La vicenda di Bernardo Caprotti, recentemente scomparso, conferma alcune delle difficoltà strutturali del capitalismo familiare italiano, vale a dire la sua cronica incapacità di evolvere, superando le difficoltà del passaggio generazionale, anche in presenza di storie imprenditoriali di indiscusso successo. Chi sia stato Caprotti e cosa abbia creato con Esselunga è cosa nota: una società capace di generare profitto a livelli molto rari in Italia, in assenza di appoggi politici e, anzi, lottando a viso aperto contro il mondo delle coop e gli sponsor a esse vicini. Non ci interessa parlare però di questo, non rileva se egli avesse realmente ragione nel denunciare l’ostruzionismo di cui era vittima e i favoritismi riservati ai suoi concorrenti, qui ci interessa dare qualche piccola informazione tecnica dal punto di vista legale su quello che è accaduto con i suoi figli e come abbia poi deciso di organizzare la propria successione.
La falsa partenza
Il capitalismo italiano, si sa, è prevalentemente familiare. Sono pochissime le società che sono state capaci di evolvere in public company conservando la propria autonomia, mentre sono numerosissimi gli esempi di imprese che, al momento del declino fisico del loro fondatore o al massimo una generazione dopo, sono sparite dalla scena venendo assorbite in multinazionali o, semplicemente, fallendo. E’ quindi comprensibile che qualsiasi imprenditore si ponga la questione di cosa accadrà dopo di lui. Non tutti i figli hanno interesse a lavorare in ditta o, banalmente, non ne hanno le capacità e, d’altra parte, sono relativamente poche le famiglie imprenditoriali che hanno la lungimiranza di servirsi di manager esterni alla famiglia e di limitarsi a godere degli utili lasciando ad altri il lavoro sul campo.
Vediamo come Caprotti aveva provato a regolare la sua successione. Nel 1996 Caprotti era socio di maggioranza di una holding chiamata Bellefin S.p.A. (oggi è la Supermarkets Italiani S.p.A., che possiede i supermercati Esselunga) e, in previsione di una serie di operazioni societarie, intestava "fiduciariamente" tali azioni ai tre figli Violetta, Giuseppe e Marina. I tre figli quindi attribuivano le medesime azioni a una società fiduciaria, la Unione Fiduciaria S.p.A., alla quale conferivano un mandato ad amministrarle. Contemporaneamente, però, i tre figli conferivano al padre una procura generale a compiere tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione relativi a tali azioni. E la procura era conferita senza obbligo di rendiconto (il che val quanto dire: le azioni sono tue, quindi gestiscile come ti pare).
Sulla base di questa procura, dunque, Bernardo Caprotti "dava istruzioni" alla società fiduciaria, formale intestataria delle azioni (è utile precisare a beneficio del lettore che in materia di titoli azionari la "fiducia" è quella c.d. germanistica, per cui l'intestatario delle azioni è legittimato a esercitare tutti i diritti a esse inerenti, mentre il fiduciante - cioè colui che le ha intestate alla fiduciaria - ne è il titolare sostanziale, anche per il fisco). In pratica, quel che aveva fatto Caprotti, era di “parcheggiare” fiduciariamente le azioni ai figli, ma con la facoltà, in qualsiasi momento, di riprendersele indietro, qualora il loro comportamento non fosse stato da lui ritenuto adeguato. Il che è esattamente ciò che è accaduto.
La guerra
La guerra giudiziaria che ha visto contrapposti Bernardo Caprotti e i suoi figli si è infatti conclusa quest'anno, quando la Corte di cassazione vi ha messo fine con la sentenza 23 febbraio 2016, n. 3481. Nel corso degli anni, infatti, Caprotti non si era ritenuto soddisfatto del comportamento dei due figli di primo letto Giuseppe e Violetta con i quali, come si legge nel testamento, ogni rapporto era naufragato “la sera del 30 luglio 2010”. Cosa sia accaduto di preciso il 30 luglio 2010 non è dato sapere, fatto sta che a febbraio 2011 Caprotti, avvalendosi delle procure conferitegli dai figli, estingue i mandati fiduciari stipulati tra i figli stessi e la Unione Fiduciaria S.p.A. e attiva un nuovo mandato fiduciario, avente a oggetto le stesse azioni, "a beneficio del loro unico ed esclusivo pieno proprietario e fiduciante ultimo Signor Bernardo Caprotti".
I figli Violetta e Giuseppe vengono a conoscenza del fatto e rivendicano la proprietà delle azioni, chiedendone il sequestro giudiziario. Il Tribunale di Milano respinge la richiesta e a questo punto il padre instaura il giudizio arbitrale previsto da una clausola delle scritture del 1996 (quelle relative all'intestazione fiduciaria delle azioni ai figli). Il collegio arbitrale, nel luglio del 2012, accoglie le domande di Bernardo Caprotti, dichiarando che le azioni appartengono a lui. I figli impugnano il lodo arbitrale davanti alla Corte di Appello di Milano, la quale con una sentenza molto sbrigativa (a fronte delle centinaia di pagine scritte dalle difese) respinge l'appello dei figli i quali ricorrono quindi in Cassazione, la quale respinge ancora una volta il ricorso.
Va precisato che l'arbitrato previsto dalla clausola contenuta nelle scritture era un arbitrato di equità, il cui esito è impugnabile solo per violazione di norme e/o principi di ordine pubblico. Ed è ciò che contestano i figli davanti alla Corte di Cassazione, in particolare ritenendo violato il principio di ordine pubblico per cui è inammissibile il trasferimento della proprietà in mancanza di un atto a ciò idoneo. La tesi dei ricorrenti è respinta sulla base di una valutazione complessiva dell'accordo negoziale intercorso tra genitore e figli. Esaminando la vicenda in tutti i suoi elementi, dice la Corte, ci si avvede che sussiste "l’atto idoneo al trasferimento della proprietà delle azioni".
I figli contestano anche la violazione delle norme in materia di prescrizione, ma tale questione non viene nemmeno esaminata dalla Corte, la quale, in conformità ad altri suoi precedenti, ribadisce che le norme sulla prescrizione non sono di ordine pubblico, per cui il lodo arbitrale non può essere contestato sotto questo profilo (i figli sostenevano che il padre avrebbe dovuto richiedere la reintestazione delle azioni al massimo nel 2006, cioè entro dieci anni - le scritture erano del 1996 - mentre lo aveva fatto nel 2011; sul punto gli arbitri avevano affermato che trattandosi di fiducia a tempo indeterminato il termine di prescrizione inizia a decorrere da quando il fiduciante decide che la causa fiduciae che connota il rapporto fiduciario è venuta meno). Altre contestazioni, di carattere più tecnico e su cui non è il grado di soffermarsi, vengono anch'esse respinte dalla Corte.
Bernardo Caprotti, quindi, è definitivamente confermato socio di maggioranza della Supermakets Italiani S.p.A. e della Villata Partecipazioni S.p.A. (sorta a seguito di scissione parziale della prima).
Il testamento e le donazioni
Per capire come Caprotti abbia disegnato la sua successione bisogna innanzi tutto ricordare che, in Italia, in maniera più rigida che in altre nazioni, esiste la c.d. legittima, o quota di riserva, vale a dire la regola in base a cui a moglie e figli, spetta una fetta consistente del patrimonio del de cuius (ossia il morto, ma ai notai piace darsi un tono usando termini latini come agli economisti piace usare termini inglesi), che va dai tre quarti a un mezzo, a seconda del numero dei figli.
Certo nulla vieta di pretermettere un figlio (ossia di non lasciargli nulla) ma questo espone il testamento o l’eventuale donazione a liti future, con conseguenze nefaste sulla circolazione dei beni. Insomma, la sistemazione del patrimonio e il passaggio generazionale sono spesso un gioco di equilibrio tra diverse esigenze, diritti e recriminazioni.
Va poi ricordato che anche la donazione altro non è che un anticipo di successione e pertanto ogni donazione va inquadrata nella più ampia vicenda ereditaria per evitare che, al momento della morte del donante, il patrimonio rimasto non sia sufficiente a soddisfare i diritti degli eredi che nulla hanno ricevuto o che hanno ricevuto meno di quanto spetta loro per legge
Caprotti, dunque, come chiunque altro in Italia, non poteva disporre – per testamento o donazione - puramente, semplicemente e come volesse dei suoi beni, ma doveva tener presente i diritti dei legittimari e, nel suo caso (moglie e tre figli) la quota di patrimonio liberamente trasferibile (c.d. disponibile) era solo di un quarto.
Ad ogni modo, dopo anni di battaglie legali, nell’ottobre del 2014 Caprotti rompe gli indugi e, alla soglia dei novant’anni, fa la sua scelta definitiva decidendo di donare alla (seconda) moglie e alla figlia Marina il 70% del capitale sociale della Supermarkets Italiani (ossia Esselunga) e il 55% della Villata Partecipazioni (ossi la società proprietaria degli immobili Esselunga). Da notare che si è trattato di donazioni fatte congiuntamente. Marina e la madre, infatti, non sono state beneficiarie ciascuna in proprio delle azioni ricevute, ma (lo leggiamo dal testamento) “congiuntamente”, ossia in comunione tra loro, forse in parti uguali, forse in proporzione ai rispettivi diritti di legittima.
Il motivo di questa scelta è presumibilmente solo di natura fiscale. Infatti, anche se pochi lo sanno, l’Italia – a oggi – è una sorta di paradiso fiscale in campo successorio. In particolare, se viene donata (o lasciata in eredità) la partecipazione di controllo di una società, la donazione o il lascito ereditario sono del tutto esclusi da imposta, purché il beneficiario continui l’attività imprenditoriale e, per i cinque anni successivi alla donazione (o alla morte del testatore), non venda quanto ricevuto.
E’ chiaro che se Caprotti avesse donato alla moglie e alla figlia Marina il 35% ciascuna di Esselunga, non sarebbe stata ceduta la partecipazione di controllo, e la donazione sarebbe stata tassata, mentre il fatto che abbia donato loro il 70% del capitale in maniera congiunta, ha reso il trasferimento escluso da ogni imposta.
Il testamento non dice quando sarebbe avvenuta la donazione, quel che è certo è che si tratta di vera e propria donazione, non di intestazione fiduciaria delle azioni. Al momento del decesso, dunque Marina e la mamma sono già titolari delle partecipazioni di controllo in Esselunga e nella società immobiliare. Le stesse, inoltre, sono state anche nominate uniche eredi universali. Ai due figli “litigiosi”, invece, in sostituzione della quota di legittima che spetta loro, è stato riservato “solo” un legato, consistente - per ciascuno - in una quota del 20% di Supermarkets Italiani e del 22,50% di Villata. Contrariamente alle eredi, Violetta e Giuseppe per questo lascito in loro favore pagheranno l’imposta, pari al 4% del valore delle partecipazioni. Considerando che Esselunga viene valutata tra i 4 e i 6 miliardi di euro e che la franchigia (cioè la quota comunque esente da imposta di successione) è pari a 1 milione per ciascun figlio (purché non sia già stata "consumata" per effetto di donazioni fatte in vita), l’imposta da loro dovuta sarà comunque “tanta roba”: un ultimo sberleffo da parte del padre.
Prospettive
Non è certo questa la sede per commentare in dettaglio le disposizioni testamentarie di Bernardo Caprotti, tuttavia balza all'occhio come egli sia stato "costretto" dalle norme dell'ordinamento italiano ad attribuire comunque una quota ai figli con cui è stato in guerra (giudiziaria). E non è escluso (anzi, è molto probabile, gli avvocati sono già al lavoro) che inizi una nuova guerra tra gli eredi. Viene in considerazione, insomma, il tema della libertà testamentaria. Ancora oggi l'Italia rimane un paese in cui la libertà individuale di testare di fatto non esiste, in nome di una solidarietà familiare che molto spesso, nei fatti, è fasulla. E non sono rari i casi in cui i cittadini si sorprendono dell'impossibilità di preferire un figlio rispetto a un altro o dell'impossibilità di sedersi intorno a un tavolo per firmare un accordo finalizzato a sistemare il patrimonio in modo vincolante e soddisfacente per tutti (come è noto i c.d. patti successori in Italia sono vietati).
Molti tentativi sono stati fatti, ma i progetti di legge presentati in Parlamento sono naufragati (se ne era parlato anche qui su NfA). Eppure è da oltre venti anni che la giurisprudenza italiana ha affermato che il divieto dei patti successori non è contrario all'ordine pubblico e che la successione c.d. necessaria non ha copertura costituzionale (quindi potrebbe essere abolita senza timore di violare alcuna norma o principio costituzionali).
Un tentativo è stato fatto nel 2006 con l'introduzione del patto di famiglia, limitato tuttavia ai beni produttivi (aziende e quote di società), rispetto ai quali è possibile anticipare la successione in modo contrattuale, così evitando che le attribuzioni così fatte possano essere messe in discussione al momento della morte, anche se fatte in maniera da non rispettare la “legittima”. Tuttavia, poiché l'Italia è un paese di legulei, che cercano il cavillo in ogni dove, la normativa è di fatto (fidatevi…) naufragata, e di patti di famiglia se ne stipulano pochissimi.
D'altro canto, anche i paesi in cui la libertà testamentaria è un valore importantissimo, come il Regno Unito, essa non è assoluta e il giudice può ordinare attribuzioni a carico dell'eredità in favore di chi si trova in stato di bisogno (i dependants, cioè le persone che vivevano a carico del defunto al momento della sua morte).
Lo stato della giustizia italiana certo non aiuta (visto il grado di fiducia media di cui godono i giudici nel nostro paese, una normativa come quella britannica, che attribuisce loro ampi poteri discrezionali, è impensabile). Occorre anche un importante mutamento culturale dei cittadini. Esaltare la libertà testamentaria e l'autonomia privata, superando il codice civile di matrice ottocentesca sarebbe rivoluzionario.
Non siamo molto ottimisti e quindi chiudiamo con Flaiano: «A causa del cattivo tempo, la Rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi».
la "matrice ottocentesca" del codice civile, pubblicato nel 1942 ed ispirato al superamento del previgente codice civile del 1865 - per molti versi calco del Code civil francese del 1804 - mi lascia perplesso.
L'autonomia privata, a sentire la nostra dottrina, era esaltata al massimo proprio nel vecchio codice, almeno in materia contrattuale: dopo di allora, con l'avvento della società di massa, legislatori e giudici l'hanno vista con sospetto e tuttora ne diffidano, moltiplicando i limiti, a tutela di altri interessi.
Cosa vi fa pensare che sia giunto il momento per un suo risorgimento?
Io credo che la centralità della persona nel nostro ordinamento costituzionale e in quello euronitario sia un valore indiscutibile. La superiorità degli interessi familiari sull'autonomia testamentaria non mi pare tenga in considerazione i recenti sviluppi dell'ordinamento giuridico, ormai da valutare in modo globale. Pensiamo ad es. al regolamento 650/12 sulle successioni transfrontaliere, il quale prevede l'applicabilità alla successione della legge della residenza abituale e non più quella della cittadinanza. Tale criterio può condurre (anzi sicuramente conduce) a far cadere il limite della tutela dei legittimari presente nel precedente art. 46 della l. 218/95. Che la tutela dei legittimari non sia principio di ordine pubblico è stato ancora una volta ribadito da Cass. 14891/14. A me pare, ma non sono il solo, che oggi quella dei legittimari sia una sorta di rendita da posizione familiare, che viene sempre e comunque anteposta alle scelte del testatore. Anche in paesi vicini al nostro, come la Francia, ora si può rinunziare in vita alla legittima mentre in Germania la legittima è un mero diritto di credito (§§ 2303 ss., BGB). Ben conosciamo inoltre come la provenienza di un bene per donazione ne impedisca di fatto la circolazione. Insomma, mi sembra sia venuto il momento di considerare preminente l'interesse alla libera autodeterminazione della persona