1. Premessa, definizioni e un chiarimento.
Il governo Monti ha promesso che quella del mercato del lavoro sarà la prossima grande riforma per tentare di rianimare il paese, e che sarà pronta entro marzo (in questo post facciamo finta di crederci nonostante quello che sta succedendo in questi giorni con la riforma precedente, quella che avrebbero dovuto essere delle liberalizzazioni). Si tratterebbe del più importante tentativo di trasformazione dell’intero mercato del lavoro italiano degli ultimi 40 anni, da quando cioè fu introdotto lo statuto dei lavoratori. La trasformazione di 15 anni fa (correva l’anno 1997 e il primo governo Prodi varò il pacchetto Treu segnando l’inizio della propria fine un anno più tardi) operò una riforma parziale. Se è vero che la riforma Treu (e il suo proseguimento, la “legge Biagi”) aumentò la flessibilità del mercato del lavoro, lo fece al costo di accentuare quel sistema duale le cui nefaste conseguenze sono oggi parte del problema cui occurre porre rimedio. Questo, ovviamente, per non intaccare gli insiders.
Protezione del'occupazione. Cominciamo con le definizioni. La protezione legale dell’occupazione consiste di norme che restringono o rendono costosa la possibilità di licenziare un lavoratore. Secondo la classificazione dell’OCSE esse consistono in: notifica del licenziamento con x settimane di anticipo, pagamento di un indennizzo al lavoratore licenziato pari a y settimane di stipendio, compensazione o reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa, limitazioni temporali al periodo di prova o alla durata e all’utilizzo dei contratti a tempo determinato, regolamentazione delle agenzie di lavoro temporaneo, procedure per i licenziamenti collettivi. Tutti i paesi avanzati utilizzano una combinazione di queste norme, come riassunto nel documento OCSE appena citato. Nel post di Pica e Leonardi è ricostruita e commentata l’evoluzione delle norme in materia di licenziamenti in Italia.
In Italia, l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non è l’unica forma di protezione dell’occupazione, ma è la principale per aziende con più di 15 lavoratori. In sostanza, esso sancisce l’obbligo di risarcimento e reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore che sia stato licenziato senza “giusta causa.” Il giudice, in linea di principio, sancisce l’assenza della giusta causa ogni volta che il lavoratore licenziato non abbia commesso qualcosa che comprometta il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro. In realtà però il vincolo della giusta causa è necessariamente ambiguo e lasciato all’interpretazione discrezionale del giudice. Di conseguenza, al datore di lavoro che voglia licenziare un lavoratore è imposto anche un costo - il reintegro in caso il giudice ritenga assente la “giusta causa”. Il costo è aleatorio (chissà cosa decide il giudice) e dipendente dal funzionamento del sistema giudiziario - più inefficiente il sistema (ad esempio, più lunga è la causa) più alto è il costo atteso. Questo è inefficiente, perché il costo pesa sulle imprese ma senza realmente beneficiare il lavoratore, che anzi è anch’egli sottoposto all’alea dovuta all’arbitrarietà e alla discrezionalità del giudice.
Abbiamo parlato (e parleremo sotto) di protezione dell'occupazione, intendendo protezione del posto di lavoro. Questa cosa è molto diversa dalla protezione del lavoratore, una distinzione che è tanto importante quanto intorbidita nel dibattito sulla riforma dell'articolo 18. Quest'ultimo, laddove si applichi, protegge il posto di lavoro (vedi sopra) ma non il lavoratore licenziato con giusta causa o per licenziamento collettivo, che in Italia è lasciato in balia di un sistema di ammortizzatori sociali del tutto inadeguato. La riforma prospettata dal governo Monti trasformerebbe la protezione di cui godono oggi alcuni posti di lavoro in protezione (parziale) per tutti i lavoratori. Torneremo su questa distinzione alla fine del post. Per il momento il lettore deve tenere bene a mente che stiamo parlando degli effetti di proteggere il posto di lavoro. Iniziamo subito.
2. Cosa sappiamo dalla teoria
Da un punto di vista teorico il funzionamento di qualunque meccanismo di protezione legale dell'occupazione è, in prima battuta, semplice da caratterizzare.
Un primo modello. Iniziamo da una economia in cui le imprese competono in un mercato perfettamente concorrenziale per i propri prodotti. Il salario è invece determinato dalla contrattazione collettiva - che non discutiamo né caratterizziamo se non per dire che sarà più alto del salario concorrenziale.
In questo caso:
- Dato un numero di occupati oggi, una maggiore protezione dell’occupazione riduce il numero di lavoratori che perdono il lavoro domani. O direttamente perché è vietato licenziare o indirettamente perché l’impresa licenzierà meno se è più costoso farlo.
- In entrambi i casi, a parità di salario il costo di assumere un lavoratore oggi sarà più alto per le imprese, perché esse si accollano il rischio di dover occupare domani lavoratori che ex post potrebbero non voler occupare e/o perché sostengono i maggiori costi attesi di licenziare domani questi lavoratori.
- La domanda di lavoro da parte delle imprese domani si riduce se la protezione dell’occupazione si traduce effettivamente in un maggiore costo del lavoro; cioè se i salari non sono ridotti in proporzione.
L’effetto sull’occupazione domani, quindi, non è determinato. A parità di salario le imprese licenziano meno ma anche assumono meno. Idem per disoccupazione e salari. Se nulla possiamo dire riguardo a quello che succede domani all’occupazione e alla disoccupazione possiamo però proiettare l’analisi ad un’economia stazionaria, una specie di lungo periodo in cui le imprese abbiano operato tutti i riaggiustamenti di capitale e lavoro resi necessari dall’ipotetico aumento dei livelli di protezione del lavoro. In questo stato stazionario, ogni lavoratore che va in pensione è sostituito da un nuovo assunto. Un’astrazione, naturalmente, che ci serve a valutare gli effetti nel medio periodo dell’introduzione di nuove forme di protezione dei lavoratori. Questa è l’economia che è bene avere in mente quando si confrontano paesi caratterizzati, tradizionalmente, da diversi livelli di protezione dei lavoratori - Italia e Grecia vs. Stati Uniti e Regno Unito, ad esempio.
In un’economia stazionaria maggiori protezioni a salari invariati sono quindi associate a minore occupazione. In questa economia, infatti, l’occupazione è determinata esclusivamente da quanto le imprese assumono a dati livelli di protezione. In altre parole, gli effetti dell’aumento dei livelli di protezione si esauriscono nel corso del processo di aggiustamento, quando l’ultimo lavoratore che l’impresa non vuole sostituire con un nuovo assunto sia andato in pensione.
Riassumendo con parole diverse, un aumento della protezione del lavoro aumenta i costi dell’impresa a parità di salario e quindi, in stato stazionario, dopo i necessari riaggiustamenti: o i salari scendono per compensare il costo della protezione o scende la domanda di lavoro da parte dell’impresa (e quindi l’occupazione - tutti vogliono lavorare nella nostra semplice economia, nessuno che esca dalla forza lavoro per il momento). Tipicamente, scenderanno i salari, ma non abbastanza da compensare il costo (a cosa servono sennò i sindacati?) e quindi scenderà anche l’occupazione. Oppure, se volete una storia senza sindacati, lo slittamento verso il basso della curva di domanda di lavoro da parte delle imprese farà sì che il nuovo punto di incontro con la curva di offerta di lavoro (che ha pendenza positiva) sia a un punto in cui sia il salario sia l'occupazione sono più bassi. È anche importante notare che i costi per le imprese di un aumento della protezione del lavoro tenderanno a essere maggiori dei vantaggi per i lavoratori perché una parte dei vantaggi va alla burocrazia che garantisce la protezione, inclusi sindacalisti, giudici, avvocati.
In questa economia stazionaria, quindi, più alta è la protezione, minore la domanda di lavoro da parte dell’impresa e, ceteris paribus, minore l’occupazione e minore il salario.
Eterogeneità. Questa prima analisi teorica degli effetti dei meccanismi di protezione dei lavoratori è valida, appunto, solo in prima battuta. Per capire bene quale sia l’effetto teorico di queste norme è necessario riconoscere che il mercato del lavoro non è un mercato concorrenziale qualunque, come quelli in cui si scambiano mandarini e mele. Le mele e i mandarini (di un dato tipo, per esempio renette del trentino), infatti, sono beni omogenei la cui qualità è facilmente verificabile. I servizi forniti da un lavoratore e i posti di lavoro offerti dalle imprese, al contrario, sono eterogenei (ogni lavoratore è diverso da un altro per caratteristiche ed abilità e ogni posto di lavoro è diverso da un altro per condizioni di lavoro e mansioni).
Con imprese e lavoratori eterogenei c’è un’altra ragione perché un aumento della protezione del lavoratore generi inefficienze. Supponiamo (l’ipotesi è ragionevole) che le decisioni di assunzione e di licenziamento siano dovute a un calcolo di produttività. Le imprese assumono un lavoratore sulla base della sua produttività attesa, date cioè le sue caratteristiche osservabili (livello di istruzione, conoscenza delle lingue, ecc.). Nel corso del rapporto di lavoro alcune delle caratteristiche del lavoratore che non sono facilmente osservabili ex ante ma che hanno un effetto potenzialmente importante sulla sua produttività (ad esempio serietà, disponibilità al lavoro straordinario, propensioni e attitudini psicologiche varie, ecc.) vengono rivelate. Alcune di queste caratteristiche non osservabili sono di particolare importanza per alcune imprese e non altre (ad esempio, in alcune imprese è importante essere socievoli, perché il lavoro è lavoro di gruppo; in altre meno). Le imprese vincolate dalla legislazione a protezione dell’occupazione, in generale, potrebbero voler licenziare per due ragioni: i) per chiudere o ridurre la produzione perché sono inefficienti, ii) per sostituire il lavoratore la cui produttività è ora rivelata con uno che ci si aspetta essere più produttivo, viste le caratteristiche di quello assunto in precedenza e le caratteristiche osservabili dei lavoratori disponibili sul mercato del lavoro. Questo significa che l’impossibilità di licenziare riduce la produttività media del lavoro nell’economia, perché i) i lavoratori protetti non hanno interesse ad essere efficienti ex post; ii) i lavoratori non sono in generale assegnati alle imprese la cui produttività più dipende dalle loro caratteristiche; iii) le imprese inefficienti non sono sostituite da altre potenzialmente più efficienti. In altre parole, la produttività del lavoro è più bassa in un’economia ad alte protezioni. Questo è importante perché, contrattazione collettiva o meno, sindacati o non sindacati, in uno stato stazionario, se le imprese sono competitive e a parità di altre condizioni, il salario tende a essere uguale alla produttività. Se i mercati in cui operano le imprese non sono concorrenziali allora l’effetto sul salario diventa incerto: conta non solo la produttività ma anche il potere contrattuale dei lavoratori nella contrattazione collettiva, che è maggiore quando l’occupazione è protetta.
Un sistema duale. Fin qui abbiamo assunto che la protezione dell’occupazione si applicasse a tutti i lavoratori. In realtà sappiamo che in molti mercati del lavoro (tra cui quello italiano) si è introdotta flessibilità creando un sistema duale in cui un gruppo di lavoratori è protetto dal licenziamento e un altro no. Questo secondo gruppo è noto come “i precari”. In questo caso, partendo da un regime di protezione per tutti, segue dall’analisi sopra che le imprese assumeranno più lavoratori attraverso il canale precario, e che questi saranno i primi ad essere licenziati a fronte di shock negativi, anche se fossero più produttivi dei protetti. In altre parole, i lavoratori precari vengono utilizzati per creare un margine di flessibilità in un sistema altrimenti rigido. Inoltre, man mano che i protetti si ritirano dalla forza lavoro le imprese tenderanno a sostituirli con precari. Anche qui è utile ragionare in termini di economia stazionaria: finiti gli aggiustamenti in un’economia osserveremo tutti lavoratori precari? È possibile. Ma è possibile (probabile, diremmo) anche che almeno ad alcuni lavoratori siano offerte protezioni, cioè che si abbiano un mix di precari e protetti in stato stazionario.
Concentriamoci sul secondo caso: qui l’eterogeneità di cui parlavamo sopra è cruciale: se tutti i lavoratori fossero uguali non osserveremmo un mix di precari e protetti, ma avremmo davvero tutti precari. Ma il punto da non dimenticare, a questo proposito, è che le imprese per alcuni tipi di lavoro e con alcuni lavoratori possono avere interesse ad investire nel capitale umano specifico all’impresa dei lavoratori stessi. Queste sono un misto di cognizioni tecnologiche e sociali (come funziona quella particolare macchina, quali sono i pregi e i difetti nascosti del prodotto dell’impresa, come parlare a quel particolare dirigente, o quel particolare cliente, chi chiamare quando si rompe un computer...). In questo caso, contratti precari non sono appropriati, perché soggetti a restrizioni varie nella durata e nel rinnovo. E quindi, per quanto la protezione del lavoratori costi, le imprese possono preferire questa a un contratto precario per un numero limitato di posti di lavoro. Ma è chiaro che questo tipo di posti “non-precari” saranno minori in stato stazionario maggiore siano le protezioni; cioè le imprese cercheranno di strutturare le proprie operazioni produttive ed amministrative il più possibile attorno a lavori che possano essere offerti a precari. A chi poi offriranno i (relativamente pochi) posti non precari, le imprese, dipende da condizioni varie ed eterogenee, ma è naturale teorizzare che tenderanno a farlo con lavoratori maturi (di esperienza, che abbiano lavorato già magari in forma precaria nell’impresa e che abbiano quindi già rivelato la propria produttività non-osservabile nell’impresa stessa), maggiormente istruiti, e soprattutto a lavoratori che abbiano relativamente poca mobilità tra imprese e dentro e fuori dal mercato del lavoro (e qui cascano le donne). Insomma, la teoria suggersice, tagliando con l’accetta, che siano giovani e donne a fare i precari, anche in stato stazionario.
Nel sistema duale con mix protetti/precari in equilibrio, quindi, l’occupazione è maggiore ma anche più volatile, e selettivamente tale: è il cuscinetto di precari a contrarsi ed espandersi. Per quanto riguarda l’accumulazione di capitale umano specifico all’impresa, ciò implica che per i lavoratori precari questo capitale viene continuamente distrutto e quindi viene meno l’incentivo ad accumularlo in primo luogo, come dicevamo. Questo, a sua volta, esercita una pressione verso il basso sul salario dei precari, perché questo è il “rendimento” del capitale umano. Ma cosa succede ai salari, in generale, in questo sistema duale? Difficile dirlo, perché ci sono più forze che spingono in direzioni diverse. Per esempio, l’occupazione flessibile è meno costosa per l’impresa (nel senso discusso sopra) e questo spinge nella direzione di far diminuire il rapporto tra salario protetto e salario precario. Prendiamo due lavoratori identici, uno protetto e uno precario (senza chiederci perché se sono identici sono protetto uno e precario l’altro): il salario del secondo deve essere maggiore perché per l’impresa il costo di licenziarlo in futuro è più basso. Se poi i due lavoratori sono avversi al rischio c’è un altro motivo per cui il salario del precario deve essere maggiore: questo si assume maggiore rischio accettando l’occupazione precaria. Tuttavia, lavoratori protetti e precari non sono identici: nell’economia stazionaria con mix protetti/precari i secondi hanno probabilmente più bassa produttività e/o piu’ basso capitale umano specifico all’impresa, e questo spinge in alto il rapporto tra salario protetto e salario precario. Inoltre, se i salari si determinano mediante contrattazione (ossia, le imprese operano in mercati dei prodotti non concorrenziali per cui esiste un surplus di profitti da oligopolio/monopolio da spartire tra capitale e lavoro), i lavoratori protetti hanno maggiore potere contrattuale di quelli precari, e anche questo spinge il rapporto in alto. Tutti sappiamo che in Italia i precari hanno salari più bassi dei protetti: ciò suggerisce che queste due forze prevalgono sulle prime due.
Non occupati né disoccupati. Nelle statistiche sul mercato del lavoro i disoccupati sono coloro che non hanno lavoro ma “lo cercano” (evitiamo di entrare nella definizione di “lo cercano”). Esiste quindi in principio tutto un gruppo di persone che pur in età di lavoro, non lavorano né lo cercano. Per capire questo fenomeno, bisogna buttare a mare l’ipotesi che abbiamo mantenuto sino ad ora che chiunque nella nostra economia vuole lavorare. Alcuni preferiscono non farlo. La teoria implica quindi che questi siano maggiormente rappresentati tra i) coloro cui il mercato del lavoro offre cattive condizioni (cioè lavori precari a basso salario) e ii) che allo stesso tempo possano guadagnarsi (o procurarsi) da vivere altrimenti. Indovina indovinello, chi sono questi? Ancora una volta, giovani e donne, sopratutto quelli con basso livello di istruzione, che restano o si ritirano “in famiglia”.
Frizioni. Fin qui abbiamo assunto che posti di lavoro eterogenei e lavoratori eterogenei si incontrassero senza alcuna difficoltà sul mercato del lavoro. La dimensione temporale era quindi irrilevante. In realtà è necessario che potenziali lavoratori e potenziali datori di lavoro si cerchino (a lungo, talvolta) prima di trovarsi. Questo introduce un elemento non competitivo nell’equilibrio del mercato del lavoro.
Per capire questa variante dobbiamo pensare al mercato del lavoro come a un insieme di flussi di lavoratori e imprese tra diversi stati. Più in particolare, semplificando parecchio, il lavoratore può essere in uno di due stati: occupato o non-occupato. Le imprese anche esse sono in uno di due stati, o hanno posti di lavoro vacanti o non ne hanno. La coesistenza di lavoratori disoccupati e posti di lavoro vacanti (un fatto empirico) sta lì a dimostrare che nel mercato del lavoro le frizioni sono importanti: ci vuole tempo perché il lavoratore giusto e l’impresa giusta si trovino a vicenda.
Nuove persone entrano continuamente nel mercato del lavoro come disoccupati (i più fortunati direttamente come occupati) e iniziano a cercare un lavoro. Quando lo trovano transitano dal gruppo dei disoccupati a quello degli occupati, e il posto di lavoro vacante diventa occupato. Altri lavoratori fanno il percorso inverso quando il loro posto di lavoro scompare o quando lo lasciano per cercarne un altro (nel qual caso quel posto di lavoro torna nel gruppo dei posti vacanti se l’impresa che lo aveva creato cerca un sostituto). Infine, nuovi posti di lavoro vengono creati e fanno parte dei posti vacanti finché non vengono occupati da qualcuno. Ci sono poi flussi da disoccupazione e occupazione al gruppo che è fuori dalla forza lavoro (esempi: pensionamenti e lavoratori scoraggiati), e viceversa. Questi flussi per unità di tempo tra i vari gruppi ne determinano la consistenza (stock) in ogni istante. Di particolare interesse sono gli stock di occupazione e disoccupazione, la loro composizione, e la durata della permanenza in essi.
In questo mondo dinamico e con frizioni permane (è ovvio) la stessa ambiguità discussa sopra circa l’effetto della protezione del lavoratore su occupazione, disoccupazione, salari. Tuttavia possiamo concludere che in equilibrio sia occupazione sia disoccupazione avranno maggiore durata. Avremo cioè occupati di lungo periodo (carriere ininterrotte di 35 anni, per esempio) e disoccupati anch’essi di lungo periodo (persone che restano disoccupate per un anno o due dopo aver perso il lavoro, per esempio). Il motivo è lo stesso: la protezione riduce i flussi in entrata e in uscita sia tra i disoccupati sia tra gli occupati. Nella misura in cui la disoccupazione di lunga durata si conclude con una transizione dalla disoccupazione al gruppo fuori dalla forza lavoro e scoraggia l’inizio della ricerca di un lavoro, la protezione dell’occupazione genera anche maggiori flussi in entrata e minori flussi in uscita dal gruppo non forza lavoro: in altre parole, diminuisce il tasso di partecipazione. Il modello implica anche che se ci sono soggetti che più frequentemente di altri entrano ed escono dalla forza lavoro, i primi avranno tassi di disoccupazione più elevati, maggiore durata della disoccupazione e, in ultima istanza, una minor tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Per le ragioni di cui si diceva sopra, la teoria implica che questi soggetti marginali siano soprattutto le donne e i giovani. Gli insiders al mercato del lavoro, invece (cioè gli occupati da molto tempo e che non devono uscire temporaneamente dal mercato per rientrarvi successivamente) faranno prevalentemente parte del gruppo degli occupati e quindi avranno un tasso di disoccupazione minore della media e un più alto tasso di partecipazione.
3. Conclusione
Cosa dovremmo aspettarci se quest’anno il governo riuscisse ad allentare il regime di protezione dell’occupazione attualmente vigente in Italia? La teoria economica predice che il mercato del lavoro diventerebbe più dinamico: più lavoratori perderebbero il lavoro ma più persone (incluse quelle che l’avessero perso a causa della maggiore flessibilità) ne troverebbero uno. La durata della disoccupazione si ridurrebbe e aumenterebbe la produttività dell’economia a causa della maggiore efficienza del processo di riallocazione di lavoro e capitale. L'aumento di produttività indurrebbe un aumento dei salari, almeno nei settori concorrenziali. Inoltre, i gruppi più marginali nel mercato del lavoro (giovani e donne, in particolare) avrebbero solo da guadagnare: per essi (come gruppo) la teoria predice maggiore occupazione e minore durata della disoccupazione. Infine, i contratti a tempo determinato inizierebbero ad essere sostituiti con quelli a tempo indeterminato (meno “precari”). L’evidenza empirica disponibile conferma questi fatti. Ma per questo dovete aspettare la prossima puntata.
Va bene, molto interessante, ma possible che in queste analisi (mi riferisco al sistema non-duale) non trovi mai posto la considerazione degli effetti della ri-proletarizzazione dei lavoratori dipendenti? Pensare che le imprese funzionino solo come “organismi economici” è illusorio, sono prima di tutto “organismi sociali” dove le decisioni riflettono i bias culturali e sociali individuali. Trasformando il lavoratore subordinato da individuo “collaboratore”, con cui viene stipulato un patto di fiducia anche umana, in commodity, si attua una tale trasformazione strutturale da rischiare di scardinare qualunque modello previsionale... non dimentichiamo che il fine dell’economia, non come oggetto di studio ma come oggetto di pratica, è il benessere degli individui, chissenefrega di massimizzare l’efficienza di un processo se il risultato è alternativamente un ritorno alla suddivisione della società in aristocratici e popolari ovvero (come è più probabile) un ritorno ad una bella stagione di violenza? Per cui ben venga la rimozione del dualismo, ben venga la rimozione di eccessi assurdi come l’obbligo di reintegro dei ladri, ma che il licenziamento debba rimanere un costo è socialmente consigliabile.
E della considerazione che in un sistema duale avete già ri-proletarizzato (qualsiasi cosa tu intenda) milioni di lavoratori dipendenti che ne facciamo?
chemist, please...
Abbiamo fare uno sforzo analitico per riassumere in modo accessibile una letteratura vasta. Credo che questo post meriti una discussione migliore. La nostra analisi puo' non piacere, ma allora bisogna contribuire con altre analisi, non brandire a caso parole come "proletarizzazione", "lavoratore commodity", "aristocratici e proletari", e "stagione di violenza". Per le amene discussioni su tutto questo c'e' il bar li' sotto.