vita. La questione meridionale è viva e vegeta come ai tempi di Sidney Sonnino e poi di Gramsci.
Il declino italiano deriva in modo fondamentale, a mio avviso, dalla combinazione tra la eccessiva e distorta pressione fiscale e la questione meridionale. Un'analisi del declino che omette tasse e mezzogiorno è necessariamente parziale, a mio avviso, per una ragione fondamentale: il
paese non ha più margini di manovra per alcuna politica economica di sostanza. Ad esempio, una vera flessibilità del mercato del lavoro richiede seri (e costosi) ammortizzatori sociali, per ammortizzare appunto gli effetti di breve periodo di un mercato del lavoro flessibile. Ma non c'è spazio per nulla di simile, nel bilancio. Le tasse sono troppo elevate, non si possono alzare per finanziare gli ammortizzatori sociali. Non resta che tagliare la spesa altrove. Ma nessun sistema democratico taglia agilmente la spesa. E in Italia significherebbe tagliare soprattutto al mezzogiorno, dove la spesa è maggiore e più improduttiva. E quindi siamo bloccati.
Eppure tagliare le tasse è fondamentale, come abbiamo sostenuto altrove. (Qui non siamo in Amerika, dove c'è un dibattito serio tra coloro che pensano che le tasse vadano tagliate e coloro che pensano di no; il dibattito è serio in Amerika perché lì la pressione fiscale è al 30%; ai nostri livelli, oltre il 45%, non c'è storia, il paese è imbalsamato e le tasse vanno tagliate). Le tasse sul reddito individuale limitano l’offerta di lavoro. Chi fa
straordinari è solo chi può evadere la tassa marginale, che per redditi
tipici da professionista, è ben superiore al 50%. Ancora una volta,
guardiamo all’Irlanda, ma anche al Regno Unito. Il mezzogiorno potrebbe essere
l’Irlanda, crescere a ritmi 4 voltre superiori al resto dell'Italia per recuperare la
stagnazione dei decenni (secoli) passati. Certamente la criminalità organizzata non
aiuta nel confronto, ma i trasferimenti assistenziali passano ben da lì: non
aiutano il mezzogiorno, soffocano il Nord,
e in compenso aiutano la criminalità organizzata che li controlla.
Non c’è via d’uscita, a mio parere. Queste sono cause primarie del declino del paese. Il declino del
paese è legato in modo fondamentale all’eccessiva tassazione che soffoca le imprese produttive e
l’offerta di lavoro, all’evasione che concentra la tassazione tra i lavoratori
dipendenti e al Nord, alla spesa pubblica onnivora, inefficiente, che produce
assistenzialismo al Sud e arricchisce di denaro e potere la criminalità
organizzata. E quindi, se si parla di cure, non si può fare a meno di mettere in evidenza, meno spesa, meno tasse, più responsabilità fiscale al mezzogiorno (ebbene sì, federalismo fiscale, Michele e Aldo Rustichini ne hanno parlato da tempo). E poi certo, la rigidità del
mercato del
lavoro che penalizza i giovani specie al Sud, e le donne dappertutto, i mercati
finanziari che falliscono nell’obiettivo di finanziare e sostenere
l’imprenditorialità e la produttività; e la mancanza di concorrenza e
l’università in fallimento, certo, anch'esse non aiutano il paese.
Commento 3: Peccato di retorica. Il libro mette molto in evidenza quanto della situazione economica del paese i giovani paghino un costo elevato e soprattutto relativamente superiore ai cinquantenni e ai sessantenni. È chiaro che in un mercato del lavoro come il nostro i giovani faticano a trovare lavoro a tempo indeterminato. Costringere l'impresa ad assumere o a breve o a tempo indterminato (come in effetti oggi è il caso in Italia) significa trasformare quelle posizioni a medio termine in contratti a breve possibilmente rinnovati fino al raggiungimento del "medio termine" (con ogni sorta di inefficienze nel frattempo, comprese tante delle lamentate forme di precariato). È chiaro che in un mercato finanziario inefficiente e in mancanza di forme di concorrenza un po' dappertutto, le imprese non crescono, sono passate di padre in figlio, e i giovani non "figli di" fanno fatica a intraprendere qualunque cosa. È chiaro che in un mercato delle professioni molto poco concorrenziale, i giovani spendono anni in inefficienti forme di praticantato.
Ma la risposta a questi problemi deve essere strutturale, nel senso che deve agire sulle cause strutturali di questa situazione, non sugli effetti superficiali. Presentare la crisi economica del paese come una questione distributiva, i giovani perdono e i vecchi vincono, è forse retoricamente utile ma analiticamente controproducente. Si finisce per argomentare a favore di "quote per i giovani" o a favore di un "ricambio della classe dirigente", mentre deve essere chiaro che non di questo c'è bisogno, ma di una liberalizzazione del mercato del lavoro, così come di molti (quasi tutti) gli altri mercati (ne abbiamo discusso anche qui). Gli autori del libro, quando producono analisi, non cadono affatto nella tentazione di propugnare posizioni tipo "quote per i giovani" o "ricambio della classe dirigente"; ma la retorica è presente, fin dal titolo e questo ha motivato il mio commento.
Infine, anche se la questione fosse puramente re-distributiva, e cioé anche le la questione fosse che le politiche economiche favoriscono i vecchi, la questione non sarebbe così grave come spesso si pensa. I vecchi muoiono e lasciano di solito molto ai figli, e spesso lo fanno anche prima di morire. Molti dei giovani italiani se le sono già spese le pensioni dei propri genitori, da cui si sono fatti comprare la casa in cui vivono, da cui si fanno finanziare gli anni di praticantato e precariato, con le cui tasse si pagano la scuola che frequentano, e così via. Con questo non voglio certo sostenere che non fa differenza se si distribuisce a favore dei vecchi o dei giovani, la differenza c'è eccome. Ma non è così grave come distribuire a favore dei ricchi: i ricchi non hanno l'abitudine di dare i soldi ai poveri, né in vita, né in morte. I vecchi invece sì, danno soldi ai giovani, in forma di figli. (Gli economisti hanno anche un nome per questo tipo di argomentazione, Ricardian equivalence, che ci ricorda che l'argomento è vecchio come la teoria economica).
Commento 4: Peccato di omeopatia. Il lettore si sarà già chiesto, guardando alla lista delle politiche praticamente suggerite dagli autori, che relazione abbiano con la diagnosi del declino, come possano curare il declino. A mio avviso questo è il punto più debole del libro. Le cure nella lista sono minimali, cure omeopatiche per malattie mortali, e nemmeno poi tanto appropriate rispetto alla diagnosi.
Il reddito minimo garantito è politica discutibilissima da un milione di diversi punti di vista, soprattutto in termini degli incentivi perversi che potenzialmente genera (si pensi alle pensioni di invalidità così ampiamente distribuite specie al Sud). Ma soprattutto non se ne vede la funzione di cura delle cause del declino; anzi! Lo stesso vale per la proposta del contratto unico, strutturato per legge nei tempi e nei modi. Pare, ed è, misura opposta all'aumento della flessibilità del mercato del lavoro. Lo stesso argomento si può fare per i sussidi alla natalità. Onestamente non capisco. Sembrano politiche indipendenti. Certo, coi sussidi alla natalità forse nascerebbero più bambini, ma non si ovvierebbe in alcun modo ai disincentivi strutturali alla fertilità, disincentivi che ad esempio stanno nel mercato del lavoro, come abbiamo argomentato. Mi pare che queste politiche siano un modo di gettare soldi/finanziamenti ai problemi, senza utilizzare l'analisi delle cause dei problemi, che pure appare nei capitoli precedenti. Sulle altre politiche, deregolamentazione delle libere professioni, riforma pensionistica a favore del
metodo contributivo, liberalizzazioni varie, naturalmente sono d'accordo (anche se, nel caso delle pensioni, non vedo cosa c'entri la specifica questione delle pensioni di reversibilità: il metodo contributivo risolve la questione di per sé). Ma comunque sono proposte di cura minimali.
Tito e Vincenzo, io credo, hanno elaborato queste proposte, che io ho definito minimali, nella convinzione che nulla di più possa essere approvato oggi in Italia. Hanno probabilmente ragione: loro conoscono i vincoli politici del paese infinitamente meglio di me. Ma Tito e Vincenzo sono economisti e io credo che avrebbero fatto un ancora miglior servizio al paese propugnando le politiche economiche più efficaci, necessarie a fermare il declino, senza internalizzare i vincoli politici.
In conclusione, la mia risposta all domanda del titolo:
L'Italia ha tradito le nuove generazioni? Sì, ma non è questo il punto.
Confondere Vasco Rossi e Ligabue (il vero autore di "una vita da mediano") rivela che tu, Alberto, appartieni ormai alla generazione dei vecchietti.
che errore! lo correggo, troppo brutto.