Ma alcune conclusioni sembrano possibili, al di là del chiacchericcio di chi non ha letto (o capito?) di cosa si parla quando Giarda afferma che 100 milardi di euro sono sotto l'occhio della ''spending review''. Esaminiamo quindi cosa dice il rapporto, che è diviso in tre parti: la prima, la più corposa, è incentrata sulla storia della spesa pubblica in Italia dal 1951 al 2010.
La spesa pubblica italiana è passata, come incidenza sul PIL, dal 23,6 % del 1951 al 51,2% del 2010, passando per il massimo del 56,6 % (sic) del 1993. Andando a vedere la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito (la spesa primaria) si parte dal 22,5 del 1951 per arrivare (senza top, ma con solo un rallentamento nel 1995-1997) al 46,7 % del 2010. La prima tabella che vi riporto è quella di pag. 9 della relazione che riguarda l'evoluzione della composizione della spesa pubblica nel tempo.
Tabella n. 3 : Composizione spesa delle amministrazioni pubbliche nel 1951, 1980 e 2010
| ||||||
1951 |
1980
|
2010
| ||||
|
valori ass.ti |
comp % |
valori ass.ti |
comp. % |
valori ass.it |
comp. % |
Consumi pubblici |
824 |
54,4% |
34.413 |
40,9% |
328.607 |
41,4% |
Pensioni |
142 |
9,4% |
19.089 |
22,7% |
240.000 |
30,2% |
Previdenza, assistenza, trasferimenti famiglie |
183 |
12,1% |
6.795 |
8,1% |
69.947 |
8,8% |
Contributi produzione |
55 |
3,6% |
5.368 |
6,4% |
15.330 |
1,9% |
Altre spese correnti |
21 |
1,4% |
362 |
0,4% |
15.579 |
2,0% |
Spese correnti netto interessi |
1.225 |
80,8% |
66.027 |
78,5% |
669.462 |
84,4% |
Interessi passivi |
57 |
3,8% |
9.003 |
10,7% |
70.152 |
8,8% |
Totale spese correnti |
1.282 |
84,6% |
75.030 |
89,2% |
739.614 |
93,2% |
Spese capitale |
234 |
15,4% |
9.076 |
10,8% |
53.899 |
6,8% |
Totale spese |
1.516 |
100,0% |
84.106 |
100,0% |
793.513 |
100,0% |
La tabella n° 4 invece chiarisce cosa c'è nella voce “consumi pubblici”, che, insieme alle pensioni e alla previdenza costituisce oltre l'80 % della spesa dello Stato, a cui sono da aggiungere gli interessi passivi, che sono soggetti al mercato e non alla politica. Vediamo:
Tabella n. 4 Composizione percentuale della spesa per consumi collettivi,
per funzione – dal 1980 al 2009. |
1980 |
1990 |
2000 |
2009 |
Servizi generali |
12,3% |
12,9% |
14,1% |
13,8% |
Difesa |
7,1% |
7,0% |
5,9% |
6,9% |
Ordine pubblico e sicurezza |
9,0% |
9,7% |
10,3% |
8,7% |
Affari economici |
7,3% |
6,8% |
6,7% |
6,7% |
Protezione dell'ambiente |
0,3% |
0,8% |
1,1% |
1,4% |
Abitazioni e assetto del territorio |
2,3% |
2,0% |
2,3% |
2,2% |
Sanità |
29,7% |
29,6% |
30,7% |
33,8% |
Attività ricreative, culturali e di culto |
2,1% |
2,1% |
2,2% |
2,2% |
Istruzione |
25,7% |
25,1% |
22,5% |
20,0% |
Protezione sociale |
4,2% |
4,0% |
4,3% |
4,3% |
Totale consumi pubblici |
100,0% |
100,0% |
100,0% |
100,0% |
Prima di commentare l'evolversi della spesa (più sanità, meno istruzione, frutto della diversa composizione della popolazione italiana per classi di età), spendiamo due parole sulla voce consumi pubblici, in particolare sulla sua percentuale deflazionata. Cedo volentieri la parola a Pietro Giarda:
Ponendoci una domanda che non ha un grande contenuto operativo, ma che stimola qualche riflessione , ci si può interrogare:
“se i prezzi dei beni di consumo collettivo (i deflatori costruiti dall’ISTAT ai fini della costruzione dei quadri di contabilità nazionale a prezzi costanti) fossero cresciuti negli ultimi 40 anni con la stessa velocità dei prezzi dei beni di consumo privati (come rilevati dall’ISTAT), quale sarebbe stata la spesa per i beni di consumo collettivo prodotti nel 2010 ?”
La risposta a questa domanda è molto agevole dal punto di vista numerico ed è la seguente:
“la spesa per consumi collettivi nel 2010 sarebbe risultata pari a 236,5 miliardi di euro, contro l’importo di 328,6 miliardi rilevato per le spese effettivamente sostenute, con una differenza in meno di 92,1 miliardi di euro”
Ovvero se la spesa dello stato, al di là della componente pensionistica, fosse aumentata in linea con l'inflazione avremmo 92 miliardi di spesa in meno nel 2010, rispetto alla base del 1970, che comunque non era bassa. Poiché i “processi produttivi” del settore pubblico non sono soggetti a particolari innovazioni tecnologiche, ma solo al diritto amministrativo che non è praticamente mai cambiato, gli aumenti di spesa sono da riferirsi praticamente solo alla componente salariale, senza alcun riferimento alla produttività e/o all'efficienza.
Giarda inoltre rileva che di questi 328 miliardi di euro una parte consistente (circa 97 miliardi) non deriva da scelte “politiche”, ma da automatismi di legge, perché sono contributi pensionistici figurativi, imposte indirette e ammortamenti (pag. 29). Ciò significa che le possibilità di compressione della spesa pubblica non pensionistica andrebbe vista sul valore di 230 miliardi di euro, pari al 40 % della spesa pubblica, mentre la percentuale più significativa è proprio sulla spesa pensionistica e assistenziale, che contribuisce con il 45% alla spesa pubblica, sul valore ricalcolato di 230 miliardi. È interessante notare, come fa Giarda, che in Italia esistono 22 milioni di pensioni, ma non di pensionati, difatti ci sono 4 pensioni ogni 3 pensionati. Infine, è utile notare che la spesa pubblica al netto di interessi e spesa pensionistica assistenziale è attualmente divisa in modo quasi paritario (52%-48%) fra Amministrazione Centrale dello Stato e Enti Territoriali (regioni, province comuni). Le percentuali nel 1980 erano invece 61 % Stato Centrale, 39 % Enti Territoriali.
Questo breve excursus (riassunto di un riassunto) ci porta adesso a delle considerazioni. Cosa produce lo Stato italiano ? Essenzialmente è un'azienda che offre servizi di vario tipo, con due grossi centri costo: Pensioni /Assistenza e Beni di Consumo Pubblici, al cui interno la parte del leone la fanno Sanità e Istruzione, con una percentuale significativa (quasi il 10%) l'ordine pubblico. Abbiamo visto come la spesa per Beni di Consumo Pubblico sia costantemente aumentata nel tempo, anche al netto dell'inflazione, e con una dinamica di costi crescenti a confronto di costi decrescenti nel settore dei beni privati. Questo sovra-costo è stato pagato con l'aumento della tassazione e del deficit. Ricordo peraltro che all'interno della categoria “Beni di Consumo Pubblici” il traino è avvenuto sulla spesa sanitaria (invecchiamento della popolazione) a scapito dell'istruzione (non è un paese per giovani), oltre all'esplosione delle spese ambientali. Sulla spesa pensionistica mi accodo al pensiero di Giarda: “la giungla delle pensioni”, con la nota (di Giarda, non mia) che le pensioni del settore pubblico sono mediamente più alte di quelle del settore privato e quelle dei maschi più alte di quelle delle femmine. Ancora è da notare il calo delle spese “in Conto Capitale”, oramai ferme e ridotte praticamente al solo pagamento delle annualità di mutui accesi per finanziare opere già realizzate. Infine lo spostamento dei costi dal Centro alla Periferia ha comportato un forte aumento delle “spese generali”, incluso l'aumento del “costo della politica” con il proliferare di istituzioni e organi pubblici a livello locale.
Le considerazioni finali di questa parte del paper sono le seguenti:
La spesa pubblica è stata quasi sempre, a partire dall’inizio degli anni sessanta, strumento di contrasto alle fluttuazioni nello sviluppo del reddito, sia attraverso i meccanismi incorporati nelle leggi di spesa (gli stabilizzatori automatici), sia per effetto di esplicite decisioni politiche assunte nel durante delle fasi di recessione. C’è qualche evidenza che una parte di queste decisioni, operando su componenti permanenti della spesa, abbia comportato un innalzamento permanente dei livelli di spesa pubblica e quindi dei suoi tassi di crescita di lungo periodo.
Le pagine 35 e 36 le ritengo incomprimibili, le riporto per intero, essendo un Bignami dell'analisi dei costi e degli sprechi in ambito aziendale privato, rapportata al settore pubblico:
Si ipotizzi, in via di esempio, che in un settore di attività pubblica esistano uno o più modi diversi per realizzare il prodotto o l’obiettivo proprio dell’attività finanziata con la spesa.
NELLA PRODUZIONE DI SERVIZI PUBBLICI
Sprechi di Tipo 1. Utilizzo di fattori produttivi in misura eccedente la quantità necessaria. E’ questo il caso quando due impiegati vengono utilizzati per fare un lavoro per il quale uno sarebbe sufficiente, oppure quando una macchina costosa e ad alto potenziale viene sistematicamente sotto-utilizzata.
Sprechi di Tipo 2. Acquisto di fattori produttivi pagando prezzi superiori al prezzo di mercato o all’effettivo valore. A titolo di esempio, si può citare il caso, più volte riscontrato nell’acquisto di farmaci, che diverse aziende sanitarie pagano prezzi diversi per lo stesso prodotto.
Sprechi di Tipo 3. Adozione di tecniche di produzione sbagliate rispetto ai prezzi dei fattori produttivi impiegati e quindi produzione a costi superiori al costo necessario. Nella produzione pubblica c’è una tendenza inarrestabile ad utilizzare, tra le diverse tecniche di produzione disponibili, quelle che si caratterizzano per la più alta intensità di lavoro.
Sprechi di Tipo 4. Utilizzo di modi di produzione antichi, chiaramente più inefficienti (e quindi più costosi) di quelli che si avrebbero utilizzando le tecnologie più avanzate e innovative. Ciò è notoriamente associato all’incapacità delle strutture pubbliche di investire ed innovare nelle tecnologie di produzione utilizzate.
Sprechi di Tipo 5. Utilizzo di modi di produzione che impiegano fattori di produzione incompatibili tra di loro, ad esempio lavoro non specializzato applicato al funzionamento di macchine innovative ed evolute.
NELLE POLITICHE REDISTRIBUTIVE
Sprechi di Tipo 6. Errata identificazione dei soggetti meritevoli di essere sostenuti nei programmi di sostegno del reddito disponibile. In questo caso i modi di produzione (le procedure di selezione o ammissione), si caratterizzano per spreco e inefficienza.
In molti dei tipi di spreco elencati finora, la spesa potrebbe essere ridotta senza causare riduzione dell’offerta di servizi. In altri casi, come il numero 4, l’eliminazione delle inefficienze nella parte corrente, richiederebbe aumenti della spesa in conto capitale per il rinnovo dei mezzi di produzione.
NELLA ESECUZIONE DI INVESTIMENTI PUBBLICI
Sprechi di tipo 7. La progettazione di opere incomplete, il mancato completamento di opere iniziate, i tempi di esecuzione molto superiori ai tempi programmati. A queste tipologie si possono aggiungere la progettazione di opere di dimensione eccessiva rispetto alla capacità realisticamente sfruttabile, a volte eseguite con materiali troppo pregiati (opere utili che potrebbero essere costruite a costi minori).
Tra gli osservatori e gli studiosi che si occupano di organizzazione della amministrazione pubblica e che amerebbero vedere un settore pubblico capace di svolgere i suoi compiti in modo efficiente, c’è un sentimento diffuso sul fatto che la organizzazione sul territorio dell’offerta di servizi pubblici da parte di tutte le istituzioni coinvolte, dagli uffici periferici dello stato, agli enti territoriali, alle strutture quasi pubbliche come le Camere di Commercio, si caratterizzi per una organizzazione industriale o di sistema palesemente datata perché ancora oggi costruita sul modello “provinciale” tipico dello stato Ottocentesco. A ciò si aggiunga l’esistenza di un numero eccessivo di livelli di governo, con riferimento specifico alla questione mai affrontata delle province, di un numero eccessivo di enti locali (l’ultimo tentativo di riordinare l’assetto locale risale a una legge del 1810 nel Regno d’Italia napoleonico), di un numero eccessivo e indistinto di università, di tribunali e così via.
Secondo questa visione, quand’anche ciascuno dei centri di produzione dei diversi settori di attività distribuiti sul territorio nazionale potrebbe essere riorganizzato eliminando sprechi e inefficienze specifiche, resterebbe sempre un’endemica inefficienza di sistema, propria di un sistema industriale vecchio, cresciuto all’interno di barriere protettive, oltre che disorganizzato al proprio interno. Questa visione è propria di studiosi e politici che avevano poste molte speranze, nel 1970, sul ruolo che avrebbero potuto assumere le regioni a statuto ordinario nel riordino dell’offerta pubblica sui territori regionali. Le ragioni per cui, dopo 40 anni, le regioni sono divenute solo un nuovo livello di governo che si è inserito in un vecchio sistema industriale sono molte e non possono essere trattate in questa sede. Con pochi poteri nei confronti dei livelli di governo locale e senza effettiva autonomia finanziaria misurabile solo dall’effettivo comando su fonti di entrata propria, si sono progressivamente assimilate ai ricchi proprietari terrieri dell’Italia agricola, capaci di negoziare astutamente con l’ufficio del catasto (il governo centrale) gli estimi (i fabbisogni finanziari) delle loro proprietà.
A pag. 40 (su un sito del governo!) Giarda si domanda se l'elevata tassazione causata dall'elevato livello di spesa non sia un freno alla crescita economica generale, e quali sono i “costi economici dell'alto prelievo tributario”. Il rapporto non fornisce alcuna indicazione specifica su come abbattere la spesa pubblica, ma solo dei generici indicatori, con cui ci si trastulla da tempo immemorabile (non è un atto di accusa a Piero Giarda, anzi). Oltre che rimarcare il problema della “spesa locale” non associata ad alcuna “tassazione locale”, personalmente noto solo che a fronte di programmi di spesa varati negli anni '70 e rimasti in vita a dispetto delle mutate condizioni economiche lo stesso si può dire di aumenti di imposta o nascita sic et simpliciter di nuove imposte, che, morti i programmi di spesa a cui dovevano far fronte, sono rimaste in vita per “finanziare qualcos'altro”, e le accise sui carburanti ne sono una imperitura memoria, oltre che solo un esempio.
E veniamo alle conclusione, questa volta mie e non di Piero Giarda.
In nessuna azienda privata si lasciano aumentare i costi in maniera così significativa, soprattutto i costi generali. Se allo Stato Italiano è stato possibile fare ciò è perché anche il fronte delle entrate è elastico, attraverso l'aumento dei tributi o mediante il finanziamento in deficit (è il noto problema del soft budget constraint). Adesso che il finanziamento in deficit non è più possibile, perché i mercati ci randellano nelle gengive al primo accenno di disavanzo fuori controllo, il nuovo governo ha agito sulla leva delle entrate, senza fare molto sul lato dei costi (a parte la riforma delle pensioni). Poiché i margini di aumento delle entrate sono ormai ridotti (siamo il paese con un record mondiale di tassazione, primato non proprio entusiasmante), è il momento di fare qualcosa per abbassare i costi in maniera drastica.
Abbiamo visto che Giarda ha individuato due centri di costo: Beni di Consumo Pubblici, in cui gli stipendi dei dipendenti pubblici sono il costo maggiore, oltre che assolutamente slegati da produttività, efficienza e salario privato, e Pensioni/Assistenza. Da imprenditore non sono abituato a ragionare in termini di “pace sociale”, ma di costi da abbattere, perchè semplicemente non te li puoi permettere. Non essendo possibile licenziare grandi masse di dipendenti pubblici le soluzioni sono due: taglio lineare percentuale dei salari di tutti i dipendenti pubblici, a parità di orario (l'hanno fatto gli operai della Germania, quelli che piacciono tanto ai sindacati, quindi non ci dovrebbero essere problemi), a cui io introdurrei due correttivi: taglio totale oltre una certa cifra (6.000 € mensili, ad esempio) e nessun taglio al di sotto di una certa cifra; alternativamente, il taglio potrebbe essere graduale per fasce di reddito, 3 % da 1.000 a 1.200, 5% da 1.200 a 1.500, e così via, fino ad arrivare al 100% oltre 6.000 euro al mese. A nessuno piace farsi ridurre il salario, ma almeno stiamo mantenendo il posto di lavoro (cosa che non sempre accade ai “colleghi” del settore privato). Una misura più draconiana andrebbe presa per i “politici”: per loro il taglio del 100% avviene al di sopra dei 4.000 €/mese, oltre all'eliminazione tout court delle indennità per tutti livelli di Governo al di sotto del Parlamento Italiano.
I calcoli del risparmio non sono facili. Non avendo trovato una tabella riassuntiva per importi gli stipendi dei dipendenti pubblici in Italia, si può fare un ragionamento solo sul dato medio e il rapporto pubblico/privato (qui, in un file .pdf) la fonte dei dati. A fronte di un salario medio privato di € 28.380 abbiamo un salario medio pubblico di € 31.608, riportando i dati del settore pubblico a quello privato avremmo un risparmio di € 3,227,5 per ognuno dei 3.500.000 dipendenti pubblici, pari a circa 12 miliardi, senza considerare che la CGIA di Mestre ha calcolato che se le retribuzioni del settore pubblico fossero cresciute negativamente in termini reali dal 2001 (qui, a lato c'è il differenziale PIL/salari pubblici negli anni), come ha fatto la mitica Germania, il risparmio sarebbe superiore, intorno ai 20 mld di euro. Questo può essere ottenuto senza licenziare nessuno, ma applicando un minimo di decenza comparativa con il settore privato. Anche se teniamo conto del fatto che i dipendenti del settore pubblico possono avere caratteristiche (ad esempio maggiore grado di istruzione o maggiore anzianità) che fanno sì che i loro salari siano più alti di quelli dei dipendenti del settore privato, i risparmi sarebbero comunque consistenti.
Sarebbe opportuno inoltre un intervento sulle pensioni correntemente erogate, con l'obiettivo di portare il loro ammontare a un livello più vicino a quello che si otterebbe applicando il criterio contributivo (ossia il criterio che verrà applicato per determinare le pensioni di chi ora è giovane). Per le pensioni che risultano alte a causa dell'adozione del sistema retributivo o di qualche altro criterio più favorevole di quello contributivo, come accade per i vitalizi dei parlamentari, sarebbe opportuno imporre un tetto massimo per esempio 4.000 euro al mese (Amato e Bertinotti sopravviveranno). Giusto per dare un'idea in Italia, secondo l'Istat, ci sono 719.989 persone che nel 2008 percepivano una pensione di oltre € 3.000/mese, per una spesa complessiva di € 37,5 miliardi. Inutile dire che queste 719.989 persone hanno la fetta più grossa delle pensioni in Italia. Per capire di cosa parliamo se queste 719.989 persone avessero un importo pari a quello della classe che la precede (2.500/2.999 €/mese) avremmo un risparmio di € 16 miliardi annui.
Applicando quindi semplicemente dei criteri di equità pubblico/privato, senza nemmeno scendere nei particolari dei numerosi casi di sperpero di denaro pubblico di cui l'Italia è piena potremmo risparmiare fra i 28 ed i 38 miliardi di euro all'anno, con un semplice decreto, sul tipo di quello con cui si è reintrodotta l'IMU, e almeno alleviare di conseguenza un po' le tasche dei 22 mln di taxpayers italiani, in attesa della “riforma epocale della spending review” di cui parla Giarda nel paper, e che non ho commentato, poiché mi sembrava la classica carota davanti all'asino. Sempre che non sia sbagliato il lato.
Da pag. 4 del rapporto Giarda si ricava quanto segue
I numeri sono le percentuali di Pil di ciascuna categoria.
Inoltre, se interpreto bene i numeri, la spesa pensionistica è passata dal 9,4% del PIL (il 22,7 di 41,4) al 15,5 (il 30,2% di 51,2), indubbiamente a causa del feroce smantellamento dello stato sociale messo in atto dai neoliberisti.
Io quasi quasi farei una proposta alla CGIL: torniamo al 1980. Con la scala mobile e tutto il resto, però anche con lo stesso livello di spesa pubblica in percentuale del PIL, a cominciare da quella pensionistica.
la CGIL della Camusso è di una povertà di idee sconcertante, forse a buttarla lì: torniamo al 1980 sarebbero pure capaci di dirti sì, tanto non capiscono.