Secondo MacKenzie McHale, la mia maestra jedi morale, “in una democrazia niente è più importante di un elettorato ben informato”. Un po' esagerato, forse, che di cose importanti in una democrazia ce ne sono parecchie – ma se non in cima sarà almeno, che so, fra le prime tre o quattro.
<iframe src="https://www.youtube.com/embed/rma3u60QT4M" frameborder="0" width="560" height="315"></iframe>
Rovesciando il ragionamento, l'ovvia conseguenza è che un dibattito pubblico fatto male complica (quando dovrebbe semplificare) la vita di chi poi deve prendere le proprie decisioni – in cabina elettorale e non. In un certo senso è come avvelenare la falda sotto casa per vendere acqua minerale: alla lunga, da quella falda finiamo per berci tutti.
Esempio palese è la discussione sul mercato del lavoro italiano, pompata dal governo e sparata a editorialisti incatenati per far sembrare un modesto cambio di segno la più grande svolta da quella volta nel Neolitico in cui Joe il cavernicolo se ne uscì con questa bizzarra idea della ruota.
La crisi ha pesato su un sistema in cui già lavoravano in pochi, poi la ripresa dell'occupazione è stata fra le più lente: così oggi non è che ci sia proprio da tirare il freno a mano per rallentare, diciamo. Va bene, ma un recupero c'è stato o no? Sì, d'accordo, ma per fortuna il linguaggio umano possiede questa proprietà interessante che ci consente di non esprimerci per forza in binario: non è che o si va indietro tutta o si riparte per forza come razzi. Ipoteticamente si può cadere in un buco profondo e poi, per esempio, metterci del buon tempo a risalire.
Secondo i dati OCSE all'inizio della crisi, nel 2008, il tasso di occupazione italiano era già più basso di quello spagnolo o francese, e mostruosamente inferiore a quello inglese o tedesco (dove “mostruosamente” equivale a 11-13 punti: fate pure il calcolo di quanti milioni di posti di lavoro in più e di mantenuti in meno valga la differenza). A parziale consolazione, chi aveva amici turchi, ungheresi o cileni poteva almeno invitarli a cena per vantarsi di far meglio di loro (e solo di loro) fra i paesi OCSE. Certo con i cileni la differenza era di un punto percentuale e mezzo ma non sottilizziamo: una vittoria è una vittoria.
Dopo di che il PIL italiano prende una mazzata tremenda e, anche se secondo alcuni sofisticati teorici ne saremmo usciti meglio degli altri, credo ci toccherà forse pazientare ancora un po' per vedere dei numeri che lo confermino. Aspettando che, eventualmente, la previsione si realizzi, nel frattempo l'occupazione disfattista, cinica e bara cala fino a raggiungere un picco negativo nel 2013, giù al 55,5% contro il 58,7% di cinque anni prima.
Nello stesso periodo il tasso di occupazione spagnolo diminuisce molto di più, tanto che a un certo punto diventa persino inferiore – di qualche decimale, non sbrodolate – rispetto all'italiano. Negli altri tre grandi paesi europei le cose vanno invece meno male. Nel Regno Unito l'occupazione cala di circa due punti percentuali, mentre il mercato del lavoro tedesco non batte ciglio e, nel complesso, si amplia per tutto il tempo. (Please, non ricominciamo con questa storia dickensiana dei mini-job usati per sfruttare gli sfigati giovani teutonici: per le persone da 16 a 24 anni la Germania ha un tasso di povertà molto più basso dell'italiano. O, per vederla dall'altro lato: risultano parecchi giovani italiani che emigrano in Germania ma non viceversa. Sarà che ormai non facciamo più la pizza buona come una volta?) In Francia la perdita è di circa un punto minore che in Gran Bretagna.
Da metà 2013 a fine 2015 il tasso di occupazione italiano recupera appena più di un punto percentuale, lo spagnolo oltre quattro. Anche il Regno Unito si rimette a correre, insieme alla Germania che non s'era fermata proprio. In Francia invece il mercato del lavoro non solo non si riprende ma – appunto – ristagna all'italiana anche se le loro perdite erano sostanzialmente minori.
Questo è il risultato. Qualche gufo disfattista oserebbe notare che la curva non l'abbiamo presa proprio benissimo. Patriotticamente, invece, il motivo è ovvio: andavamo troppo veloci prima.
Prima che amici ministeriali e wannabe tali tirino fuori la solita storia del tasso di disoccupazione (che personalmente bandirei dal discorso pubblico perché è una misura anti-intuitiva per i non esperti e quindi facilmente manipolabile), possiamo scomporre il mercato del lavoro italiano in varie fettine e guardarci dentro: così saltano fuori le varie tendenze fra disoccupati, occupati e inattivi. (Per analisi e grafici ho usato le serie mensili che trovate, rispettivamente, qui, quo e qua.)
A gennaio 2008 i disoccupati sono poco meno di 1,6 milioni, salgono a un picco di 3,3 milioni nel novembre 2014, per poi calare a 2,9 milioni nello scorso novembre. Gli occupati diminuiscono invece di circa un milione di unità, e di queste finora ne sono state recuperate circa un terzo. Infine c'è il grosso problema strutturale dell'Italia, e cioè la montagna di inattivi: 14,3 milioni di persone, che aumentano a 15 milioni in aprile 2011 e infine tornano a 14,1 milioni a novembre 2015: un esercito a spasso equivalente al 70% dell'intera popolazione di New York o a un pelo di più dell'intero stato dell'Illinois.
<iframe src="https://public.tableausoftware.com/views/ripresona/Dashboard2?:embed=y&:toolbar=no&:display_count=no&:showVizHome=no" frameborder="0" scrolling="no" width="550" height="900"></iframe>
Quello degli inattivi è un problema delle donne, del sud, e soprattutto delle donne del sud. Per dare un'idea prendiamo come riferimento il tasso di inattività al terzo trimestre 2015: la media complessiva italiana è al 36,4%, che però nasconde (come succede sempre) una variabilità enorme. Per esempio l'inattività sale al 51,2% per le donne del meridione fra 35 e 44 anni, è al 61,5% per l'intera popolazione femminile in età da lavoro (15-64 anni) arrivando, sempre nel meridione, a un pregevole 67,5% per le ragazze fra 18 e 29 anni.
L'ultimo pezzetto di dati che possiamo affettare riguarda l'occupazione a seconda delle classi di età ed area geografica. Anche qui si scoprono dettagli interessanti. Con tutta probabilità non c'è ancora mai stata nessuna particolare crescita di nuovo lavoro in sé: piuttosto l'occupazione sale fra le coorti più anziane, rimaste al loro posto a causa della riforma delle pensioni del 2011. In tutti gli altri segmenti d'età la tendenza è ancora stabile, vicina al minimo, o al ribasso in maniera più o meno rapida.
Menzione a parte meritano i trentenni (e in particolare i trentenni del meridione) che hanno preso una martellata epica: per loro il tasso di occupazione è calato di nove punti, e se hanno raggiunto il fondo c'è almeno da augurarsi che a Palazzo Chigi forniscano un bonus pala per agevolare lo scavo.
Tanto poi, si capisce, siamo già pronti a lottare contro gli euro-burocrati di Bruxelles per farcelo scorporare dal deficit.
<iframe class="ui-selectee" src="https://public.tableausoftware.com/views/Employment-by-age-2014/Dashboard4?:embed=y&:toolbar=no&:display_count=no&:showVizHome=no" width="610" height="915" frameborder="0" scrolling="no"></iframe>
Ottimo articolo, un plauso per le infografiche sempre molto chiare. La parte relativa alla messa al bando del tasso di disoccupazione mi ha ricordato questo simpatico siparietto in cui il prof. Boldrin istruisce un confuso signore sulla differenza tra tasso di occupazione e disoccupazione (tra l'altro, credo si trattasse del primo storico incontro con Borghi!) :)
Il crostarolo, ignorante allora come ora!