Premetto che le argomentazioni che implicano la rinuncia (per disperazione?) a rendere efficienti le organizzazioni pubbliche, a mio avviso, non sono accettabili. Nel quadro di una amministrazione pubblica riorganizzata e di una politica rifondata eticamente alcune delle obiezioni proposte decadrebbero, e certamente questo dovrebbe essere un obiettivo d'ogni movimento che, liberale o meno, intenda riformare davvero il paese.
1. Particolarità del mercato sanitario
Ma lasciamo da parte questo argomento e cerchiamo di comprendere i meccanismi della domanda e dell’offerta nel mercato della salute per individuare il modello organizzativo che meglio si presta a fornire risposte di qualità in modo efficiente. Il mercato della salute non è un mercato classico, dove ci sono un venditore di un bene o servizio ed un cliente che paga per quello che riceve. È il più delle volte un mercato triangolare: c’è il cliente, che è il malato, ma che potrebbe anche essere un gruppo di individui (es., i lavoratori di un'azienda) oppure una popolazione (es., i bambini da vaccinare); c'è l’erogatore (provider), ovvero il singolo medico, oppure l’ospedale o l’azienda sanitaria che materialmente eroga beni e servizi sanitari; e c'è infine il pagatore (payor), che è il soggetto che si assume l’onere economico dei servizi forniti al cliente. Nei sistemi privati privati, cliente e pagatore coincidono: il malato si paga il medico, i farmaci, l’ospedale, etc. Ma più spesso il pagatore è soggetto diverso dal cliente: un'assicurazione, una mutua, oppure un'ASL. Pagatore ed erogatore possono essere poi uno stesso soggetto. È il caso delle ASL, che sono il più delle volte erogatori/pagatori.
È inoltre un mercato asimmetrico. Per la natura del bene venduto (la salute), l’erogatore si trova in una condizione di potere nei confronti del cliente, anche quando questi è il pagatore. Ha infatti la capacità di generare domanda per i propri beni e servizi, a prescindere da valutazioni di costo o di efficacia, su cui il cliente ha quasi sempre pochissima conoscenza, o alcuna. L’erogatore non pagatore (anche pubblico) tende ad essere efficiente nella produzione di servizi, ma anche ad aumentarne il numero, perché è generalmente pagato a prestazione (fee for service, FFS). Di conseguenza i pagatori devono porre in atto accorgimenti per contenerne le dinamiche di crescita degli acquisti di servizi. Queste limitazioni hanno in genere poco a che fare con aspetti sanitari, ma si fondano su meccanismi contrattuali rigidi (limitazioni delle coperture, tipo esclusione di patologie, oppure limitazione esplicita o mascherata della copertura a fasce di popolazione ad alto rischio), oppure su strumenti economico finanziari (limiti ai budget, ticket, etc.).
Il potere dell’erogatore è osservabile anche nelle organizzazioni erogatore/pagatore. Il personale medico/sanitario ha l’umana tendenza a valorizzare le sue competenze, e per valorizzarle deve utilizzarle. Tende a non considerare invece, per cultura e mentalità, che usa risorse non sue. Di qui il fenomeno dell’eccessiva prescrizione, dimostrato da moltissimi studi in ogni sistema e sotto ogni latitudine. Tuttavia l’organizzazione erogatore/pagatore riesce a controllare meglio il comportamento dei sanitari, perché questi, alla fine, sono dipendenti. È più facile quindi utilizzare strumenti gestionali e professionali per ottenere comportamenti più attenti alla qualità ed all’esito che non al volume. In particolare, la struttura erogatore/pagatore permette di influenzare i percorsi del malato fra ospedale e assistenza territoriale. Infatti è nel diverso interesse (professionale, economico) fra questi due presidi che spesso si generano inappropriatezza e spreco. Ovviamente anche le organizzazioni erogatore/pagatore utilizzano strumenti di contenimento della domanda di tipo amministrativo (ticket, liste di attesa, limitazione delle prestazioni), vissute come inique e vessatorie. Può succedere inoltre che la pressione dell’organizzazione sui medici dipendenti per il contenimento dei costi si estrinsechi in forme poco accettabili, di tipo coercitivo, a scapito della qualità o dei diritti dei pazienti (tempi di visita super contratti, deterioramento del rapporto medico paziente, etc.).
Un altro aspetto da considerare è che i sistemi sanitari in cui vige una generalizzata distinzione fra erogatore e pagatore (es. le vecchie mutue) sono basati sull‘erogazione di singole prestazioni e sono tendenzialmente rivolti solo ai malati o supposti tali. Il paziente riceve una serie di prestazioni da uno o più erogatori secondo percorsi che difficilmente riescono ad avere una regia unica. Gli erogatori hanno tutto l’interesse a proporre ulteriori prestazioni al paziente, trovando terreno fertile per ovvi meccanismi psicologici. Il malato è soggetto condizionabile e lo si può convincere facilmente che ha bisogno di ulteriori accertamenti o trattamenti e le richieste vengono trasferite, con tutta la pressione di cui un soggetto malato è capace, al pagatore. A costui spetta il lavoro sporco, se ci riesce: cioè negare prestazioni che dal malato vengono percepite come importantissime per la propria salute.
Se erogatore e pagatore sono un unico soggetto, al contrario, possono più facilmente adottare modelli basati sulla "presa in carico". L’organizzazione, con un atteggiamento proattivo e attento al complesso della persona, assume la gestione del malato, e non solo del malato, e lo guida attraverso percorsi predefiniti con un soggetto (in genere il medico di famiglia) che funge da regista.
In sintesi, quindi, i sistemi basati sulla distinzione fra erogatore e pagatore tendono ad essere efficienti nella produzione di beni e servizi, ma inefficaci complessivamente, e l’inefficacia tende ad essere scaricata sul pagatore. I sistemi con erogatore e pagatore unico hanno strumenti migliori per gestire l’efficacia complessiva, mentre l’efficienza produttiva è certamente maggiore nel caso si tratti di soggetti privati piuttosto che pubblici (specie in Italia). I soggetti erogatore/pagatore privati, che sembrerebbe a questo punto la soluzione ottimale, non sono però universalistici, e coprono generalmente solo determinate fasce di popolazione. Assistono infatti solo individui o gruppi di individui in grado di pagare il premio annuale (di tasca loro o attraverso datore di lavoro) e spesso non coprono determinate patologie a forte caratterizzazione sociale (malattie mentali, tossicodipendenze, etc.). Lo spiegano bene Hammersmith e Woolhandler, della mia amata Harvard medical School, in una polemica di una decina di anni fa se fosse meglio il NHS inglese o Kaiser Permanente.
2. L'esperienza USA
È possibile confrontare i due modelli? Non da noi, ma in Amerika si. Negli USA, accanto ai tradizionali modelli FFS, coesistono organizzazioni con sistemi di pagamento a quota capitaria (prepaid), per esempio le Health Maintenance Organizations (HMO, es. il celebratissimo, in Europa, Kaiser Permanente, fondato da Henry J. Kaiser nel 1942). Queste organizzazioni usano una modalità operativa definita "managed care" e sono fornitori sia di Medicare che di Medicaid (programmi federali pubblici) che di privati come assicurazioni, datori di lavoro, singoli individui. Riporto la definizione di managed care data dalla National Library of Medicine.
Health insurance plans intended to reduce unnecessary health care costs through a variety of mechanisms, including: economic incentives for physicians and patients to select less costly forms of care; programs for reviewing the medical necessity of specific services; increased beneficiary cost sharing; controls on inpatient admissions and lengths of stay; the establishment of cost-sharing incentives for outpatient surgery; selective contracting with health care providers; and the intensive management of high-cost health care cases.
Le HMO operano attraverso un medico di famiglia che agisce come coordinatore (e anche come gatekeeper) e gestisce i percorsi dei suoi assistiti secondo linee guida prestabilite. Inoltre il malato può utilizzare solo le strutture della HMO o quelle con cui questa ha un contratto. Insomma, una HMO funziona esattamente come una ASL, solo che non è pubblica ma privata.
Le prime forme di Prepaid Health Plan hanno avuto origine agli inizi del secolo scorso, ed erano forme cooperative legate a centri socio sanitari (studiando gli Stati Uniti è incredibile quante esperienze socialmente e culturalmente avanzate si incontrino). Queste forme di assistenza sociale furono fieramente combattute dall’American Medical Association che propugnava il FFS. Per colmo dell’ironia, il decollo delle HMO è dovuto a Nixon che nel 1973 firmò il Health Maintenance Organization Act, che le rendeva in qualche modo istituzionali, obbligando i datori di lavoro con più di 25 dipendenti che offrissero una qualche forma di assicurazione sanitaria ad includere anche Health Plan con delle HMO certificate a livello federale (fu una legge bipartisan, perché fortemente supportata anche da Edward Kennedy).
La discussione sulle HMO è molto ideologica. Si veda, per esempio, un paper interno del 1975 della RAND Corporation di Santa Monica (una organizzazione for profit che fa ricerca sui sistemi sanitari) che attacca duramente l’HMO Act con argomentazioni solo in parte scientifiche (alcune superate ai giorni nostri).
La spinta verso modelli prepaid più che da aspetti di qualità è motivata dal contenimento dei costi. In questo i modelli prepaid si sono dimostrati efficaci, tanto che nel corso degli anni 80 e 90 si svilupparono enormemente. La copertura con piani di managed care di cittadini americani pagata dai datori di lavoro passa dal 5% della metà degli anni 80 all’85% nel 1998[1]. Nel 1998 la stessa percentuale per gli assicurati da Medicaid è di oltre il 50%[2].
C’è una vasta letteratura che paragona servizi sanitari a pagamento FFS con quelli prepaid, con risultati non conclusivi. Si possono però identificare un paio di aspetti su cui c’è abbastanza concordanza: primo, non emergono dirompenti differenze di qualità, con una leggera superiorità dei modelli prepaid; secondo, i modelli prepaid costano tendenzialmente meno e producono meno prestazioni, anche se su questo le valutazioni poi divergono. C’è chi mette l’accento su una gestione accorta della domanda, chi sulla limitazione dei diritti degli assistiti.
In effetti il volano principale (l’unico?) della crescita della managed care negli anni 80 e 90 è stata l’efficacia nel contenere i costi. In questo si è forse esagerato[3]: la percezione nell’opinione pubblica della managed care è diventata via via così negativa da provocare un deciso movimento politico di contrasto nella politica sanitaria di molti stati USA. Non a caso ancora oggi l’U.S. Centers for Medicare & Medicaid Service descrive le HMO per gli aspetti negativi e non per quelli positivi
A type of health insurance plan that usually limits coverage to care from doctors who work for or contract with the HMO. It generally won't cover out-of-network care except in an emergency. An HMO may require you to live or work in its service area to be eligible for coverage. HMOs often provide integrated care and focus on prevention and wellness.
Le lobby dei medici hanno poi fatto il resto per motivi detti e non detti, molto analoghi a quelli che avanzano i sindacati medici in Italia. I detti sono l’autonomia professionale e la difesa della salute dei pazienti. I non detti sono una contrazione delle remunerazioni e una diminuzione del potere contrattuale con i fornitori di beni e servizi (specie con le ditte farmaceutiche), potere contrattuale che si basa sulla libertà di orientare la domanda nella direzione desiderata dal medico.
La politica ha fiutato il vento ed imposto forti limiti alla managed care. A muoversi sono stati gli stati, usando diverse legislazioni dette “Any Willing Provider” (AWP), che sostanzialmente dichiarava illegittime le limitazioni di scelta di medico e provider imposte dalle HMO. La managed care come tale ha pertanto subito un arresto nel suo sviluppo, ma le HMO sono rimaste, hanno aggiustato il loro modello di business, e continuano a prosperare.
Il problema dei costi (e dell’equità di accesso) nella sanità USA però non è cambiato molto. Senza entrare qui nei dettagli del dibattito (forse più appropriato il termine diatriba) suscitato dall’ObamaCare, quello che ci interessa dal nostro punto di vista sono le nuove forme organizzative che sono nate negli ultimi anni, le Accountable Care Organizations (ACO), o simili.
Per dirla in due parole, le ACO sono essenzialmente fornitori, singoli o consociati, che vengono pagati con meccanismi incentivanti che premiano sia il rispetto di budget prefissati che di livelli di qualità misurati con indicatori. Non entro nei dettagli che sono alquanto sofisticati. Basterà dire che al sistema ACO partecipano sia provider FFS che prepaid, e che difficilmente le ACO assistono un singolo individuo, ma sono più dedicati a gruppi di popolazione, geografiche o epidemiologiche. Inoltre riprendono alcuni aspetti gestionali della managed care: importanza della PHC anche come gatekeeper, ma con molta enfasi sulla qualità e meno sul costo. Inoltre si assumono una quota del rischio d’impresa derivante dalla gestione del paziente. Le ACO sono un frutto dell’Obamacare, e sebbene siano nate e cresciute entro Medicaid, stanno avendo successo anche con pagatori privati for profit. Più in generale, ACO a parte, sta ormai sparendo, specie nei centri urbani, il modello singolo provider a favore di reti integrate di provider diversi: medici, ospedali, etc.[4]
Sembra proprio un aggiustamento dei modelli di managed care dopo la debacle degli anni 90: contenimento dei costi, certo, ma anche (soprattutto?) qualità: from volume to value[5].
Anche sulle ACO è in corso un acceso dibattito, in cui non entriamo, anche perché sono troppo recenti per disporre di esperienze consolidate. Citerò solamente un paio di early reports sul primo/secondo anno di attività di un campione di 32 ACO. Il primo (un report indipendente), trova che su 32 ACO, 23 non differiscono sostanzialmente, nelle spese, da organizzazioni FFS, mentre altre 8 hanno generato un risparmio per Medicare di $155 milioni ed una. invece. un maggior onere di $ 8.5 milioni. Il secondo studio, forse meno indipendente, [6] esamina i risultati del secondo anno di sperimentazione e rileva una trend positivo per tutte le ACO sia nei risparmi, per Medicare, che negli indicatori di qualità di performance.
Il nostro interesse sta nel fatto che anche negli USA la spinta per sviluppare modelli organizzativi diversi dal FFS puro e semplice è forte. Anche nelle ACO che utilizzano contratti FFS vengono introdotte modalità organizzative e di gestione che non lasciano la formazione della domanda di beni e servizi alla pura logica di "domanda e offerta", ma cercano di governarla ed indirizzarla. E molti pensano tout court che il pagamento FFS sia uno dei principali volani delle dinamiche dei costi in sanità.
3. Lezioni per l'Italia: e' possibile privatizzare, almeno in parte?
Ma è possibile l’introduzione di elementi di privatizzazione nel SSN senza il passaggio a modelli a prestazione? Il modello presa in carico e gestione della domanda è peculiare del SSN, sta nel suo DNA. Credo vada preservato anche introducendo nel SSN strategie per sfruttare modalità di gestione privatistica (ovviamente anche questa è una posizione ideologica). La lunga digressione sulla ricerca organizzativa negli USA ci dice che è possibile. Il SSN potrebbe acquistare da soggetti privati non singole prestazioni, ma percorsi assistenziali a gruppi di individui. Attenzione, questo non vuol dire affidare ad un soggetto esterno la regia di percorsi (vedi l’esperienza dei medici di famiglia titolari di budget in Gran Bretagna). Vuol dire che il soggetto privato si deve far carico di gestire il percorso del malato e di erogare il grosso delle prestazioni (magari acquistandone da terzi solo alcune molto specialistiche di terzo livello), venendo pagato anche in base a indici di qualità. Il finanziamento a quota capitaria, in uso nel SSN, favorisce questo modello. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di mantenere un sistema universalistico e con incentivi all’efficacia, mutuando contemporaneamente dal privato la capacità di perseguire l’efficienza nella fornitura del servizio per se. Il più grande vantaggio di un sistema siffatto sarebbe l’immediata estromissione della politica dalle ASL e la possibilità di gestire il personale con contratti e procedure di diritto privato.
Il fornitore privato potrebbe assistere malati con determinate patologie (es. i diabetici, i cardiopatici), oppure, meglio, una popolazione geografica. Si potrebbe addirittura appaltargli la gestione di una ASL nel suo complesso. Il già citato Kaiser Permanente è molto efficiente ed efficace, e pertanto costituisce un modello. Non è universalista, perché seleziona la popolazione che assiste in termini di reddito e non garantisce tutta la gamma di servizi forniti dal SSN. In un modello universalistico la popolazione seguita da un ipotetico Kaiser Permanente nostrano (chiamiamolo il "gestore") non sarebbe più selezionata in base alla capacità di pagare le rate, perché se ne farebbe carico il SSN. In Italia dunque sarebbe più difficile realizzare un profitto
Un simile modello sarebbe realizzabile? E sarebbe sostenibile?
Sarebbe certamente realizzabile con gli appropriati accorgimenti manageriali e finanziari. Dirò di più. Il gestore privato (o i gestori privati) di una ASL sarebbe avvantaggiato perché troverebbe organizzazioni che, con tutti i loro limiti, sono comunque consolidate e stanno storicamente sviluppando una forte capacità gestionale. I gestori dovrebbero avere una loro solidità patrimoniale e operativa, e bisognerebbe studiare un sistema di tariffe a quota capitaria più sofisticato dell’attuale, classificando gli assistiti in base a schemi che considerino le principali condizioni croniche oppure gli episodi di cura. In aree ad alta densità di popolazione (tale da sostenere la presenza di più ospedali, vale a dire nelle aree urbane) si potrebbero ipotizzare più ASL PRIVATE in concorrenza fra loro (questo non sarebbe possibile invece in aree in cui fosse giustificato un solo ospedale se si vuole mantenere il modello integrato ospedale + territorio).
Il finanziamento dell’utile per il privato può derivare da quel 30% circa di inappropriatezza che la letteratura universalmente valuta esistere in ogni sistema sanitario. Non mi dilungo qui su questo tema che porterebbe via molto spazio. Se c’è interesse, potremmo dedicarvi una discussione in seguito. Per l’Italia mi basta citare un articolo di Antonino Cartabellotta
Categoria sprechi |
% sprechi |
Mld di € |
Sovra-utilizzo di interventi sanitari inefficaci e inappropriati |
26% |
5,72 |
Frodi e abusi |
21% |
4,62 |
Tecnologie sanitarie acquistate a costi eccessivi |
19% |
4,18 |
Sottoutilizzo di interventi sanitari efficaci e appropriati |
12% |
2,64 |
Complessità amministrative |
12% |
2,64 |
Inadeguato coordinamento dell’assistenza |
10% |
2,20 |
Ovviamente si tratta di indicazioni di massima, e certo un gestore privato non potrebbe automaticamente fare cash su tutti questi punti. Ma potrebbe raccogliere la sfida per recuperare appropriatezza, e generare risparmio per il pubblico oltre che il proprio utile.
L’opposizione al privato in sanità, in Italia, è molto ideologica ma si basa anche su valide preoccupazioni. Come detto prima, in Italia non è che il sanitario privato sia stato un punta di lancia, ed anche le esperienze più avanzate (San Raffaele a Milano, ospedale di Padre Pio in Puglia, Humanitas) hanno mostrato forti limiti culturali, gestionali e politici (sic) su cui stendiamo un velo pietoso. Ma l’Amerika, questo grande paese, ci dimostra che un privato serio può fare profitto e qualità. È stato appena pubblicato un grosso studio (open text) che lo dimostra.
Perché farlo, ossia perché andare verso il privato nella gestione ed offerta dei servizi ASL? In primo luogo, perché la speranza di spodestare i partiti e le loro clientele dalla gestione dei servizi sanitari è comunque bassa, e richiede tempo. Poi perché l’obiettivo di uno stato sociale è che i bisogni assistenziali della popolazione siano soddisfatti. Se un modello che sfrutta la capacità gestionale del privato si rivelasse efficace, senza ideologismi, perché no?
Questo articolo nasce da una chiacchierata con Carlo Perucci che per primo mi ha suggerito l’idea che si potesserero privatizzare ASL intere.
[1] Titlow, K., and E. Emanuel. Employer Decisions and the Seeds of Backlash. J Health Politics, Policy and Law, 1999, 24:941 – 947.
[2] Oliver, T. R. Policy Entrepreneurship in the Social Transformation of American Medicine: The Rise of Managed Care and Managed Competition. J Health Politics, Policy and Law 2004, 29:701 – 734.
[3] Born PH, Query JT. Health Maintenance Orqanization (HMO) Performance and Consumer Complaints: An Empirical Study of Frustrating HMO Activities. Hosp Top 2004, 82(1):2-9
[4] Cutler DM Editorial: Who Benefits From Health System Change?Health System Change and Consolidation. JAMA. 2014;312(16):1639-1641. doi:10.1001/jama.2014.13491
[5] Mayes R. Moving (realistically) from volume-based to value-based health care payment in the USA: starting with Medicare payment policy. J Health Serv Res Policy, 2011, 16: 249–251 DOI: 10.1258/jhsrp.2011.010151
[6] The Pioneer Accountable Care OrganizationModel. Improving Quality and Lowering Costs. JAMA 2014, 312:1635-6
L'articolo è davvero interessante, tuttavia questa affermazione la trovo del tutto indimostrata:
" Il più grande vantaggio di un sistema siffatto sarebbe l’immediata estromissione della politica dalle ASL e la possibilità di gestire il personale con contratti e procedure di diritto privato."
Il problema italiano non mi pare di natura tecnico-istituzionale (la forma ASL scimmiotta una forma privatistica) ma di atavica confusione fra "potere" e "controllo", per cui sospetto ci sarebbero ASL private che fanno riferimento a potentati politici o sociali.
In altre parole chi mi garantisce che un unico potentato (ad esempio un'associazione religiosa con rilevante potere economico ed influenza politica) non prenda il controllo di un'ASL privata influenzando il controllo dell'efficacia a cui miro unificando pagatore e prestatore?