In una intervista resa a La Stampa pochi giorni addietro, Guido Rossi suggeriva che "Tremonti non ha tutti i torti". Si riferiva all'ultima fatica editoriale dell'immarcescibile dottorino della Valtellina. Come gli si conviene, il Professor Rossi non si è fermato ad una semplice battuta, e nell'intervista ha elaborato il suo pensiero. Io, nel mio piccolo, penso che il testo di Tremonti sia una cagata pazzesca. Il libro, se cosi lo vogliamo chiamare, dà ampia evidenza, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di quanto limitati siano i mezzi del ragionier Giulio da Sondrio. Rabbrividisco al pensiero che un cervello del genere, tra qualche settimana, possa nuovamente aleggiare ai piani nobili del palazzo di via XX Settembre. (Nota al margine: nella stessa intervista, Rossi si è concesso uno svarione quando ha maldestramente interpretato la motivazione fornita dal giudice costituzionale americano PaulStevens nel caso intentato dallo Stato del Kentucky circa la costituzionalità dell'iniezione quale metodo di esecuzione - una distrazione, o la senilità che avanza?)
Devo dire, però, che le due orette che ho passato sul libercolo non sono state del tutto inutili. Mi hanno ricordato una delle ragioni per cui io non ho nulla a che fare con la destra conservatrice che in Italia ha ottenuto una forte maggioranza alle ultime elezioni. E questo non è poco. Per coloro che sono così gentili da leggermi, ma non si vogliono immolare leggendo tutti gli sproloqui che seguono, ecco una breve summa del pensiero tremontiano. La globalizzazione ha portato alla delocalizzazione di una lunga serie di mansioni verso Paesi in via di sviluppo e all'immigrazione di petulanti orde di diseredati. Queste dinamiche stanno inesorabilmente schiacciando la nostra forza lavoro a basso skilllevel e stanno ponendo sfide immani ai sistemi in cui si articolano le nostre società (leggi: europee). Non v'è altra soluzione che rallentare, se non fermare, il processo di globalizzazione -- riducendo fortemente l'immigrazione e salvaguardando i produttori europei via dazi e sussidi vari. Peccato che, in questo modo, i poveracci del mondo se la prendano ancora una volta dove non batte il sole... ora gli sproloqui.
Prima di tutto, un breve accenno alla prosa tremontiana. Io sono ben consapevole di non essere la penna più felice del reame. Ogni volta che mi accingo alla scrittura, mi impegno per raggiungere l'obiettivo minimo di farmi comprendere. Se poi, di tanto in tanto, mi riesce il colpo stilistico, tanto meglio. Tremonti, al contrario, crede di essere un letterato di prim'ordine. Si esprime con una pressoché infinita serie di analogie incomprensibili e di aforismi imperscrutabili. È auto-referenziale (cita unicamente i suoi libri ed articoli, degni di outlet come l'Intrepido e il Monello - ve li ricordate?), conia neologismi in quantità (mercatismo, squadratura, ibridare, ... ), e si espone a cadute stilistiche del tipo "La storia si può infatti ripetere all'incontrario." All'incontrario? Ma cosa fanno alla Mondandori? Dormono?
Veniamo ora ai contenuti. I primi due capitoli sono digressioni sulle dinamiche e gli effetti della globalizzazione, che secondo il Nostro ci starebbe portando all'apocalisse. Giuro che avrei voluto sintetizzarne i contenuti, ma il pensiero Tremontiano è sì complesso ed articolato, che il mio intelletto non è riuscito nell'intento. Pertanto mi limito ad illustrare una serie di castronerie, sperando che vi risultino esilaranti tanto quanto lo sono state per me. Prometto che farò giustizia a Giulietto più sotto, quando descriverò e commenterò la sua tesi principale.
L'apertura, c'era da aspettarselo, ci propina per l'ennesima volta la retorica malthusiana. Il commercialista lumbard scrive:
"Se il numero dei bovini da latte o da carne che ci sono nel mondo resta fisso, ma sale la domanda di latte o di carne, allora i prezzi non restano uguali, ma salgono anche loro... La squadratura che si sta così determinando, tra offerta che resta fissa e domanda che cresce, ha avuto e avrà nel mondo un effetto strutturale sostanziale: la salita globale dei prezzi. E dunque del costo della vita"
Biensur, Monsieur Tremonti. È vero. Così come è vero che la mia cara nonnina, se avesse le ruote, potrebbe essere un treno. Mi spiega perché la maggior domanda non dovrebbe portare ad un aumento dell'offerta? Nel caso di risorse ad offerta molto rigida, come potrebbe diventare il petrolio, negli ultimi 250 annni la pressione dei prezzi ha sempre portato all'individuazione di alternative. Solo poche settimane fa, il WallStreetJournal ricordava che l'olio di balena alimentava la maggior parte delle lampade negli Stati Uniti della prima metà dell'Ottocento. Quando i prezzi salirono, si cercarono alternative. Nel 1846, AbrahamGesner comincio a sviluppare il kerosene. Alla fine del secolo, l'olio di balena costava meno di quanto costasse nel 1831.
Più avanti, il noto intellettuale valtellinese si interroga sulle soluzioni al problema dell'inquinamento e dell'esaurimento delle risorse naturali. La conclusione, per il filosofo lombardo prestato alla ragioneria, deve necessariamente essere quella di
"fermare il mercatismo, l'ideologia forsennata dello sviluppo forzato spinto dalla sola e assoluta forza del mercato." E poi pondera: "...perché penalizzare ora i Paesi in via di sviluppo? Perché le ragioni dell'ambientalismo dovrebbero valere solo ora, con l'ingresso dell'Asia nel mercato mondiale?" Si risponde: "Per una ragione molto semplice e non solo per astuzia politica o per egoismo occidentale in generale ed europeo in particolare. Perché non si può rifare la storia, non si può guardare indietro, si può solo guardare avanti."
E sì, cari fratelli asiatici. Potevate svegliarvi prima... ora è troppo tardi. Siamo arrivati prima noi. Dice davvero sul serio? Pare di si. Ma c'è di più.
"La vecchia sequenza tra le varie età della storia è stata finora scandita nel passaggio dall'età mediterranea a quella europea e a quella atlantica. La nuova storia può andare oltre, passando direttamente dall'Atlantico al Pacifico. Saltando l'Europa."
Secondo Tremonti, il sud-est asiatico è sempre stato la regione più arretrata del mondo. Che abbia avuto la scarlattina, il bimbo Giulietto, quando la maestra delle scuole elementari parlò alla classe dei racconti di Marco Polo?
Altra chicca, questa sulla Cina.
"... la Cina ha un'ambizione strategica: sostituirsi all'Occidente nella guida della... rivoluzione della genetica, applicata ai prodotti agricoli e all'uomo. A favore della Cina, un decisivo fattore di successo in questa strategia dovrebbe essere costituito dal fatto che, a differenza dell'Occidente, la Cina non ha in questo campo vincoli, remore o limiti di tipo morale o legale."
Certo, ha ragione il buon Tremonti. I cinesi sono tutti bastardi. Gente senza scrupoli, automi senza cuore che altro non vogliono, se non la supremazia sul mondo occidentale. Ma ci rendiamo conto? E ancora:
"Quando lo sviluppo porrà fine alla dipendenza finanziaria della Cina dall'occidente, quando la tecnologia le permetterà di interrompere il dominio della USNavy sulle sue rotte marittime - perché le masse continentali si controllano dal mare e non viceversa -, allora lo scenario geopolitico sarà diverso e più complesso."
Penso che l'assurdità dell'accenno ai blocchi navali non sia sfuggita a nessuno. Chissà, il buon Tremonti potrebbe essere un appassionato lettore di Patrick O'Brian e si è voluto concedere una licenza poetica. Se questo fosse il caso, lo perdonerei senza riserve. O'Brian piace anche a me. Ma la troiata sulla dipendenza finanziaria della Cina, ad alcuni non addetti ai lavori può essere sfuggita. L'ultimo anno in cui la Cina ha avuto un deficit di conto corrente è stato il 1993. Da allora, ha inanellato una serie di surplus crescenti che l'ha portata ad avere una posizione finanziaria netta positiva, il che significa che la Cina presta denaro al resto del mondo. Nel 2006, il flusso netto di investimenti verso l'estero è stato di ben 250 miliardi di dollari. Quale dipendenza finanziaria?
Il resto del libercolo è dedicato all'esposizione di tesi e di indirizzi politici ben noti. La tesi principale è che la globalizzazione, soprattutto a causa della velocità con cui sta procedendo, è una calamità per l'Europa Occidentale. Trovo che "globalizzazione" sia un neologismo inutile. Qualcuno mi spiega perché non avremmo potuto continuare ad argomentare di "maggiore mobilità dei fattori"? Perché di questo si tratta. Per ragioni tecnologiche, ma soprattutto per la riduzione di ostacoli creati dall'uomo (dazi, quote, sussidi, e porcate varie), sta diventando sembre più facile (meno costoso) spostare uomini, capitali, beni e servizi da un lato all'altro del pianeta. Per Tremonti, questa facilità di movimento va a detrimento degli europei perché, in uno spazio temporale minimo, 1) si sono ritrovati milioni di Unni sulla soglia di casa e 2) quando se ne stanno nel loro Paese, gli stessi Unni, offrendosi di lavorare per un infinitesimo di quanto percepiscono lavoratori europei impegnati nelle stesse mansioni, rubano loro il lavoro (nonostante la produttività degli Unni sia più bassa).
La tesi secondo cui c'è un limite al numero di immigrati che un Paese può assorbire, l'ho sentito migliaia di volte. Si basa sul presupposto che l'immigrazione impone costi di aggiustamento eccessivi agli indigeni. L'immigrazione (a) impone senz'altro un adeguamento dimensionale di tutte le strutture, produttive, educative e sociali, (b) porta ad una variazione della composizione della popolazione per livello di skill e impone (c) un aggiustamento alla diversità. L'aggiustamento di cui al punto (a) presuppone un costo per gli indigeni in termini di minor reddito pro-capite. D'accordo. Il punto (b) implica un effetto negativo sui salari dei lavoratori indigeni a skill basso, solo nel caso in cui vi siano restrizioni al commercio con l'estero. In assenza di tali restrizioni, l'effetto negativo si avrebbe anche in assenza di immigrazione. È il punto c) che mi risulta totalmente indigesto. Io ho la fortuna di vivere in una delle città con più diversità al mondo. Dati del 2005: il 36% della popolazione di New York è nata all'estero e vi si parlano 170 lingue diverse. Essenzialmente tutte le religioni sono professate. Ci sono circa tre milioni di cattolici, un milione di ebrei, e 600mila musulmani. Nonostante questo, non ci sputiamo in faccia e la maggior parte di noi non gira neppure armata. Tutt'altro. È proprio la diversità l'attrazione numero uno della città. Non solo è interessante sapere come la pensano gli altri. Si impara sempre qualcosa. E si mangia meglio!
Il RagionierTremonti individua nell'assimilazione alla cultura indigena, altrimenti detta condivisione dei valori, una condizione necessaria per l'accettazione dello straniero. L'inclusione degli "altri" in Europa può proseguire, però, solo se gli "altri" cessano di essere "altri" e diventano "noi." Candido, candido, Tremonti ci rifila la solita retorica delle radici giudaico-cristiane del nostro sistema di valori. Trattasi di retorica, perché in genere ognuno ha la propria accezione di quelle radici e tende a ritrovarsi nella propria. Poi però ci da un esempio, condannando le unioni civili come matrimoni "pop."
Non è nemmeno più necessario salire nella sala delle cerimonie del Municipio: e sufficiente fare shopping giuridico, per consumare al banco un prodotto tipico di questo tempo...
L'esempio, garantendomi che i miei valori sono ben diversi dai suoi, mi ha rasserenato. Però divento livido al leggere l'accostamento che lui, come tanti altri autonominativessiliferi della verità rivelata, fa tra cattolicesimo da un lato e divisione, contrapposizione dall'altro. Noi, dove noi significa 'cattolici,' contro loro, gli infedeli. Cattolico antagonista è un ossimoro per definizione. L'etimologia stessa della parola ce lo dice. Cattolico significa UNIVERSALE. Per definizione data da Nostro Signore, nella Chiesa Cattolica dobbiamo accogliere tutti -- e ci viene richiesto di amare il prossimo sia che costui abiti nello stesso isolato, sia che viva a 100 gradi di longitudine da noi, sia che ci voglia assomigliare, sia che se ne voglia rimanere com'è.
L'unico punto condivisibile espresso da Tremonti, nella sua ovvietà, è quello già ricordato secondo cui il processo di globalizzazione (mi rassegno a chiamarlo così) sta effettivamente causando grossi problemi di aggiustamento ad una parte della popolazione nei Paesi più avanzati. Settori manifatturieri interi stanno lasciando questi Paesi, mettendo in difficoltà quei lavoratori che non sono in grado, per vari motivi, di acquisire gli skills necessari ad intraprendere attività alternative, in cui i loro stessi Paesi si stanno specializzando. Si tratta perlopiù della produzione di manufatti ad alto contenuto tecnologico e di servizi ad alto valore aggiunto (per quanto riguarda i servizi, la bilancia commerciale degli Stati Uniti è in attivo!). Se accogliessimo la proposta del passato/futuro ministro, fermando il processo stesso di globalizzazione, raggiungeremmo il risultato di rallentare fortemente il processo di sviluppo dei paesi poveri. Sottinteso al pensiero tremontiano sta il fatto che a lui, di questi altri, non gli fotte. A me, invece, e a tanti altri con una sensibilità diversa dalla sua, interessa il benessere del prossimo, sia che abiti a Gallarate, sia che venga da Dakar. Per coloro che, come me, considerano il luogo di nascita una pura casualità, contro la cui realizzazione avversa tutti devono essere assicurati, la liberalizzazione dei flussi di beni, servizi ed individui, è un dovere della parte ricca del mondo nei confronti della parte povera. Semmai, il processo di globalizzazione deve essere accelerato, eliminando quelle autentiche oscenità che vanno sotto il nome di sussidi all'agricoltura. Di coloro che, nei Paesi ricchi, sono danneggiati da tale processo, devono prendersi cura le società stesse a cui appartengono, attingendo alle risorse che si vengono a creare con la liberalizzazione del commercio internazionale.
In altre parole: fermare la globalizzazione, oltre ad imporre costi alla maggior parte di coloro che vivono nei Paesi sviluppati, avrebbe il pernicioso effetto di rallentare ulteriormente il processo di sviluppo dei Paesi più poveri. A me, non pare davvero giusto.
Complimenti per l'articolo. Mi pare però che manchino, almeno in Italia, politiche concrete per l'aggiustamento alla diversità. Gli "adeguamenti dimensionali di tutte le strutture produttive, educative e sociali" dovrebbero essere pagati dai minori costi sostenuti da Stato/imprese per l'utilizzo di manodopera immigrata (minori costi per istruzione e pensioni, assumendo che le aspettative di vita di un immigrato siano, almeno oggi, largamente inferiori a quelle di un italiano)