Esiste un’isola felice sopravvisuta al diluvio della crisi globale. L’unico paese europeo a non subire una violenta recessione per l’intero anno 2009 è stata la Polonia. Mentre l’intera economia europea crollava mediamente di un -4,2%, l’economia polacca cresceva giuliva del +1,7%. Polonia a parte, il 2009 non ha risparmiato nessuno, colpendo pesantemente paesi grandi (Italia –5,0%, Germania –4,7%), piccoli (Austria –3,9%, Svizzera –1,9%), del Nord (Svezia –5,1%), del Sud (Grecia –2,0%), dell’Ovest (Spagna –3,6%) e dell’Est (Ungheria –6,3%). Non si può di certo dire che il successo polacco sia dovuto ad un dinamismo comune nell’Est europeo perché dopo quindici anni di crescita sostenuta questi paesi hanno subito un crollo ben peggiore della media europea (Lettonia –18,0%, Lituania –14,8% per nominarne un paio). Qualcosa di giusto e di diverso devono pure averlo fatto questi polacchi, ed è bene analizzare più a fondo a cosa sia dovuta questa prosperità (relativa) ed imparare quale vincente politica economica sia stata implementata.
Mentre nel biennio 2008-2009 l’Europa perdeva un -1% dei suoi occupati (3 milioni di lavoratori), l’occupazione polacca cresceva, imperturbata dalla crisi globale, di un sorprendente +4% (600 mila lavoratori). Una tale solidità di fronte alla recente tempesta economica deve per forza avere radici profonde, e difatti è da diversi anni che la Polonia avanza convinta. Come altre nazioni dell’Est Europa, è da metà degli anni novanta che il PIL polacco cresce ad una media del +4%, ma guardando i dati sull’occupazione c’è una svolta particolare nel 2003. Da metà anni ’90 fino al 2003 l’economia cresceva ma la disoccupazione aumentava. La percentuale di popolazione occupata era crollata dal 58,9% nel 1997 fino 51,2% nel 2003. La Polonia soffriva in effetti seri problemi di impieghi, avendo la percentuale di occupazione più bassa in Europa, rispetto ad una media europea di popolazione impiegata del 62,6%. Prima del 2003 era l’aumento di produttività, non di lavoro, che spingeva la crescita economica. Questo era dovuto per la maggior parte ad efficenze guadagnate durante la transizione dall’era comunista.
Dall’infimo 51,2% nel 2003, come per magia, l’occupazione polacca si è impennata raggiungendo il 59,3% nel 2009. La crescita economica polacca di questi ultimi 7 anni non è dovuta ad un aumento di produttività, ma ad un sostenuto aumento della forza lavoro. Che cosa è successo? La buona sorte occupazionale non pare essere dovuta all’accesso all’Unione Europea nel 2004. Altri nove paesi entrarono nella UE in quell’anno, e anche se tutti videro aumentare l’occupazione, solo la Polonia non ha subito un recente declino occupazionale causato dalla crisi globale. Inoltre, è risaputo che gli effetti sul mercato del lavoro europeo si sono fatti sentire ben prima, dato che già negli anni novanta si registravano forti flussi migratori dall'Est Europa. Le fortune del mercato del lavoro polacco non sono neanche riconducibili ad investimenti esteri. L’arrivo di capitale straniero può spiegare l’aumento di occupazione polacca in buona parte di questo decennio, ma gli investimenti stranieri erano altrettanto robusti durante il declino occupazionale degli anni novanta, e l’improvviso prosciugamento di capitale estero dovuto alla crisi finanziaria non ha intaccato il mercato del lavoro polacco nel 2009.
Per capire cosa sia successo bisogna analizzare un po’ più a fondo. Ricapitolando, il successo economico polacco di fronte all’ultima crisi globale è dovuto ad una sostenuta e inscalfibile crescita dell’occupazione che ha le radici nel 2003. Che cosa successe nel 2003? Successe che la Polonia riformò le normative sul lavoro. Per capire che tipo di riforma abbiano fatto basta guardare la composizione dei due milioni di posti che hanno creato dal 2003. L’85% dei nuovi impieghi sono a tempo determinato, ossia di cosiddetti precari. Sono posti di lavoro che, secondo un recente studio econometrico, sono stati occupati non solo da disoccupati in cassa integrazione, ma in buona parte anche da tanti potenziali lavoratori scoraggiati. I due milioni di nuove posizioni a tempo determinato sono composti in maggior parte da giovani, e soprattutto da giovani donne. In conclusione la Polonia ha liberalizzato il mercato del lavoro basandosi su posti di lavoro precari; però, nell’insieme, questa occupazione precaria si è rivelata robusta e durevole anche di fronte alla recente crisi.
Ho tralasciato un piccolo particolare: la riforma polacca viola spudoratamente le normative sul lavoro dell’Unione Europea del 1999 e, nel 2008, la UE ha ripreso la Polonia per non dare sufficente protezione ai lavoratori precari. In sintesi la riforma polacca aboliva il limite di tre contratti a tempo determinato, e del loro massimo di tre mesi ciascuno. In seguito la Polonia ha reintrodotto il limite di tre contratti, ma dopo due settimane di disoccupazione è possibile iniziare un nuovo ciclo. Dal punto di vista del datore di lavoro questo facilita l’assunzione perché, evitando il costo del lavoratore permanente, l’imprenditore assume più facilmente basandosi solo su costi di breve termine. In Polonia questo ha creato un ciclo virtuoso e sostenuto, addirittura di fronte all’ultima crisi, intaccando però la sicurezza rappresentata da una posizione a tempo indeterminato.
Dunque, le fortune della Polonia potrebbero avere vita breve se costretta da Bruxelles a riallinearsi con le normative UE. A meno che l’Europa non decida di considerare l’esperimento polacco come un esempio da seguire per il resto d’Europa. L’ideale sarebbe senzaltro avere un sistema di tipo danese, con flessibilità nel mercato del lavoro (che favorisce i datori di lavoro) e servizi sociali estremamente generosi (che sostituiscono la pace d’animo garantita da una posizione permanente). Putroppo paesi come la Polonia (o ancora di più come lo stato italiano) hanno una situazione di conti pubblici che non consente una generosità scandinava con i propri disoccupati. Per questo una liberalizzazione alla polacca può essere la soluzione per far ripartire un mercato del lavoro stagnante. Ciò consentirebbe di aumentare il gettito fiscale ed alleggerire gli onerosi costi per lo stato di una disoccupazione cronica, risparmiando così risorse da utilizzarsi poi per l’implementazione di un sistema scandinavo di servizi sociali.
Lavoro da considerarsi merce a tutti gli effetti dunque.
ma può questo essere condiderato tale?
mah
Tu cosa proponi? Lo consideriamo un servizio? Per me va bene ...
Oppure preferisci lavorare gratis, che così non "mercifichi" il (tuo) lavoro?
Anche quella è un'ipotesi interessante. Potremmo lavorare gratis e vivere della generosità degli altri. Dicono possa funzionare ...