Qualche numero sul "precariato" italiano

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Il post di Lodovico Pizzati sulla Polonia ha generato un'interessante discussione. In uno degli scambi un (giovane?) lettore ha sostenuto che la liberalizzazione polacca del mercato del lavoro in Italia c'è già. Dissento. Ne approfitto per gettare alle ortiche alcuni miti che girano per il paese e fanno solo danno.

Inizio con una parentesi.

[Io non considero i contratti a tempo determinato un male, anzi. Per le ragioni più volte espresse in questo sito, li considero un bene per tutti, lavoratori ed imprese. Sono un bene specialmente per i lavoratori capaci e meritevoli: non c'è meritocrazia senza quella cosa che, impropriamente, viene chiamata in Italia "precarietà". Basta pensarci un attimo per capirlo, non servono né Melfi né Pomigliano. Se non puoi licenziare non puoi neanche premiare, it's as simple as that.

Che poi in Italia i lavoratori a tempo determinato vengano fiscalmente e previdenzialmente discriminati è dovuto PROPRIO al fatto che (a) la difesa sindacale dei privilegi associati al tempo indeterminato e, (b), l'idea, folle, che le tipologie contrattuali debbano essere rigidamente legislate erga-omnes invece d'essere lasciate alla libera decisione delle parti contraenti, hanno portato alla costruzione legislativa di due mercati del lavoro. Il dualismo è una creazione intenzionale di casta politica e casta sindacale, per difendere i privilegi in essere della loro base elettorale e contributiva.

La costruzione d'una giungla contrattuale all'entrata del mercato del lavoro serve, in realtà, per mantenere in piedi un sistema occupazionale anti-meritocratico ed altamente inefficiente, quindi costoso per le imprese e la collettività. Questo assurdo dualismo si può eliminare solo in una direzione: riducendo i privilegi dei contratti a tempo indeterminato ed eliminando la discriminazione fiscale e previdenziale a danno di quelli a tempo determinato. Passin passetto, anche in Spagna ci si sta accorgendo che non c'è alternativa; vediamo quanto tarderà l'Italia. Temo molto, purtroppo.]

Chiarito questo punto di principio, veniamo alla provocatoria affermazione del nostro lettore.

Egli sostiene che il 90% dei nuovi assunti è a tempo determinato, intendendo con questo suggerire che quanto LP richiede è irrilevante perché il mercato del lavoro italiano è già come quello polacco. Questa affermazione è falsa sia nei dettagli che nella sostanza. M'importa poco che non sia vero il 90%, non è quello il punto: è la sostanza che conta. Il mercato del lavoro italiano NON è liberalizzato, per nulla.

1) I nuovi assunti NON sono solo quelli che entrano per la prima volta nel mercato del lavoro ma anche quelli che cambiano lavoro; costoro sono molti di più (a spanne, quasi un ordine di grandezza di più: basta guardare la Tavola 1. Il turnover rappresentava, nel 2007, il 28% dello stock di dipendenti. Ogni nuova coorte annuale che entra nel mercato del lavoro aggiunge un numero compreso fra il 2 ed il 3% della forza lavoro, grosso modo). Misurare la "precarietà" del mercato del lavoro (la cui attività è misurata dal flusso di "turnover", vedi link precedente) sulla base di quanto accade ai giovani appena entrati nel medesimo è un errore. Questo non vuol dire che non valga la pena discutere dei giovani, ma vuol dire che quanto succede a loro non va confuso con quanto succede al complesso degli occupati.

2) Ho fatto notare al nostro lettore che, secondo l'ultima rilevazione dell'ISTAT, gli occupati a "termine" (ossia, l'universo di ciò che viene definito "precariato" e che include anche persone che "precarie" proprio non sono) sono il 12% dei lavoratori dipendenti. Questo dovrebbe essere sufficiente per capire, a spanne, che la provocazione era mal calibrata. Per una semplice ragione: una vita lavorativa dura, in media, 35 anni. Ora, facciamo finta che tutti e solo i giovani neo-entranti vengano assunti con un contratto di tipo "precario" (questo è falso, vedi punti 3) e 4)) e facciamo l'approssimazione (brutale, ma non così orrenda) che la distribuzione per età degli occupati sia più o meno uniforme tra i 25 ed i 60 anni di età. Allora quel 12% dice che, in media, si rimane "precari" per 4 anni e poi si passa nel mondo protetto del tempo indeterminato. Una cosa molto meno "tragica" di quanto la provocazione volesse suggerire. Insomma, i dati aggregati suggeriscono che le aziende utilizzano le forme contrattuali "precarie" per testare il dipendente e che poi, dopo 3 o 4 anni, questo passa a tempo indeterminato. E già qui ti viene da dire: dove starebbe il problema, scusa?

3) Questa ipotesi sulla "precarietà" del giovane lavoratore italico è, probabilmente, troppo negativa ma non del tutto sballata. Altri dati ISTAT (tavole 3 e 6) suggeriscono che poco più del 50% dei lavoratori che entrano nella grandi imprese viene inquadrato a termine. Se proprio (e mi sembra alquanto improprio) vogliamo chiamare "precari" anche gli apprendisti e gli stagionali (?) arriviamo ad un massimo-massimo del 73%.

4) Il nostro lettore ha poi egli stesso fatto riferimento a dati ISTAT per diplomati e laureati, i quali suggeriscono una condizione ben diversa da quella che egli prospettava e, infatti, migliore di quella da me poco sopra ipotizzata. Per quanto riguarda i neo-laureati la situazione è ancor meno tragica: secondo il Prospetto 2.7 dello studio ISTAT più recente, anche sommando stagionali, a termine ed a progetto, dopo tre soli anni dalla laurea si arriva al 39% di "precari" in totale. E 39% è sostanzialmente meno di 90%!

5) Anche a guardare il complesso della forza lavoro giovanile che accede al mercato del lavoro, rilevazioni non necessariamente sistematiche delle nuove assunzioni suggeriscono, comunque, che fra i giovani neo-assunti quelli a tempo indeterminato sono circa il 40%. Sarà che da trent'anni e più sono abituato alla "precarietà" e ci vivo benissimo ma a me sembra un numero alto!

Morale: il mercato del lavoro italiano è duale? Sì. La dualità è brutale? Certo. Ma la dualità sembra anche limitata e circoscritta il che la rende probabilmente ancor più pesante per chi la soffre ma, globalmente, più sopportabile via i trasferimenti interni alla famiglia. Sia chiaro: questo non è un bene, ma ad ogni cosa va data la giusta dimensione. E, soprattutto, in Italia non c'è un mercato del lavoro liberalizzato, proprio non c'è, piaccia o meno! Questo è il punto rilevante.

In sintesi, per quanto riguarda i giovani, il mercato del lavoro italiano sembra funzionare così:

Un giovane su due e mezzo (3 su 4 fra i non diplomati, 2 su 3 fra i diplomati non laureati, 1 su 3 fra i laureati, andando a spanne) inizia a lavorare con un contratto a tempo determinato o a progetto. Dopo circa 3-4 anni metà di costoro sono a tempo indeterminato e dopo 5-7 rimangono nel "precariato" solo le code meno produttive o particolarmente sfortunate. Insomma, meglio che il tipico PhD USA, in qualunque campo sia.

Un paradiso? No, ma nemmeno l'inferno che troppi amano descrivere. Va riformato eliminando la dualità? Certo ma, ripeto, credo che l'unica riforma possibile consista nel togliere privilegi ai protetti e porre termine alla discriminazione fiscale e contributiva dei "precari" usando un punto mediano fra i due gruppi. La mia preferenza, ovviamente, sarebbe togliere di mezzo il legislatore e lasciare che le forme contrattuali venissero decise liberamente all'interno di parametri generali che stabiliscano diritti fondamentali per entrambe le parti. Ma questa, mi rendo conto, è UTOPIA in un paese di legulei statalisti.

In realtà, ma non se ne rendono conto, il problema dei giovani italiani NON È IL PRECARIATO ma la bassa produttività del sistema e l'eccessiva protezione delle occupazioni "stabili". È la bassa produttività che li frega, perché da essa vengono i bassi salari e, soprattutto, la mancanza d'una prospettiva di crescita sia professionale che salariale. E l'eccessiva protezione impedisce loro di mettere in discussione gli improduttivi.

La bassa produttività, l'assenza di meritocrazia sul posto di lavoro ed i privilegi spesso parassitari dei "vecchi" sono i nemici dei giovani italiani capaci e volenterosi, non la precarietà contrattuale.

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Commenti

Ci sono 196 commenti

Noto che sulla base dei dati ieri annunciati sulla scuola (760'000 docenti, 170'000 precari) la percentuale risultante è del 22.37%. La scuola sembra avere quindi un'abbondanza di contratti a termine, frutto dell'elevato assenteismo nel mondo della scuola che si riassume in 18 giorni di assenza all'anno per malattia e altre assenze (ferie escluse dal computo).

Considerato che a scuola si lavora solo 9 mesi all'anno, quei 18 giorni sono equivalenti ad un mese di assenza ogni anno scolastico e quindi occorre un esercito di supplenti per garantire continuità didattica. Questo soprattutto perché le assenze non sono distribuite in modo uniforme ma sono concentrate in alcuni periodi dell'anno, strananamente coincidenti con le vacanza natalizie e pasquali o in geerale con il periodo invernale (anche per ovvi motivi legati ad influenze e malattie staginali).

Lasciando perdere per ora la scuola, è Interessante il confronto generale con altri paesi europei. Noi non siamo distanti dalla media europea ma ci distiguamo per l'uso ripetuto di contratti a termine sulla stessa persona. Mentre da noi osservando le modifiche dei rapporti di lavoro in 4 anni, l'82.7% è sempre stabile (sempre contratti a tempo indenterminato), questa % sale al 90.3% nel regno unito, definito come l'economia piu' free e liberale. Grecia (71) e Spagna (67.5%) ci indicano che esiste come spesso osserviamo un gradiente nord sud, rafforzato dal fatto che Francia, Germania sono attorno all'88%. Facendo il complemento a 100 di quelle percentuali troviamo la mole di lavoro a termine nei vari paesi in un periodo di osservazione di 4 anni consecutivi:
18% in Italia, 10% un UK, 12% in Francia e Germania, quasi il 30% in Grecia, quasi il 33% in Spagna.

I dati ISTAT sono qui (documento word)

Francesco

 

 

Noi non siamo distanti dalla media europea ma ci distiguamo per l'uso ripetuto di contratti a termine sulla stessa persona.

 

L'affermazione che riporti, su cui non so quali siano i numeri precisi, mi conferma nell'idea che da noi la riforma del MdL sia stata fatta più con l'obiettivo di abbassare il costo del lavoro (solo per un segmento della popolazione lavorativa) che non per liberalizzare, promuovere competitività e meritocrazia. 

 

La scuola sembra avere quindi un'abbondanza di contratti a termine, frutto dell'elevato assenteismo nel mondo della scuola che si riassume in 18 giorni di assenza all'anno per malattia e altre assenze (ferie escluse dal computo).

 

Quest'affermazione di causalità (altro numero di contratti a termine causati dall'assenteismo) mi sembra piuttosto campata in aria, e mi chiedo quali dati o analisi la supportino. Numericamente, 18 giorni di assenza in media non giustificano 22% di precariato. Io propendo per una spiegazione piuttosto diversa: vogliamo andare a vedere quando è stato bandito l'ultimo concorso pubblico per cattedre di insegnamento nella scuola? L'ultimo è stato nel 1999, e il penultimo molti anni prima. Da allora, diventare professori di ruolo è diventato un percorso a ostacoli, tra inutili scuole di specializzazione, e lunga gavetta di precariato. Io sospetto che gran parte di quel 22% sia semplicemente dovuto alle giovani leve che non sono riuscite a diventare di ruolo.

E infatti, per eliminare quell'"inutile" 22% ila Gelmini è stata costretta a riformare la Scuola, accorpando classi oltre il limite dei 25 per aula, e riducendo il numero delle ore di insegnamente alle scuole superiori, quindi diminuendo il monte ore totale. Altro che semplici supplenti!

Vado di corsa ma ATTENZIONE, ATTENZIONE, ATTENZIONE a fare comparazioni internazionali sulla base delle "labels" delle forme contrattuali!

Contratto a tempo "indeterminato" in Italia non è la stessa cosa che in UK o in Francia o Danimarca. Cambia la protezione, i diritti/doveri, eccetera. La comparazione non può essere fatta così, assolutamente, ne vengono risultati assurdi. Negli USA, allora, quasi tutti i contratti sarebbero a tempo indeterminato salvo i pochi che sono esplicitamente a termine! Ma quasi tutti coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato sono licenziabili at will!

L'OCSE ha lavorato molto sul tema, specialmente Stefano Scarpetta. Guardare lì per capire. Ed anche loro hanno, ovviamente, difficoltà a comparare adeguatamente la sostanza di ciò che un frame legale e sindacale implica rispetto ad un altro.

Tutti parlano di scuola senza sapere di che stanno parlando (non sono un insegnante, ma lo sono stato e ne ho sposata una)

Noto che sulla base dei dati ieri annunciati sulla scuola (760'000 docenti, 170'000 precari) la percentuale risultante è del 22.37%. La scuola sembra avere quindi un'abbondanza di contratti a termine, frutto dell'elevato assenteismo nel mondo della scuola che si riassume in 18 giorni di assenza all'anno per malattia e altre assenze (ferie escluse dal computo).

Considerato che a scuola si lavora solo 9 mesi all'anno, quei 18 giorni sono equivalenti ad un mese di assenza ogni anno scolastico e quindi occorre un esercito di supplenti per garantire continuità didattica. 

 

Assolutamente falso. I precari non coprono le assenze brevi, che NON vengono coperte proprio, perché non ci sono i soldi (da neolaureato all'inizio anni '80 ho fatto supplenze di tre giorni, oggi non si chiama un supplente per meno di 15 giorni). Incidentalmente, una volta l'orario comportava alcune ore a disposizione per coprire supplenze brevi, ma adesso l'orario è tutto di didattica frontale. Di solito si spartiscono gli studenti in altre classi o li si fa uscire anticipatamente.

I precari coprono cattedre annuali che si rendono disponibili per malattie lunghe, ma soprattutto per gravidanze, comandi e distacchi, o perché il titolare è andato in pensione o ha avuto un trasferimento, o perché in una scuola sono aumentati gli iscritti e si sono create nuove cattedre e non è stato ancora nominato un titolare di ruolo (blocco del turnover, anyone?). In alcune materie tecniche tipo informatica le graduatorie sono esaurite (lavorano tutti) e non essendo stati banditi i concorsi, le cattedre vanno coperte. Insomma, non c'è alcun rapporto tra assenteismo breve e precariato. I 18 giorni all'anno corrispondono a due-tre giorni al mese, come ci si possa ricavare una cattedra annuale è un mistero matematico che manco Martin Gardner...

 

 

18 giorni di assenza all'anno per malattia e altre assenze

 

Assolutamente falso. I precari non coprono le assenze brevi...

 

Un brevissimo commento sul fatto che un numero come 18 giorni di assenza su 180 non tronchi sul nascere qualsiasi discussione: è un numero ENORME! Ma come vi viene in mente di fare i sofisti su un numero del genere?

Vabbè, dopo lo sfogo passo al sodo.

Rispondo a Marino bib, ma vale per molti altri (quasi tutti i giornalisti e i commentatori sui mass media): la MEDIA non è la MEDIANA!

18 giorni su 180 è enorme, ma dubito che rappresenti il comportamento più comune fra gli insegnanti italiani.

Può provenire da 1 insegnante su 10 che fa un'assenza di un anno, oppure 1 insegnante su 20 che sta a casa tutto l'anno, mentre gli altri fanno tutti 9 giorni, o una combinazione qualunque di giorni e persone che dia quella media.

Il punto è che la media è altissima e, visto che la maggioranza degli insegnanti fa, SECONDO ME, molto meno giorni di assenza (mediana), ce ne sono troppi che fanno anni di assenza e quindi il dato non mi pare necessariamente in contrasto con l'abnorme quantità di precari. Che, en passant, non devono essere confrontati con percentuale 0, ma con il 12% della media nazionale.

Quello che dobbiamo spiegare è perché superino il 22% fra gli insegnanti invece che stare al 12%.

Ce n'è GROSSOMODO un 10% in più (1 su 10) e, guardacaso, se 1 insegnante su 10 fa un'assenza annuale, risulta GROSSOMODO quel tasso di assenteismo medio (18gg/a).

Un ultimo "fattoide": l'insegnante è una professione ad alta incidenza femminile e si diventa insegnanti solo dopo la laurea (quindi classi di età che vanno da 25 a 60 invece che da 18 a 60). E' possibile che il mostruoso numero di 18gg/a di assenza sia semplicemente dovuto alle maternità.

Per una semplice ragione: una vita lavorativa dura, in media, 35 anni. Ora, facciamo finta che tutti e solo i giovani neo-entranti vengano assunti con un contratto di tipo "precario" (questo è falso, vedi punti 3) e 4)) e facciamo l'approssimazione (brutale, ma non così orrenda) che la distribuzione per età degli occupati sia più o meno uniforme tra i 25 ed i 60 anni di età. Allora quel 12% dice che, in media, si rimane "precari" per 4 anni e poi si passa nel mondo protetto del tempo indeterminato. 

Beh, no. L'88% degli occupati a tempo indeterminato appartiene in gran parte a coorti entrate nel mondo del lavoro prima dell'istituzione dei contratti di "precariato" e quindi può essere destinato a diminuire. 

E poi nulla vieta ai precari del 12% di passare alla disoccupazione (o al lavoro nero, a fare la casalinga, ecc.), lasciando spazio a una coorte più giovane di nuovi precari. Altro che 4 anni e poi sei a posto.

 

 

Un brevissimo commento sul fatto che un numero come 18 giorni di assenza su 180 non tronchi sul nascere qualsiasi discussione: è un numero ENORME! Ma come vi viene in mente di fare i sofisti su un numero del genere?

 

non è questione di sofismi. 18 giorni di assenza sono troppi, la media può essere falsata da un ridotto numero di insegnanti che si assentano per mesi, ma per il discorso del precariato questo è irrilevante. Il problema è il meccanismo di reclutamento, non l'assenteismo. Il precariato ci sarebbe anche senza assenteismo. 

Ripeto, i supplenti annuali NON coprono le supplenze brevi per malattia (anche quelle non tanto brevi: quest'anno mia moglie è dovuta stare a casa due settimane per una malattia piuttosto seria e non hanno nominato il supplente...ormai si nomina solo sulle assenze oltre il mese), vengono nominati PRIMA dell'inizio dell'anno scolastico dal provveditorato, cioè prima che un docente possa assentarsi per malattia. Le supplenze per malattia attingono da altre graduatorie e sono competenza della singola scuola DOPO che un docente si è assentato.

 

L'articolo coglie nel segno il problema e la sua conclusione indica la strada per risolverlo. Per evitare la cristalizzazione dei diritti acquisiti, appannaggio di un numero sempre più esiguo di beneficiari, occcorre avere il coraggio di spazzarli via mentre si taglia, al prezzo della rivoluzione, anche nelle PA (foresta ingessata dei diritti acquisiti) dove, a dispetto della vulgata e del mito del posto fisso e intoccabile (tale certo, ma soltanto per chi ce l'ha, non sempre meritatamente), il problema è asasi più sentito.

 

Mentre il suo primo commento muove da un presupposto fallace e reca inesattezze

 

Noto che sulla base dei dati ieri annunciati sulla scuola (760'000 docenti, 170'000 precari) la percentuale risultante è del 22.37%. La scuola sembra avere quindi un'abbondanza di contratti a termine, frutto dell'elevato assenteismo nel mondo della scuola che si riassume in 18 giorni di assenza all'anno per malattia e altre assenze (ferie escluse dal computo).

 

Le proteste che investono in questi giorni le convocazioni (o addirittura le mancate convocazioni per alcune classi di concorso prospere fino allo scorso anno e ora falcidiate, oltre che dai tagli, dalla riforma dei quadri orari che penalizza alcune discipline) non riguardano le supplenze e quindi non dipendono dall'entità delle stesse. Peraltro le supplenze a t.d pagate dalla scuola e non dal tesoro vengono evitate fintantoché non è proprio più possibile non nominare qualcuno, almeno nell'ordine di scuola in cui si può tergiversare (con i piccoli è più difficile lasciare classi scoperte).

I contratti a t.d. nella scuola non vengono stiplulati soltanto per le supplenze, che possono essere assegnate anche  a non abilitati, dopo aver scorso tutte le graduatorie precedenti in tutte le fasce in cui si articlano, ma anche per incarichi in cui il nominato non sostituisce nessuno, e non è un parassita, spero che sia chiaro (senza, la scuola non funzionerebbe). I candidati sono docenti abilitati inseriti nelle graduatoria ad esaurimento - arena in cui si combatte un'aspra lotta a colpi destabilizzanti di ricorsi e controricorsi amministrativi che esacerbano la conflittualità tra parti diverse del paese (qualcuno ha abilitato più generosamente prevedendo, e poi pretendendo, di collocare lontano i propri esuberi) - che vengono scorse anche per le immissioni in ruolo, quando ce ne sono. Gli inseriti hanno acquisito il diritto all'immissione in ruolo, fosse pure tra 10, 15 o 20 anni, per il solo fatto di essersi abilitati (alcuni hanno superato una selezione a numero programmato - deve essere che la programmazione non è stata calcolata proprio al decimale... ;)- per accedere alla specializzazione, altri non ne hanno superata nessuna, ma hanno goduto di una delle numerose sanatorie che hanno costellato la storia del reclutamento).

Poi la cuccagna è finita: chi c'è c'è. Eppure ancora oggi c'è chi ci prova, rivendicando l'ammissione soprannumeraria, eludendo la selezione sulla base della prorammazione, all'istituendo canale abilitante e poi l'ingresso in graduatoria ad esaurimento, che sarebbe blindata ma i ricorsi potrebbero sblindarla...,  per il solo fatto di aver prestato tot servizio da non abilitati. Eppure chi ha accumulato tanto servizio in un ampio arco temporale deve essere stato bocciato alle precedenti selezioni: in altri paesi non potrebbe neppure più tentare un'altra selezione, in italia (la mentalità dell'acquisizione di un diritto non appena si è messo un piede dentro qualcosa è dura a morire) rivendica una sanatoria (come se il servizio non fosse remunerato e la remunerazione non fosse sufficiente come compenso) o in alternativa una partenza avvantaggiata nella selezione per il futuro canale abilitante di prossima istituzione; tale alternativa (vantaggio iniziale) - è già stato annunciato - sarà accordata, con l'evidente intento di evitare un ricorso al tar che sancirebbe la sanatoria (ma il tar sa poi anche inventarsi le cattedre?). Ogni vantaggio indebito discrimina un meritevole.

Oggi i docenti di ruolo in esubero sono protetti (i docenti di ruolo sono superprotetti da tutti i punti di vista, ma si lamentano se le esigenze dell'amministrazione li trasferiscono dal liceo blasonato sotto caso ad una sede più disagiata), gli inseriti in GaE hanno acquisito il loro "sacrosanto diritto" per i secoli  a venire, gli altri si attacchino.

A me nasce altresì il sospetto (magari mi sbaglio) che un reclutamento abborracciato come quello italico a qualcuno tutto sommato abbia fatto comodo, considerato che ha sempre assicurato un posto fisso ma dopo un numero elevato, seppur variabile, di anni, tende a dissuadere gli aspiranti che possono ripiegare su altro (specialmente in certe aree e in queste ancor più per certe classi di concorso non tradizionalmente vocate all'insegnamento). Ma non è l'unica ipotesi esplicativa di una rinuncia alla gestione del reclutamento che per quel che ne so rappresenta un unicum in Europa (in nessun paese vige la prenotazione della cattedra per i decnni futuri): gli altri paesi, ivi inclusi quelli mediterranei (il modello spagnolo è interessante per esempio) hanno un sistema in cui si può scorgere una ratio. In italia l'eredità del passato è così pesante che è difficile non vedere la soluzione in una dolorosa tabula rasa che farebbe scorrere il sangue.

 

Circa la concentrazione delle assenze (ma magari non è l'unico problema delle assenze), si ha proprio questa impressione che rimanda ad un'altra problematica relativa al dualismo italico.

Circa i tagli, è bene sottolineare che, fatta salva la ripetutissima necessità di ridurre la spesa, essi non sono sempre ed indiscriminatamente buoni e giusti. Occorre introdurre i doverosi distinguo, e magari non farsi prendere da una furia statoclastica, da cui dovrebbe essere risparmiato quanto c'è di buono.

 

PS soltanto dopo aver postato mi sono resa conto che Marino bib aveva già rilevato l'inesattezza

 

 

Perché la francesca, che va a piangere sul corriere, deve vedersi riconosciuto il “diritto” all’immissione in ruolo che maturerà, secondo la sua previsione, tra un decennio? Soltanto per essersi abilitata? L’abilitazione è richiesta a tutti e continuerà ad essere richiesta anche a chi verrà dopo, e non è che un requisito, richiesto peraltro anche in altre professioni. Ma chi si abilita medico, avvocato, architetto ecc non acquisisce ipso facto il diritto all’assunzione a t.i. La cosa avrebbe un senso se le abilitazioni fossero state programmate davvero (ma non sono state programmate) e non ci fossero state sanatorie (ma ci sono state). Il martirio del servizio, che è retribuito (dunque non è né sfruttamento né schiavitù come piace a qualcuno chiamarlo), è un'invenzione: chi non volesse prestarlo non ha che da mettersi da parte, cedendo il posto al candidato successivo che magari, invece, nel frattempo deve ripiegare su qualcosa non in linea con i suoi studi.

Perché, invece di autocommiserarsi, non punta il dito contro il sistema (graduatoria delenda est) invocando una selezione (concorso o quello che si vuole, persino l'ipootesi della modifica dello stato giuridico dell'insegnante e la sua trasformazione in libero professionista) che non obblighi a restare nel “proprio” posto all’interno della fila? Forse perché non vuole rinunciare a beneficiare, quando sarà il suo turno, del “sistema” che pur ora la condanna ad un’attesa almeno decennale?

Anche i commenti che lì si leggono denotano ignoranza della situazione: non è vero che non ci siano opportunità, neppure per le discipline messe sotto accusa, che fino a ieri erano le più favorevoli (altro dato spesso mistificato); mentre è vero che le liste di attesa (si tratta propriamente di liste di attesa) sono spropositate e le storture molteplici (soltanto per ricordarne una, tra le molte, vi sono paritarie che non pagano o pagano simbolicamente demandando il pagamento, non in moneta sonante, ma in punti, allo stato, che pone le basi della ricattabilità accreditando questo insano intreccio tra statale e privato).

Malgrado i tagli (sui tagli, ribadisco che non sono tutti buoni e giusti, come si pretende, laddove si infliggono ferite, invece di cercare e resecare sprechi, anche all’interno della scuola, come certi inutili progetti, per esempio o l'intangibile insegnamento di religione che non teme contrazioni di classi, paradossalmente proprio perché facoltativo), non mancano le opportunità (mi riferisco alle cattedre rimaste dopo i tagli, non ad una loro creativa invenzione), il problema sono i diritti acquisiti.

Chi ne è escluso combatte ancora una battaglia di retrovia per essere incluso; quando ci si renderà conto della irreversibilità dell’esclusione e del danno che si subisce a causa del loro mantenimento, si compatterà il fronte loro ostile. Deve maturare una nuova coscienza.

 

Circola di questi tempi la notizia, che però non sono in grado di verificare, di una carenza di insegnanti in germania (dove vige la programmazione e  il tirocinio è remunerato), tant’è che sarebbero impiegati insegnanti di altri paesi europei, ed in particolare polacchi.

Anche le ssis in italia “programmavano” (poi vabbé a sballare del tutto numeri già sballati è intervenuta la solita sanatoria).

Da una parte si deve essere programmato teutonicamente per difetto, dall’altra si è certamente “programmato” per eccesso: il diverso sbilanciamento della programmazione sembra emblematico.

 

 

Venendo al punto. Si sostiene nell'articolo che siccome il mercato è duale, tutta la precarierà viene scaricata soltanto sui nuovi entrati.

Se togliessimo diritti ai lavoratori pre-liberalizzazioni, chi ci dice che la percentuale di contratti precari sul totale non aumenti, invece di rimanere stabile e di spalmarsi su una base di popolazione più ampia? Quali dati si portano a conforto di tale tesi (che sembra essere un'assunzione non provata sulla quale si basano le ricette di liberalizzazione totale)?

 

a) la difesa sindacale dei privilegi associati al tempo indeterminato

 

Avere la gravidanza pagata e che non sia causa di risoluzione del contratto (come invece non è nel lavoro a progetto) ed avere un diritto al mantenimento del posto in caso di malattia accertata (come non è nel lavoro a progetto) si chiamano privilegi?

 

La costruzione d'una giungla contrattuale all'entrata del mercato del lavoro serve, in realtà, per mantenere in piedi un sistema occupazionale anti-meritocratico ed altamente inefficiente, quindi costoso per le imprese e la collettività.

 

Nella collettività ci sarebbero anche i lavoratori che avrebbero uno standard di diritti (la "parte normativa" dei contratti collettivi) prossimo a quello dei lavoratori a progetto?

 

b), l'idea, folle, che le tipologie contrattuali debbano essere rigidamente legislate erga-omnes invece d'essere lasciate alla libera decisione delle parti contraenti, hanno portato alla costruzione legislativa di due mercati del lavoro.

 

Ma esiste un paese dell'Europa in cui la creazione di fattispecie contrattuali in materia di lavoro sia lasciata interamente alle parti (insomma, un allargamento dell'ambito di applicazione dell'art. 1322 II comma del codice civile che ricomprenda anche il mercato del lavoro)?

Inoltre quale sarebbe il vantaggio? Il lavoro è o autonomo o subordinato.

La creazione di fattispecie contrattuali in materia di lavoro "privatizzate" dovrebbe essere lasciata alla contrattazione collettiva o basta quella individuale?

 

Analisi su solo lavoro dipendente.

Oltre al lavoro a tempo determinato mi pare importante anche monitorare il rapporto part/full time

Nel 2007 , ultimo anno pre crisi , i "precari" erano il 12,9% , nella variazione 2007 / 2006 il 18,6%

Fra i lavoratori a tempo indeterminato quelli a part time erano il 12,9% ma nella variazione 2007 / 2006 salivano al 50,5%

Fra i lavoratori a tempo determinato quelli a part time erano il 22,1% ma nella variazione 2007 / 2006 salivano quasi al 60,0%.


Morale: già nel 2007 l'economia italiana si stava infilando in recessione.

Niente di nuovo qui da noi, solo un'ulteriore conferma che la crisi italiana è parzialmente indipendente da quella finanziaria internazionale.

OK, quindi il mercato del lavoro in Italia non è sufficientemente liberalizzato. Ma sufficientemente rispetto a cosa ?

Secondo quanto riportato qui, si direbbe che siamo abbastanza in media con il resto dell'Europa e che i problemi di libertà d'impresa in questo paese siano principalmente altri.


Dopodichè à vero che questo è un paese paralizzato dalle rendite e non c'è dubbio che un posto di lavoro a tempo indeterminato sia, nel suo piccolo, una rendita. Che moltiplicata per milioni di casi costituisce una rendita grande.
Ma possiamo chiedere ai lavoratori dipendenti di rinunciarvi volontariamente (e non può che essere così per ovvi motivi di consenso politico) in un paese in cui esiste un obbrobrio come l'ordine dei notai, tanto per prendermela con i miei pofessionisti preferiti ?


Secondo me no. A me pare che il cartello dei privilegi debba venire giù tutto insieme o meglio ancora cominciando da chi dispone di privilegi e rendite maggiori rispetto ad altri. Altrimenti chiedere di introdure ulteriore flessibilità nel mercato del lavoro rischia di assumere l'identità della difesa di interessi di classe, più che di liberalizzazione del sistema. Che è poi il motivo per cui a sinistra è così poco popolare chi si definisce liberale...

Osservo la realtà che mi circonda, parlo con colleghi e amici imprenditori e cerco di riassumere alcuni concetti.

1. Tempo determinato (precario) nell'ottica imprenditoriale è qualcosa che serve a vari fattori, NON serve ad abbassare il costo del lavoro, a meno che non propongo un salario da fame o quasi, ma serve ad evitare il CCLN, tenendo presente che, a meno di accordi sindacali, nella Grande Industria i "precari" non possono superare una certa percentuale. Nella PA, invece, serve ad aggirare la legge che impone il blocco del turn-over (fatta la legge, trovato l'inganno...). Per il resto per alcuni lavori è una necessità totale: facciamo il caso che mi trovi ad affrontare una importante commessa dell'Ansaldo, che per far fronte a questa commessa abbia bisogno di ulteriore personale, che faccio ? Assumo a tempo indeterminato presumendo che avrò sempre commesse di tale portata, o faccio un contratto a tempo determinato ? Ed oggi come oggi questo tipo di lavori "a commessa" è quello che le PMI si sentono chiedere più spesso. Nessuno più si vuole legare per la vita, sarà la legge sul divorzio del 1970, ma è sempre più così. Ergo...

2. Non concordo pienamente con Michele quando dice:

 

In realtà, ma non se ne rendono conto, il problema dei giovani italiani NON È IL PRECARIATO ma la bassa produttività del sistema e l'eccessiva protezione delle occupazioni "stabili". È la bassa produttività che li frega, perché da essa vengono i bassi salari e, soprattutto, la mancanza d'una prospettiva di crescita sia professionale che salariale. E l'eccessiva protezione impedisce loro di mettere in discussione gli improduttivi.

 

perchè le cose non stanno proprio così, la bassa produttività è figlia dell'alto costo del lavoro, che  è un complessivo, se io dò 1.000 euro a un impiegato, ne dò altrettanti allo Stato (e la contribuzione sui precari è addirittura penalizzante. Per i precari), quindi o faccio qualcosa di altamente produttivo, o mantengo bassi i salari, e la produttività, finendo in competizione con le produzioni a basso costo e alta intensità di mano d'opera dei paesi asiatici.

Se non si abbassa il peso dello Stato nell'economia (ma di molto), e non si abbassa quindi il carico fiscale, hai voglia di parlare di "protezione" o "precario", andremo sempre di più verso un quasi "caporalato", per cui se ho una commmessa assumo (temporaneamente), altrimenti ciccia, mi faccio il mio, che campo lo stesso, e non rischio di vedere tutti i miei sforzi mangiati dal GT di turno. E se sono una Grande Industria metto tutti in CIG, che saranno pure protetti, ma una "crisi aziendale" non si nega a nessuno..

Lo so che sembrerò il solito imprenditore lamentoso (anche se non sono del nord-est), ma la realtà è sempre peggiore, e veramente molti di noi si sentono esausti a combattere con uno stato sempre più vorace, che ti tratta da suddito. E allora cerchi di far quadrare il cerchio comunque.

Una domanda: assumere i lavoratori "precariamente" offre  vantaggi anche rispetto al costo del lavoro?

Intendo dire: a parità di stipendio netto, il lordo che tu devi pagare, è superiore, inferiore o uguale a quella di un dipendente assunto a tempo indeterminato ?

 

 

la bassa produttività è figlia dell'alto costo del lavoro

 

cosa intendi per produttività?

In un contesto caratterizzato da un alto costo del lavoro c'è lo stimolo a ricercare attività ad alto VA e quindi ad alta produttività.Dove sbaglio?

Se non si trovano sono ca@@i!

 

Tempo determinato (precario) nell'ottica imprenditoriale è qualcosa che serve a vari fattori, NON serve ad abbassare il costo del lavoro, a meno che non propongo un salario da fame o quasi

 

Hai dei dati per supportare questa affermazione? Perche' io vedo che i precari italiani non hanno diritto ad indennita' di disoccupazione, hanno i contributi in gestione separata (e l'ultima volta che ho controllato la gestione separata non risultava riscattabile una volta trovato un posto a tempo indeterminato), non hanno maternita' e sicurezza in caso di malattie gravi... Sono tutte cose di cui invece beneficia il mio contratto a tempo determinato in Francia. Che infatti costa un botto al mio datore di lavoro (il CNRS). Incidentalmente anche il mio netto e' molto piu' alto di quanto prenderei in Italia.

 

la bassa produttività è figlia dell'alto costo del lavoro, che  è un complessivo, se io dò 1.000 euro a un impiegato, ne dò altrettanti allo Stato (e la contribuzione sui precari è addirittura penalizzante. Per i precari), quindi o faccio qualcosa di altamente produttivo, o mantengo bassi i salari, e la produttività, finendo in competizione con le produzioni a basso costo e alta intensità di mano d'opera dei paesi asiatici.

 

Prima di tutto, siamo sicuri che il costo del lavoro complessivo in Italia sia piu' alto di quello in Francia od in Germania? La Germania ha meno tasse, ma stipendi netti enormemente piu' alti. La Francia ha piu' o meno le stesse tasse, meno flessibilita' e stipendi sensibilmente piu' alti.

Quello che e' peggio sara' semmai il rapporto produttivita'/ costo del lavoro, non il costo del lavoro in se'. Prova a proporre mille euro al mese netti in Francia, e poi vediamo cosa ti rispondono.

Dai commenti al post di Lodovico mi sembra che, come spesso accade quando si parla tra italiani, molti utenti cerchino di imporre una loro visione delle cose assolutamente aprioristica, invece di argomentare sulla base di dati, come nFA ci insegna... e questo mi spiace un po' perche` la qualita` dei commenti inizia un po' a scadere :(

Quello che ho capito e` che molti, a prescindere dai dati, temono il precariato perche` lo associano a sfruttamento, ingiustizia sociale... e chi piu` ne ha piu` ne metta. Classica ottica guelfi-ghibellini come sottolineato da Michele (mitico!).

Si e` spessissimo parlato di cosa "meritocrazia" voglia dire ed implichi... se sei meritevole: up! se non lo sei: down!

Ma gli italiani sono sempre bulicci col culo degli altri e quando si arriva al dunque vogliono tutti ogni garanzia possibile per pararsi il proprio, giacche` si presuppone che noi si sia sempre nel giusto.

Tuttavia molti non capiscono che la vita e` precarieta` e se non si hanno sistemi atti a favorire il cambiamento, si rimane indietro... Se l'operaio tedesco non avesse accettato di mettersi in gioco e riconvertirsi come figura professionale con nuove specializzazioni, ma avesse alzato gli scudi per difendere il suo status quo, col cavolo che la Germania sarebbe la "speranza" dell'Europa (piu` o meno...).

Per l'Italiano, precariato=incertezza e sfruttamento. Mercato del lavoro libero=precariato.

Ma non sarebbe meglio vedere il mercato del lavoro libero come una continua sfida per crescere, migliorare, cambiare masioni, evolvere? Per il bene proprio e del paese? No, forse l'Italiano medio, mediano e modaiolo vuole solo un telecomando e il calcio... vuole stare dov'e` con la liberta` di potersi lamentare per quello che non e` a causa dei sopprusi dei potenti (marziani?). Non concepisce che un mercato libero non vuol dire una giungla senza regole...

Vabbe`... meno male che noi si e` in altri continenti ;)

Abbi pazienza, e non me ne volere, ma mi sembra che anche tu, con questo commento, aderisci ad uno dei due schieramenti guelfi-ghibellini.

Comunque, su un punto hai profondamente ragione: il fatto di mettersi in gioco e riconvertirsi come figura professionale. Al limite, sfruttare i periodi di mancanza di lavoro per fare formazione. È quella che in Francia si chiama "formation continue" ed è un diritto di tutti. Se non ricordo male, lo scriveva anche Biagi nel suo libro bianco.

Magari fosse così. Torniamo al solito discorso: dobbiamo rapportarci ad una realtà che si chiama Italia. Dove un co.co.* quando perde il lavoro è lasciato solo a sé stesso, non ha protezione sociale, e non ha possibilità di fare formazione. 

Condivido pienamente le posizioni espresse in questo post e nel precedente. Vedo, e non mi stupisce, che in Italia non si capisce la parola liberalizzare. Non la si capirà mai perché non rientra nella nostra cultura (ho letto i post precedenti :)) 

Non potendo aggiungere nulla ai dati, aggiungo una storia di vita (come l'aneddoto di Jacopo Bertolotti).

Ora, io sono rientrato in Italia pochi mesi fa. Ho iniziato un tirocinio di 6 mesi in un'azienda di un certo rilievo (si, sono un "raccomandato"). Dopo 3 mesi (grazie al turnover di cui parla Michele Boldrin) si è liberato un posto, me l'hanno offerto: a tempo indeterminato. Forse perché ho fatto bene il mio lavoro. Ma preferisco pensare di aver avuto avuto culo. Nella vita, serve. Però, per come sono fatto non riesco a togliermi una sensazione spiacevole: il nuovo contratto mi ha tolto libertà, vincolandomi a certe regole che il tirocinio non prevedeva. Peggio, ora sento moralmente il dovere di restare lì almeno per 3-4 anni, mentre prima avrei avuto la libertà di andarmene altrove, fare altre esperienze, etc. Nessuno ti incatena, direte voi. Vero. Ma il Kant che c'é in me non la pensa così.  Insomma, la mia azienda ha investito su di me, mi ha dato fiducia e ora devo ripagarla con gli sforzi che si aspetta facendo le poche cose che so fare bene e imparandone altre. 

Morale: non sarà che tutta questa voglia di tempo indeterminato è l'esito razionale di chi desidera solo massimizzare la propria utilità (massimo reddito col minimo sforzo)? 

  

Se quelli assunti a tempo determinato sono solo il 12% del totale dei lavoratori dipendenti è perché si tratta di forme contrattuali sostanzialmente nuove: la riforma è del 2001. Voglio dire che la quota così contenuta risente della legislazione prima della riforma, quando era sostanzialmente impossibile il contratto a tempo determinato. La moltiplicazione 35 x 0,12 = 4,2 a me, quindi, non sembra corretta, perché quell'88% di contratti a tempo indeterminato è stato stipulato in gran parte prima della riforma (quando era scoraggiato al massimo e di fatto impossibile il ricorso al lavoro a tempo determinato). Se volessimo misurare così "quanto dura in media la precarietà" penso che dovremmo considerare solo i contratti successivi alla riforma, chissà che il risultato non cambi..

 

Non hai capito, decisamente. E' tardi e non ho voglia di rifare i conti in dettaglio. Prova a farli tu: la legislazione originale, in realta' e' di prima del 1999, ma fa lo stesso. Fai l'ipotesi che ogni anno entri nel mercato un 3% nuovo di persone. Assumi che tutti (TUTTI, i dati provano che non e' vero, ma facciamo finta) siano assunti a tempo determinato e che MAI ne escano. Ora conta ...

Ciao.

 

Anche il pastore tedesco ha abbaiato contro il posto fisso

Comunque la si pensi, credo che ognuno in cuor proprio abbia replicato all'invito con qualche antica locuzione sempreverde

2) Ho fatto notare al nostro lettore che, secondo l'ultima rilevazione dell'ISTAT, gli occupati a "termine" (ossia, l'universo di ciò che viene definito "precariato" e che include anche persone che "precarie" proprio non sono) sono il 12% dei lavoratori dipendenti. Questo dovrebbe essere sufficiente per capire, a spanne, che la provocazione era mal calibrata. 

mi sembra però che questa percentuale si riferisca alla quota di lavoratori (dipendenti) a termine sul totale dei lavoratori dipendenti, e quindi non considera altri lavoratori a termine che non sono dipendenti, in cui io includerei i lavoratori a progetto e i lavoratori autonomi soggetti a regole più assimilabili ai contratti di lavoro dipendente.

 

 

Insomma, i dati aggregati suggeriscono che le aziende utilizzano le forme contrattuali "precarie" per testare il dipendente e che poi, dopo 3 o 4 anni, questo passa a tempo indeterminato. E già qui ti viene da dire: dove starebbe il problema, scusa?

 

Michele, questo comportamento così ovvio è espressamente vietato dalle leggi italiane.

Quando assumi un tizio, a T.D. o T.I., c'è un periodo di prova di durata variabile fra 2 settimane e un paio di mesi (a seconda del tipo di contratto) in cui lo puoi lasciare a casa (o lui può restare a casa senza preavviso) senza incorrere nelle abituali sentenze del giudice del lavoro (lo devi reintegrare o pagargli 3-6 mesi di paga, se non sei soggetto all'art. 18).

Tutti quelli (come me) che pensano che un primo giudizio su una persona, non basato su impressioni superficiali, richieda parecchi mesi e alcune caratteristiche importanti per un rapporto di lavoro emergano solo in periodi vicini all'anno, è come se auspicassero la legalizzazione della schiavitù o della rapina a mano armata.

 

"in Italia i lavoratori a tempo determinato vengano fiscalmente e previdenzialmente discriminati";

 

Su questa affermazione vorrei avere chiarimenti se possibile.

Si fa riferimento alle agevolazioni contributive per l'assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di disoccupati da almeno 24 mesi stabilite da una legge del 1990 (la legge 407 ben nota a consulenti del lavoro e commercialisti) che possono arrivare nel caso di impresa artigiana o nei territori del  mezzogiorno( secondo la definizione stabilita da un decreto del 1978) ad azzerare per 3 anni i contribuiti a carico del del datore di lavoro?

Salve.

Vorrei fare un commento sull'articolo, con particolare riferimento ad una situazione che conosco bene: quella degli informatici.

Sono ingegnere informatico. Ho firmato il mio primo contratto nel 1996 e lavoro a tempo pieno dal 1998.

Ho avuto "sempre" contratti atipici, co.co.co e/o prestazione occasionale prima e p.iva poi (dal 2004), salvo un brevissimo periodo di circa 2 mesi nel 2001 in cui sono stato t.i.

Ho scritto quanto sopra in modo da poter parlare per esperienza personale pluriennale (direi ultradecennale a questo punto).

Non so  quale sia l'esatta definizione di "precario", ma non c'e' alcun dubbio che cio' che ti fa sentire precario non e' affatto l'avere o meno contratti a tempo determinato siano essi di lavoro subordinato o contratti teoricamente da professionisti.

Nella mia pluriennale esperienza sei precario *sempre* quando ci sono aziende intermedie tra te e il cliente finale. Dove lavoro ora ci saranno tra  60 e 80  programmatori e qualche decina di sistemisti; i programmatori sono praticamente tutti esterni, tranne 2 o 3. Per i sistemisti forse la percentuale di esterni è leggermente inferiore.

Ma in ogni azienda in cui ho lavorato o con cui sono venuto a contatto le percentuali sono queste

(e molte delle aziende che ho frequentato io avevano dai 1000 lavoratori in su, prevalentemente

in ambito telecomunicazioni).

I dipendenti del cliente finale sono in gran parte project manager, dirigenti o aspiranti tali, persone che si occupano di marketing, ecc. Quasi nessun tecnico.

 

Anche questa e' una situazione tipica di molte aziende che ho frequentato.

 

La precarieta' nasce dal fatto che, se anche tu fossi  t.i. con la tua azienda, il cliente finale potrebbe tranquillamente non rinnovare il contratto a tale azienda e questa avrebbe tranquillamente la possibilita' di mandarti via (licenziamento per giusta causa, in quanto verrebbe a mancargli il lavoro), per non parlare del fatto che in genere gli intermediari si mangiano come minimo il 50% di quello che il cliente finale paga e che dovrebbe essere il tuo stipendio. Per non parlare poi di quando gli intermediari sono piu' di uno.

 

Non c'entra niente essere t.d. o co.co.pro. I problemi del "precario" derivano dalla presenza di intermediari e *mai* dal tipo di contratto.

Questo almeno nelle grandi aziende ad elevato "tasso tecnologico".

 

Quando ho avuto co.co.co direttamente con un ente universitario, mi sono sentito molto meno precario di quando ho avuto un t.i. con un'azienda che mi mandava a lavorare presso la sede di un suo cliente.

 

Saluti,

Marco

Questo è un dato di fatto, i "precari" privati sono soprattutto in quelle realtà che vivono di commesse.

E sei anche fortunato, molti quando perdono la commessa semplicemente fanno un finto fallimento enon pagano nemmeno gli ultimi stipendi.

Riusciresti a quantificare (a spanne) quanti sono ?

C'è un qualche buon motivo nel continuare a confondere tempo determinato con precariato? Avevo già provato a spiegare perché (secondo me) le due cose non solo non sono uguali, ma non sono nemmeno simili in un altro commento.

Di motivi per confondere le due cose ne vedo solo due: un contestatore a tutti i costi potrebbe voler appiccicare la connotazione negativa che ha la parola "precariato" a tutte le forme di impiego non intoccabili ed imperiture, oppure un malvagio capitalista potrebbe voler promuovere il "tempo determinato" per usarlo come grimaldello per far passare l'idea che rendere precari i lavoratori è cosa buona e giusta.

Entrambe le motivazioni sono, ovviamente, faziose e poco adatte a nFA. Gradirei quindi moltissimo che, almeno qui, si evitassero queste confusioni (o che mi si mostrasse che sono io a sbagliarmi e che i due concetti siano la stessa cosa).

Grazie :-)

Un amico che lavora all'OCSE mi scrive

 

Caro Michele

 

Ho letto il tuo post sul precariato su noise, e visto che citavi Stefano Scarpetta ti invio questi dati, stimati a partire da dati SILC. Sono transition probabilities once controled for socio-demographic caractheristics. Lo trovo molto interessante perché mostra come le year on year transition’s odds dei giovani  (aged 15-29) verso contratti a tempo indeterminato provenendo da contratti «precari» sono nettamente più alte [in Italia, NdMB] che in paesi come Spagna e Francia. Il vero problema, come tu hai ben detto nel post, si trova nella coda della skill-distribution, ovvero per coloro che un impiego non lo hanno. Lì la transizione massima che puoi osservare è dal bagno alla camera da letto J una bella forma di dualità non credi ?

 

Cmq verissimo che i sistemi legali pongono grandi problemi nella lettura dei dati, però la varianza che tu vedi è cmq anche sintomo di questo. Less dual, higher transitions…

 

Trovi qui il paper, nel caso, è piuttosto policy oriented ma nn mancano spunti di riflessione

 

 

 

Estimated probability of being on a permanent contract in 2006 conditional on the status in 2005, by educational level (Low educational level = ISCED < 3; High educational level = ISCED > 3.)

 


 
 

 Unemployed a year earlier Temporary job a year earlier   
 United KingdomTotal32.256.0     
  Tertiary39.959.3     
 IrelandTotal40.644.7     
  Tertiary55.162.2     
 BelgiumTotal21.951.7     
  Tertiary24.754.3     
10  LuxembourgTotal18.236.8     
11   Tertiary27.941.1     
12  FranceTotal15.219.7     
13   Tertiary17.522.9     
14  GreeceTotal13.327.9     
15   Tertiary15.634.4     
16  FinlandTotal9.115.2     
17   Tertiary18.424.9     
18  ItalyTotal6.051.2     
19   Tertiary10.846.5     
20  SpainTotal4.922.0     
21   Tertiary9.231.3  

 

Questi dati sono molto interessanti; in particolare, la fig. 6, che mostra come in Italia (unico paese tra quelli considerati) l' employment rate (2007) nell'età 15-29 sia più bassa per i tertiary graduates che per gli upper secondary graduates.

Riguardo ai dati dell'Istat sul turn-over leggo dal rapporto linkato

 

Il primo indicatore (turn-over) misura il numero di dipendenti toccati, nell’arco dell’anno, da un fenomeno di entrata e/o di uscita rispetto a mille dipendenti presenti all’inizio dell’anno nelle imprese oggetto di studio

 

Può essere che questo metodo conteggi (più volte) chi cambia lavoro più volte durante l'anno?
Lo chiedo perchè "a naso" (lo so, non è un metodo molto scientifico.. ma in genere funziona comunque), sulla base di quello che vedo qui intorno, un 28% di turn-over rispetto allo stock di dipendenti mi sembra una percentuale molto alta, specie per un campione di "grandi aziende".
In secondo luogo (visto che cerco sempre di verificare quello che mi dice il naso), non trovo corrispondenza con altri risultati ricavabili dai dati INPS.
Ora non posso approfondire le mie considerazioni; magari le manderò un file con qualche dato preso dall'INPS.

Chiaro che sì! Perché non dovrebbe?