Qualche giorno fa il parlamento indonesiano ha approvato una nuova legge sulla pornografia, la Undang-undang Pornografi (Uu App), che vieta categoricamente tutti gli atti e le immagini pornografiche così come tutte le performances pubbliche che possano generare "sexual desire" (agli occhi di chi? Dobbiamo considerare l'indonesiano munito di dotazione testosteronica media o vietare più semplicemente tutte le performances che ingenererebbero "sexual desire" in almeno un indonesiano/a?...).
Ora, ciò che davvero spaventa della nuova normativa è l'assoluta genericità della definizione di pornografia che lascia adito ad interpretazioni molto estese e quasi omnicomprensive. Secondo il legislatore indonesiano infatti per pornografia va inteso (cito dall'International Herald Tribune):
"[any] man-made sexual materials in the form of drawings, sketches, illustrations, photographs, text, voice, sound, moving pictures, animation, cartoons, poetry, conversations and gestures."
Si vieta cioè tutto: da ee cummings a John Mayer, dalle battutine di BS ad, appunto, il bikini in spiaggia. Per non parlare delle violazioni più gravi: se dal bikini si passa al topless allora si rischiano fino a 10 anni di carcere e 500.000$ di multa per "display of nudity in public", e se invece di leggere ee cummings ci si dedica alla ricerca di calendari in rete allora gli anni in gattabuia diventano 4.
La legge inoltre permette esplicitamente ai privati cittadini di farsi carico del rispetto della normativa e rischia cosìdi dare copertura alle azioni violente dei gruppi moralizzatori di matrice islamica come Islamic Defenders' Front.
Tempi duri per la minoranza Hinduista concentrata a Bali le cui tradizionali cerimonie religiose potrebbero essere messe al bando dopo l'approvazione della nuova legge. Ed è proprio questo il rischio più serio, la Uu App introduce di fatto nella legislazione indonesiana alcuni elementi della sharia e rischia di essere soltanto l'inizio di un processo di progressiva talebanizzazione.
Il tutto avviene in un paese che fino a qualche anno fa veniva unanimemente considerato come un esempio di tolleranza e convivenza fra distinte religioni.
Questi eventi richiamano alla mente le recenti tribolazioni della Malesia, che proprio per quanto riguarda il bando di bikini ed affini ha fatto scuola.
In Malesia la sharia è imposta soltanto alla popolazione musulmana (circa il 60%). Ma negli ultimi anni è diventato via via più difficile abbracciare altre religioni: i giudici civili tendono infatti a lasciare alle corti islamiche il potere di concedere o meno all'interessato la possibilità di lasciare l'Islam, e la giurisprudenza in materia è estremamente severa. Il principio dominante resta "Once a Muslim, always a Muslim" ed il cambio di religione viene concesso solo in rarissimi casi, come ci insegna la storia di Lina Joy.
La situazione è ulteriormente peggiorata negli ultimi mesi. Dopo l'ottimo risultato del fronte islamico del Parti Islam se Malaysia (PAS) alle ultime elezioni politiche infatti, si sta facendo strada l'idea di applicare la sharia anche ai non-musulmani.
Analoghe tentazioni, infine, cominciano a prender piede anche in Tailandia. C'è dunque il rischio di una progressiva talebanizzazione del Sud-est asiatico ed è lecito domandarsi fino a che punto i paesi occidentali intendano ignorare questo preoccupante trend legislativo.
Al preoccupante quadro tracciato nell'articolo aggiungerei quello che sta succedendo in Egitto dove, tra le altre cose, è stata addiritura vietata la donazione di organi e la trasfusione di sangue tra persone di diversa religione.
Credo anch'io che l'occidente dovrebbe muoversi per impedire questa "talebanizzazione", esportando cultura, non bombardando.
Purtroppo noi ci muoviamo tra mille problemi etici, anche legittimi ("Chi siamo noi per dire che la nostra cultura è la migliore ?" e via questionando) mentre l'oscurantismo è molto più pragmatico.
Almeno gli oscurantisti non fossero sessuofobici.