Andiamo per gradi (amenità alla fine).
1) Assumiamo, anzitutto, che di un contributo si tratti. Ossia, di una teoria che aiuta a spiegare un fenomeno (intra-industry trade) che era prima inspiegabile con le teorie esistenti. Come Saltwater stesso mette in evidenza, tutto ciò che serve per dare questo contributo consiste in una funzione di utilità che catturi l'idea che alla gente piacciono un gran numero di beni di consumo diversi e che esista una forma di competizione monopolistica fra produttori di beni. Egli attribuisce la prima a Dixit e Stiglitz mentre la seconda, credo siamo tutti d'accordo, risale a Ed Chamberlain e Joan Robinson. Nessuno di questi, che io sappia, ha ricevuto il Nobel (JS sì, ma per ben altri motivi). Noto che la funzione di utilità del tipo DS non è nient'altro una delle tante funzioni di utilità che risultano convenienti per studiare modelli di competizione monopolistica, forse la più semplice di tutti. A quello deve la sua fama, ossia alla semplicità d'uso, ed a nient'altro perché sia EC che JR avevano ben spiegato come funziona la competizione monopolistica mentre altri si sono dedicati a studiarne tecnicamente gli equilibri. Insomma, da questo argomento concludo che almeno JR avrebbe dovuto ricevere il premio Nobel (morì nel 1983, avrebbero fatto in tempo). PK l'ha ricevuto per aver applicato la sua teoria al commercio internazionale? Possibile. Se c'è un contributo, è questo.
2) È davvero un contributo? Mi rendo conto di andare contro una verità che tutti insegnano in (quasi) tutti i dipartimenti e che viene oramai data per scontata, quindi come al solito mi prenderò del pazzo. Però io sono andato a grad school a U of Rochester e commercio internazionale me l'hanno insegnato Ronald Jones e (un po') Lionel McKenzie. Quello che ora dico non è farina del mio sacco, ma cose che m'hanno insegnato in classe tra il 1984 ed il 1986. Beh, forse c'è anche qualcosa di mio, ma pochino.
Il modello ricardiano - di cui Heckscher-Ohlin è una variante che, usando certe ipotesi particolari sulle funzioni di produzione, cerca di fare predictions che partono dalla dotazione di fattori di un paese per arrivare al tipo di beni che il paese importa o esporta - dice che un paese esporta quei beni che ha un vantaggio comparato a produrre ed importa quelli in cui tale vantaggio comparato non ha, ma ce l'ha un altro paese. Non dice nulla sulle industrie, parla solo di beni, ma su questo torno più sotto. Gli esempi di Ricardo (e di tanti altri) esempi sono, che servono per far capire l'intuizione dietro all'idea di vantaggi comparati. Per capire le implicazioni della teoria occorre andare oltre gli esempi didattici semplificati ed usare un modello, formale abbastanza da catturare tutte le implicazioni dell'ipotesi di fondo. Il modello standard di equilibrio economico generale (EEG) serve a questo
Dal punto di vista della teoria dell'EEG con molti agenti, la teoria del commercio internazionale basata sui vantaggi comparati (chiamiamola OldTT) si riduce all'affermazione che ognuno di noi si dedica all'attività (o alle attività) in cui ha un vantaggio comparato e compra tutto il resto dagli altri. Così, a me, l'hanno insegnata Lionel e Ron (la prima prova di esistenza di equilibrio prodotta da Lionel nel 1954 in contemporanea a quella di Arrow e Debreu usa, infatti, il modello di commercio internazionale di Graham) e mi è sempre sembrata molto sensata. Il modello in questione assume che
- Esistono vari agenti, eterogenei in preferenze, dotazioni, capacità produttive.
- Esistono molti beni (Lionel lavora con un numero finito, ma l'estensione ad un continuo è oggi banale) ed i consumatori hanno differenti preferenze per questo o quell'altro gruppo di beni.
- Esistono molte, potenzialmente un numero infinito di, tecniche di produzione che usano alcuni di questi beni come inputs per ottenerne altri, o se stessi, come output. Queste tecniche sono "attività", nel senso di "activity analysis", quindi i rendimenti di scala sono costanti.
- I mercati sono competitivi, nel senso che per ogni bene esiste un numero alto di produttori che lo possono produrre. "Possono" qui è importante, non serve che in equilibrio lo producano: alcuni beni saranno prodotti da vari agenti, altri solo da qualcuno o da uno. Ciò che conta è che vi sia la possibilità di free entry, quindi i prezzi siano competitivi. Ricordarsi che, in un modello statico, ci saranno sempre dei fattori fissi (che non sono i costi fissi, sono i fixed factors tradotti in italiano) e che, quindi, il cono aggregato di produzione sarà sempre un cono troncato lungo certe dimensioni. Questo vale, in ogni punto del tempo, anche in un modello dinamico, ma in quel caso la lunghezza del cono cambia in varie direzioni a seconda del processo di accumulazione o distruzione dei fattori accumulabili.
Mi sembra banale che una teoria di questo tipo spieghi perfettamente l'intra-industry trade. Infatti, io mi sono specializzato da circa 25 anni nell'industria della ricerca e dell'insegnamento, nondimeno in questi anni la mia famiglia ha importato i servizi di questa industria da un altro paese. Prima mia moglie, dalla Anderson School of Management di UCLA, poi mio figlio dal Liceo Italiano Enrico Fermi di Madrid e poi dalla School of Theatre Films and Television di UCLA (UCLA è una malattia di famiglia, ci ho lavorato anche io!). In quegli stessi anni io vendevo il mio output, prodotto nella stessa industria e spesso nello stesso paese, a centinaia di altre persone. Classico caso di intra-industry trade. Questo esempio, a mio avviso, dovrebbe bastare ad intendere il punto generale, ma per evitare ambiguità mi dilungo un po' ancora.
L'estensione al caso di una paese con tanta gente e tanti beni è banale, perché nella teoria dell'EEG competitivo un paese altro non è che una collezione di agenti, ognuno dei quali ha accesso a un insieme di attività produttive. L'unione delle attività produttive a cui gli agenti che definiscono un paese hanno accesso è la tecnologia di quel paese: basta prendere una massa N di agenti e dividerli in M paesi di massa N1 + N2 + ... + NM = N, ed il gioco è fatto. Un'industria, a sua volta, è una collezione di beni: in teoria perfettamente sostituti tra loro, nella pratica statistica non necessariamente tali a meno che non si vada ad un livello di disaggregazione davvero notevole e rarissimamente raggiunto. Basta prendere un'aggregazione statistica di beni "simili" (x1, x2, ..., xI) e definire un'industria X per capire che, in generale, può esserci intraindustry trade: basta che l'agente n che produce il bene x7 nel paese m lo venda all'agente n' che sta nel paese m', mentre l'agente nn che sta pure nel paese m ed ama il bene x19 lo importa dall'agente n' che sta, appunto, nel paese m'. Se i due beni sono classificati nella medesima industria, c'è intra-industry trade fra il paese m ed il paese m'.
Nota che in questo modello vi è preferenza per varieties, come viene chiamato ora l'antico fatto che i consumatori hanno preferenze convesse e ci sono tanti beni a disposizione. Non vi è concorrenza monopolistica, né vi sono rendimenti crescenti di scala. Regna sovrana la teoria dei vantaggi comparati la quale infatti SPIEGA perché vi sia intraindustry trade: nel paese m ai consumatori piacciono alcuni beni dell'industria X per i quali, però, gli abitanti del paese m hanno scarsi vantaggi comparati (esempio: agli italiani piacciono le macchine veloci ed il prosciutto buono). Ne producono alcuni, ma non molti - magari perché c'è un fattore fisso che è scarso (la conoscenza necessaria per fare il jamon iberico de bellota de pata negra) o magari perché sono bravi a fare alcuni X solo alcuni dei cittadini di m (tipo quelli che fanno le Ferrari a Modena) il che li rende molto costosi, ma molti altri cittadini non sono così bravi e quindi alcuni dei beni dell'industria X non sono prodotti nel paese m - mentre nel paese m' producono molti beni classificati nell'industria X, ed i consumatori di quel paese hanno preferenze non dissimili da quelle dei cittadini del primo paese. Ecco quindi che vengono importati dal paese m' (nel quale vi è un'abbondanza di fattori di produzione capaci di produrre molti dei beni classificati in X) al paese m alcuni beni in X, mentre altri (ma pochi pochi) vengono esportati da m ad m' (le Ferrari che vanno in Germania son meno delle Porsche che vengono da noi, idem per Fiat versus BMW e Mercedes). Et voilà, intra-industry trade anche in teoria oltre che nell'esperienza pratica della famiglia Boldrin.
L'errore, sì ho scritto errore, in ciò che si insegna in classe è dovuto al fatto che troppa gente fa confusione fra l'ipotesi formale (assumiamo che vi siano B beni prodotti in B industrie) e la definizione statistica di "industria". Quest'ultima industria non c'entra nulla, in generale, con la prima: nella definizione statistica, come sanno tutti quelli che hanno usato tavole input-output, si procede per affinità fra beni e gradi più o meno evidenti di sostituibilità. Nella definizione teorica un'industria è definita da un insieme di beni che sono sostituti perfetti: se uno vuole usare HO o modelli ricardiani per capire i dati, deve accettare di farlo al livello di disaggregazione adeguato, quello che la teoria presuppone. Se raccogli tutti i prodotti della terra in "prodotti agricoli" è chiaro che i vantaggi comparati non funzionano mai: in Almeria fanno le fragole e nella Rioja fanno il vino, esse commerciano fra di loro perché sia in Rioja che in Almeria alla gente piacciono sia le fragole che il vino! Cosa c'entra tutto questo con la concorrenza monopolistica (vi sono centinaia di produttori di vino in Rioja e di fragole in Almeria, sostituibili tra di loro) ed i rendimenti crescenti di scala (che proprio non ci sono, tanto che son tutte piccole imprese che funzionano molto efficientemente da decenni)? Nulla, ovviamente.
Se prendi i dati e scendi disaggregando l'ammontare di commercio internazionale interno ad una data industria comincia a diminuire, ovviamente, anche se forse non sparisce mai o quasi. Laddove la sostituibilità perfetta esiste (ad esempio, energia elettrica) i casi di intraindustry trade sono rari e tipicamente dovuti ad accordi commerciali particolari fra imprese, o ad integrazione verticale: l'Italia importa energia elettrica dalla Francia, ma non ne esporta quasi, viceversa per il formaggio da grattare sulla pasta. Potremmo continuare, mettendoci dentro cose del tipo costi di trasporto eccetera, ed inserendo la dinamica che induce un processo di accumulazione. Noteremmo, allora, che il modello di EEG con accumulazione di fattori di produzione e commercio internazionale spiega perché, 40 anni fa, tutte le macchine tedesche vendute negli USA (o giapponesi) fossero prodotte in Germania (o in Giappone) mentre ora vengono prodotte in buona percentuale negli Stati Uniti.
Questo aiuta anche a capire perché, da sempre, gli economisti spieghino a tutti che non vi è concorrenza fra nazioni ma fra imprese, perché i vantaggi comparati sono propri solo di individui, ed imprese al più. Lo sono di paesi solo in senso statistico e temporale: quando i fattori di produzione che sanno produrre X sono nel paese m quel paese ha il vantaggio comparato in X, se si muovono il vantaggio comparato passa a dove essi si siano mossi. Se si muovono solo in parte (caso di BMW o Toyota) il vantaggio comparato è di due paesi (non è sempre necessario avere un massimo assoluto, a volte ce ne sono tanti messi in fila). La teoria economica non ha una "nazione" come entità elementare, ma solo individui e, in presenza di fattori fissi, imprese. Questo, io credo, è chiaro da tempo, infatti da ben prima di David Ricardo: invito a leggere, per dare un'idea, il Libro IV della Ricchezza delle Nazioni.
Il punto, comunque, è teorico: dal punto di vista della teoria non c'è proprio bisogno di concorrenza monopolistica e, soprattutto, rendimenti crescenti di scala per spiegare il fenomeno statistico dell'intra-indsutry trade.Quindi il contributo non può essere quello affermato.
3) Dov'è il contributo? Provo a dire la mia. Il contributo è del tutto teorico e consiste nell'aver elaborato (o cominciato ad elaborare, assieme a molti altri) l'applicazione del modello di concorrenza monopolistica con rendimenti crescenti di scala alla teoria del commercio internazionale. Operazione legittima ed interessante, almeno a priori. È legittimo chiedersi: che predizioni posso fare se assumo che il mondo sia dominato dalla concorrenza monopolistica e la produzione avvenga sotto rendimenti crescenti? Paul Krugman si è fatto questa domanda, ed ha dato vari contributi teorici. Se la sono fatta, ed hanno pure dato contributi utili, anche Elhanan Helpman, Gene Grossman e, dimenticato da tutti ma uno dei primi infatti, Wilfred Ethier. Davvero il contributo teorico di PK è così speciale da giustificare il premio solo a lui e niente agli altri? Non so dire, ma non mi sembra. PK ha fatto anche altre cose utili ed interessanti (e.g. i lavori sulla dinamica del tasso di cambio, che erano molto innovativi per il periodo in cui li ha prodotti) ed altre molto meno interessanti (tipo la cd new geography, che mi sembra veramente aria fritta che non dice nulla di nuovo neanche teoricamente ... ma questo comincerebbe un'altra discussione che non credo d'aver voglia d'intraprendere per almeno una settimana, quindi bombardatemi pure tranquilli!). Idem per le gravity equations, ma qui diventerei polemico: davvero pensi, o anonimo uomo degli oceani, che siano una idea così profonda da giustificare un Nobel (tralasciando il fatto, che tu stesso riconosci, che certo non son farina del sacco di PK)?
4) Saltwaters versus Freshwaters? No, assolutamente. In questo caso proprio non c'entra nulla l'antica diatriba pro o contro JMK. Il modello di concorrenza monopolistica gode di grandi ammiratori a, per esempio, Chicago mentre basta fare un saltino all'ultimo piano dell'edificio di Cowles Commission a Yale per trovare persone che forse capiscono perché i fatti che NTT spiega li spiegava anche, e meglio, la OTT basata sul modello di EEG competitivo. La differenza mi sembra più attribuibile ad altre cose, prima fra le quali un certo disdegno per (e mancanza di comprensione della) teoria dell'EEG competitivo ed un particolare interesse per modelli aggregati di commercio internazionale.
5) Vale la pena mantenere il premio per l'economia? Alla luce delle continue diatribe che sorgono quasi ogni anno (l'anno scorso fu rara eccezione) e delle proposte demenziali che girano (come quella di uno che non mi ricordo come si chiami che, su Il Foglio di alcuni giorni fa, suggeriva di darlo a Greenspan perché lui sì che ha capito come funziona l'economia, altro che questi cretini con le equazioni che ne criticavano e criticano l'operato salvifico!), direi di NO! È servito, forse, per premiare i padri fondatori di alcune linee di ricerca. Oramai siamo alla lotta fra nani, alle lobbies, alle cordate ed alla pressione mediatico-politica. Siamo già ridotti malino come professione, non serve aggiungere altri incentivi di rimpicciolimento intellettuale. Fondamentalmente perché concordo sempre di più con quanto sostiene l'ottimo Adriano Palma [nice to see you are alive!], in un meditato commento. L'economia è una scienza storica che ha avuto la fortuna di riuscire ad elaborare schemi concettuali di riferimento ed analisi che si possono manipolare formalmente e sostanziare, a volte, statisticamente ma che sono, quasi invariabilmente, non testabili e, eccezion fatta per cretinate secondarie, non falsificabili. È già molto meglio della sociologia, ma smettiamola di far finta che possa assomigliare alla fisica: l'oggetto di studio è troppo complicato per poter anche solo sperarci.
Grazie, Michele, veramente molto istruttivo.
Vorrei capire se c'è una grinza o se sono io che intendo/applico male le definizioni.
Mi pare che mentre fai accomodare la concorrenza monopolistica fuori dalla porta,
la fai rientrare dalla finestra [mio grassetto]:
Il dubbio (rinforzato dall'uso delle virgolette) è che se definiamo un'industria come beni simili, quindi differenziati ma con un grado relativamente elevato di sostituibilità, stiamo di fatto parlando di concorrenza monopolistica all'interno dell'industria. Ok, c'è free-entry nella produzione di ogni bene i, ma è come ridefinire la concorrenza monopolistica ad un più alto livello di aggregazione (ed è qui forse che sto applicando male le definizioni), cioé tra gruppi di produttori concorrenziali di un bene all'interno di un'industria: questi hanno collettivamente potere di mercato all'interno di quell'industria. Infatti se non ci fosse differenziazione -- produciamo tutti Trabant anziché Fiat, BMW, etc. -- non ci sarebbe intraindustry trade, trivialmente.
Naturalmente questo non è un argomento in favore della "novità", semmai in favore di competitive analysis perché in questo senso concorrenza perfetta e imperfetta non sono in antitesi.
Perfettamente giusto, Giulio. Il problema, ma è tardi ed è meglio che vada a dormire, è A CHE LIVELLO DEFINIAMO COMPETITION? Pensa a un mondo con due beni in funzione di utilità, due industrie competitive che producono un bene ognuna. U(x,y) e x=F(K1, L1), y=g(K2,L2). I due beni x ed y sono sostituti imperfetti, ovviamente altrimenti potremmo scrivere u(x+y) per il consumatore (o magari sono complementari: fa lo stesso). Ora, le imprese che operano con F sono monopolistically competitive di quelle che operano con G, e viceversa, o no?
Di solito diciamo di no, perché? Diciamo di no perché ci basta pensare che ci sia competizione fra coloro che producono x, fra di loro, e fra coloro che producono y, fra di loro. As long as there is free entry in each "industry" (virgolette obbligatorie: industry nel senso teorico, non statistico) diciamo che questo è un modello concorrenziale, giusto?
Ecco, quello è il problema: estendi il modello a centomila beni e centomila F(i), i=1, ...., 100000, e ti ritrovi con il modello di concorrenza ... perfetta o monopolistica? Lascio a te decidere.
C'è un'altra maniera di pensare al problema, che viene da Lionel McKenzie ed io ho sempre trovato convincente: ci sono SEMPRE dei fattori fissi, in ogni industria. I fattori fissi creano monopolio per definizione o, semplicemente, determinano rendite competitive? Continuando su questa linea di pensiero si può mostrare come, in un mondo alla Ostroy-Makowski, si possa determinare monopolio in equilibrio partendo da un modello in cui c'è concorrenza perfetta: basta che esista una (o più) attività produttive che producono "licenze monopolistiche" a rendimenti costanti, e che vi sia un fattore fisso che si usa in quella attività. Allora, partendo da un mondo in cui tutti sono inizialmente piccoli competitori, si arriva ad un equilibrio in cui tutti, o molti, sono monopolisti perché ognuno ha la "licenza propria" che usa nella sua funzione di produzione ...
Ok, notte. Temo di aver fatto più confusione di quanto avrei voluto!
Risposta sotto a commento di Giulio.