La situazione attuale
Guardando ai numeri dell'attuale mercato del lavoro italiano, parrebbe che una riforma sia veramente necessaria e che debba essere implementata in tempi brevi:
- Un tasso di disoccupazione giovanile al 30%.
- Tra i disoccupati quasi il 50% sono di lunga durata (ossia disoccupati da più di un anno).
- Una crescente percentuale di lavoratori scoraggiati (in aumento del 50% dal 2004)
- 24% di giovani compresi tra i 19 e i 29 anni che non partecipano alla forza lavoro, non seguono corsi di formazione, non studiano e non lavorano (cosiddetti NEET, ''not in education, employment or training''.)
- Una partecipazione femminile alla forza lavoro ancora molto bassa (51%) e decisamente inferiore alla media europea (66%)
- Una fuga di cervelli in aumento (7% dei dottorati italiani).
- Una percentuale di economia sommersa stimata pari al 16-17% del Pil.
- Costi del lavoro molto elevati e burocrazia complicata.
- Una media salariale del 35% inferiore alla media europea.
- Un mercato del lavoro segmentato costituito da protetti (insiders) e non protetti (outsiders) con limitata interazione tra le parti.
- Un sistema di ammortizzatori sociali non efficiente e non efficace nel creare un reale supporto economico per i disoccupati.
- Una produttività del lavoro bassa e stagnante.
Come siamo arrivati qui?
Il passaggio è stato piuttosto semplice. La regolazione dei contratti a tempo determinato è avvenuta a partire da metà degli anni 90 in parallelo al mantenimento di un sistema esistente piuttosto rigido, caratterizzato da contratti di natura permanente, a cui son associati elevati costi di licenziamento (stiamo parlando non solo dell'art. 18, ma come evidenziato dal Prof. Brunello, anche delle tempistiche dei processi civili). Di conseguenza, solo i nuovi entrati sul mercato del lavoro, sono stati direttamente influenzati dalla nuova legislazione, che apporta vantaggi per le imprese in quanto introduce flessibilità e riduce i costi di turnover. Questa flessibilità necessariamente “al margine”, che lascia invariate le condizioni e i benefici dei lavoratori permanenti e che colpisce direttamente i lavoratori “precari”, ha generato una forte segmentazione interna e ha reso la comunicazione tra i due poli sempre più difficile.
Le riforme più importanti in questa direzione sono state la legge Treu (1997) che disciplina il contratto a tempo determinato, il decreto legislativo 368/2001 che consente l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e la legge Biagi (2003) che disciplina nuove tipologie di lavoro a tempo determinato quali i contratti di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite. Gli obiettivi di queste riforme erano quelli di incrementare le occasioni di lavoro e garantire a tutti un equo accesso a una occupazione regolare e di qualità e di contrastare i fattori di debolezza strutturale della nostra economia quali la disoccupazione giovanile, la disoccupazione di lunga durata, la concentrazione della disoccupazione nel Mezzogiorno, il modesto tasso di partecipazione delle donne e degli anziani al mercato del lavoro.
Studi teorici ed empirici, come ad esempio il lavoro di Tealdi (2011), dimostrano che i lavoratori temporanei sono sopratutto donne e giovani, con poca o nessuna esperienza lavorativa. Quando entrano nel mercato del lavoro con un contratto temporaneo, sono spesso destinati ad affrontare cicli di contratti temporanei o cicli alternati di occupazione temporanea e disoccupazione prima di poter approdare a un contratto permanente. Alcuni di loro, scoraggiati, escono dal mercato del lavoro, perlomeno quello regolare (Contini e Grand (2011)), altri soprattutto se con un alto livello di educazione lasciano l’Italia e si dirigono verso paesi che offrono migliori opportunita’ (“7 per cento dei dottori di ricerca è emigrato all’estero”, Istat 2011). Altri persistono, ma vedono il loro benessere notevolmente ridotto rispetto a persone con profilo professionale simile entrate nel mercato del lavoro prima delle riforme. (Tealdi (2011)). In principio le imprese possono usare i contratti temporanei per identificare i lavoratori più produttivi oppure per tagliare i costi (avendo la flessibilità di aggiustare la forza di lavoro in caso di crisi economica o aziendale a costo zero). Lo studio di Berton et al (2009) sembra dimostrare che nonostante le due anime coesistano, il taglio dei costi rappresenta la motivazione principale, alla luce del fatto che i tempi per accedere a un contratto permanente sono lunghi.
La flessibilità è un male da evitare?
La flessibilità è un elemento necessario per la crescita di un’economia moderna come quella italiana, se introdotta e regolata in modo da far fronte alle esigenze delle aziende e dei lavoratori. Non solo le imprese, ma anche i lavoratori possono beneficiare in diversi modi della presenza di un mercato del lavoro (più) flessibile. Ma la riforma del mercato del lavoro non può essere limitata esclusivamente all’art.18, che rappresenta solo parte del problema. E soprattutto non può essere limitata solo ai nuovi entrati sul mercato del lavoro. Se alle imprese viene concessa l’opzione della flessibilità per alcuni dipendenti (i nuovi assunti), ma viene mantenuta una forte rigidità per altri (con lunga esperienza lavorativa), i primi saranno coloro che pagheranno il costo della flessibilità e che saranno facilmente licenziabili in caso di crisi economiche, settoriali, aziendali, indipendentemente dalla loro produttività. l punti essenziali sono dunque
- il superamento del mercato duale;
- la semplificazione della disciplina contrattuale (Istat conta attualmente 46 diverse tipologie di contratti);
- la riduzione dei costi del lavoro;
- la presenza di incentivi alla produttività;
Due sono le proposte di riforme presentate e valutate sinora.
La proposta Ichino prevede l'introduzione di contratto unico che permetta alle aziende di licenziare in caso di necessità, pagando un costo proporzionale all'anzianità lavorativa. Questo verrebbe accompagnato da una riforma degli ammortizzatori sociali che costituisca una reale rete di protezione per coloro che vengono licenziati. Con questo tipo di riforma il problema del mercato duale potrebbe essere effettivamente superato e la possibilità di licenziare con costi crescenti potrebbe essere un buon compromesso tra flessibilità per l'impresa e sicurezza per il lavoratore. Tuttavia, tre sono i possibili rischi: 1. se i benefici per i disoccupati non vengono saldamente subordinati alla ricerca attiva di una nuova occupazione, si potrebbe generare un aumento della disoccupazione, anche di lungo periodo; 2. se i costi di licenziamento sono eccessivamente alti (soprattutto per i lavoratori più anziani), la rigidità attuale potrebbe rimanere di fatto invariata; 3. potrebbe sorgere un problema di sostenibilità nel medio/lungo periodo. Tuttavia se, come nei paesi nordici, il sostegno ai disoccupati è limitato nel tempo e subordinato alla partecipazione a (efficaci) politiche attive, se le risorse finanziare vengono individuate senza l'aumento delle aliquote contributive (già molto alte!) e se i costi di licenziamento crescono in maniera graduale in funzione dell'anzianità (e magari anche della produttività), questa riforma potrebbe davvero andare nella giusta direzione.
La proposta Boeri-Garibaldi prevede l'introduzione di un contratto unico flessibile che dura fino a un massimo di tre anni, e diventerà permanente e tutelato (anche dall'art.18) successivamente. Durante i primi tre anni licenziare è proporzionalmente costoso, ma la reintegrazione del lavoratore in azienda non è prevista. Si tratta quindi di introdurre la possibilità per le imprese di estendere l'attuale periodo di prova del contratto permanente da sei mesi a tre anni. Sebbene questo tipo di riforma introduca una positiva flessibilità iniziale, tuttavia mantenendo successivamente una forte rigidità, potrebbe non risolvere il problema della dualità. La presenza di una discontinuità (dopo i primi tre anni) potrebbe generare disincentivi per l'impresa. I nuovi assunti, indipendentemente dalla loro produttività, potrebbero essere licenziati prima della soglia dei tre anni e potrebbero ancora una volta essere utilizzati come “buffer”. L'introduzione di costi del lavoro progressivamente crescenti potrebbe favorire il superamento di questo problema. Inoltre, come per la legislazione attuale in materia di lavoro permanente, questa riforma manca di incentivi alla produttività, che potrebbero essere introdotti per aumentare l'efficienza del mercato del lavoro.
Rimane inoltre il problema dell'elevata contribuzione. La riforma ora sul tavolo delle trattative sembra anche prevedere un aumento delle aliquote. Con una percentuale di sommerso già molto elevata, un ulteriore incremento dei costi di contribuzione non potrebbe che inasprire la grave situazione attuale. La recente crisi economica e finanziaria ha chiaramente dimostrato che il nostro paese è ancora molto indietro sulla via della competitività. Nell'era della crescente e globale mobilità del lavoro, dell'abbondanza di forza lavoro indiana e cinese qualificata e a basso costo e del facile outsourcing, la riforma del mercato del lavoro non può non avere come obiettivo la competitività non solo per il presente, ma soprattutto per garantire un futuro di crescita e sviluppo.
In che cosa questa norma incide sulla (in)capacità dei nostri impresari di fare impresa competitiva sul mercato globale, anzichè gli affari loro?
RR