Questo è un pezzo che si può scrivere solo quando in Iraq non succede gran che, ed è quella la cosa notevole. Ci sono state le elezioni e ora probabilmente ci sarà uno stallo. La IHEC (agenzia che regola le elezioni in Iraq) riporta una partecipazione intorno al 62%. Minore del 78% raggiunto nelle precedenti elezioni del 2005 (legislative a gennaio e per la costituzione a dicembre) ma vicina, per esempio, a quella raggiunta nelle elezioni presidenziali americane del 2008 (63%, la più alta dal 1964).
Per il presente, alcune cose sono sicure. Primo, il paese non è precipitato nella guerrra civile. Secondo, non c'è stato un frazionamento del paese in tre tronconi, tutti troppo deboli di fronte alla potenza Iran. Per il futuro, i dati sono ancora incompleti (la comunicazione dei risultati preliminari è stata ancora rimandata) e incerti, ma non è forse azzardato fare qualche predizione.
L'Iraq è sulla strada di una democrazia incerta, fragile e corrotta. Gli equilibri politici si raggiungeranno con manovre di corridoio di cui si saprà poco, e in cui si faranno scambi di favori, di posizioni, e anche di concessioni su principi importanti. L'unità stessa del paese è in discussione, con profonde crepe fra Nord e Sud. Alcune minoranze sostanziali (i curdi) svilupperanno l'arte di mungere dalle minoranze, con la costituzione di regioni a statuto speciale. Una forte istituzione religiosa (il Consiglio Supremo Islamico) eserciterà un condizionamento pesante o una influenza diretta, in ogni momento, sulla vita politica e culturale. I leaders politici saranno combinazioni di Maria Callas e Al Capone. Non c'è male: noi abbiamo vissuto per più di sessanta anni (e nel passato anche prosperato) esattamente in questa situazione.
Per il passato invece una cosa è chiara. Tutti i luoghi comuni con cui la guerra in Iraq era stata condannata e giudicata sono stati sfatati. Ne considero qui due, i più popolari nel passato.
La prima era che la guerra era guerra per il petrolio, "sangue per petrolio". E' una tesi che ha avuto grande popolarità, anche nella stampa ufficiale italiana. Nel 2007 perfino Alan Greenspan, in cerca di una rinnovata purezza politica, affermava nelle sue memorie che "la guerra in Iraq è in larga parte una guerra per il petrolio". La tesi era affermata e accettata come una verità ovvia; ora però è quasi sparita dalla circolazione. Forse perché la presidenza è cambiata, e quindi la tesi è meno popolare. O forse perché la verifica ora è più difficile.
Controllo americano del petrolio iracheno? Vediamo. Nei mesi recenti (fine del 2009) ci sono state due grandi aste per l'assegnazione dei diritti di estrazione del petrolio in Iraq. Nel dicembre 2009 per dieci giacimenti nei giganteschi giacimenti petroliferi di Majnoon. I vincitori: Shell (Regno Unito) e Petronas (Malesia). Qualche settimana dopo c'è stata una seconda asta, per i giacimenti di Qayara e Najmah. Questa volta ha vinto Sonangol, la compagnia petrolifera dell’Angola. L’asta precedente era stata a giugno; unici pozzi allocati quelli di Rumaila, vincitori BP e CNPC (Cina). Exxon e Royal Dutch Shell hanno vinto l’asta di giugno, e questa è al momento l’unica compagnia 'maricana. Insomma: lo sfruttamento dei giacimenti nell'anno scorso è stato concesso sull base di regolari aste. I concorrenti erano numerosi (44 nelle ultime aste) e non ci sono stati evidenti trattamenti di favore. Il prezzo di concessione è stato ragionevole.
Se il piano era quello di passare il petrolio iracheno nelle mani delle compagnie petrolifere americane, qualcosa non deve aver funzionato, o il piano non era quello. La seconda interpretazione è la più probabile. La ragione di questa affermazione è che il punto critico nella vicenda è stata la legislazione del settore petrolifero (Draft Hydrocarbon Law). La legge definitiva non è stata ancora approvata (perché manca l’accordo con i curdi) ma ha due punti fondamentali. Il primo, che il petrolio iracheno rimane nelle mani dello stato e non viene privatizzato. Il secondo che le risorse petrolifere non vengono spezzate per regioni, ma rimangono sotto il controllo della Iraqi National Oil Company (INOC).
Il secondo mito è riassunto in alcune affermazioni filosofico-generali come, per esempio, "Non si esporta la democrazia" o "non ci sono soluzioni militari a problemi politici".
Queste lezioni c’è qualcuno che le impara, ed è la amministrazione americana. Qualche giorno fa l'ammiraglio Michael Mullen, chairman of the Joint Chiefs of Staff nell'amministrazone Obama, ma di nomina Bush (settembre 2007) ha presentato la nuova "dottrina Mullen" che regola l’intervento militare americano (il video è qui e lo consiglio). E’ una svolta radicale rispetto alla dottrina Powell. I cardini di quella dottrina erano che un intervento militare doveva essere la soluzione estrema, quando la politica avesse fallito. E che quando questo intervento dovesse avvenire, allora le forze dovevano essere soverchianti, con l’obiettivo di una vittoria militare senza vincoli politici. Quindi un intervento solo in casi estremi, e allora orientato a un dispiegamento soverchiante di forze. La lezione del Vietnam, dove questi due principi erano stati regolarmente violati, era stata appresa bene.
La dottrina Mullen è il rovesciamento di quella Powell. I militari americani sono gli esecutori di una politica. Il loro impiego sarà non più limitato (come era implicito nella politica Powell di intervento militare come soluzione estrema), ma più esteso, più facile da realizzare, senza un preavviso. L’obiettivo non è "la sconfitta del nemico, ma la vittoria del popolo". Con conseguenze operative: i militari americani possono considerare un aumento del rischio che corrono nelle operazioni militari, con l’obiettivo di minimizzare le perdite fra i civili, di qualunque popolazione. La dottrina Mullen mette la forza militare al servizio della politica. E’ pericolosamente vicina alla dottrina (la forza militare deve essere guidata, nella conduzione tattica e strategica delle operazioni, dal disegno politico) che ha creato il Vietnam.
Resta solo da vedere se di questa dottrina si tireranno le conseguenze inevitabili: che una cessazione delle operazioni militari nel settembre 2010 rischia di vanificare tutti gli sforzi fatti a partire almeno, dal 2007, per garantite un governo stabile in Iraq, quello che Joe Biden chiama "una delle più grandi realizzazioni di questa amministrazione". Il dramma del Vietnam è stato (come ha scritto il Corriere con sublime vaghezza, dopo che "The Hurt Locker" ha vinto l’Oscar) metabolizzato. La situazione è quindi matura per una ripetizione dell’errore.
Si profila un secondo Vietnam, che tristezza! E come è stato dimenticato se la V di marmo nero con l'incisione dei nomi dei morti ammazzati fa bella mostra nel Mall di D.C. proprio per ricordare? Ma solo il popolo ha memoria, gli strateghi sono ottusi?
Da eroi della seconda guerra mondiale a sconfitte così clamorose... E' il fallimento degli accordi o delle strategie? Intanto c'è gente che soffre e la parola "pace" che aspetta il trionfo. Non mi sembra normale che per portare democrazia o per assicurarsi il petrolio si scatenano guerre. Forse la verità è quella populista che bisogna consumare armi per poterne produrre...
Michele mi fa notare che non mi sono spiegato su questo punto.
Il Vietnam si ripeterebbe se ci fosse un ritiro prematuro. Noto che anche analisti che sono stati feroci critici della invasione dell' Iraq (come Thomas Ricks, autore di Fiasco, tanto perche' si capisca bene cose dice, parlando della guerra/invasione) ora suggeriscono prudenza nel ritiro.
Il dibattito non mi pare che sia tanto su se sia stata una buona idea la guerra, ma se, data la situazione attuale, sia bene procedere con un ritiro rapido. Anche secondo me la questione politica interessante e' questa. C'e' anche una questione storica pero', e dalla storia c'e' sempre da imparare.