Non escludo che GT (noto ai lettori di questo blog come il "commercialista da Sondrio")abbia profferito tal saggezza per caso. Brani d'economia dell'orrore come i seguenti lo suggeriscono.
È finita in Europa l'"età dell’oro". È finita la fiaba del progresso economico continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la “cornucopia” del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro. I prezzi – il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari – invece di scendere, salgono. [...] Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni. [...] Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare peggio chi stava già peggio. Sta meglio solo chi stava già meglio. E non è solo questione di soldi. Perché la garantita sicurezza del benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale.
Se non siete pasciuti consiglio “Politica”, è uno spasso. Il mio obiettivo, però, è di argomentare che GT ha ragione sulla questione del libero commercio con l’Asia - e torto su tutto il resto, ma questo lasciamolo per la terza puntata di Horror Economics.
Mi dichiaro dunque (lo sono da tempo: mi convinse Ed Leamer 18 anni fa) a favore di un moderato e transeunte neo-protezionismo.
Sul piano economico la "globalizzazione liberista" è, in via di principio, una cosa vantaggiosa per tutti. Lavoro e capitale sono liberi di muoversi laddove le “condizioni ambientali” (i “fixed factors”, come li chiama Ron Jones) sono più favorevoli all’attività produttiva che intendono svolgere, minimizzando il costo di qual che sia il bene/servizio (bene, d’ora in poi) ch’essi intendono produrre. Poiché i beni si commerciano liberamente e sono prodotti ai costi minimi, essi andranno ai consumatori che meglio li valutano, massimizzando quindi il benessere sociale. Detto altrimenti: a globalizzazione funzionante ognuno produce nel posto giusto ed a costi minimi il bene che sa produrre relativamente meglio di qualsiasi altro, ed i consumatori consumano quello che vogliono pagandolo al minor prezzo. Il giardino dell’eden (con la minuscola), insomma.
La globalizzazione liberista è dovuta ad una sequenza d’innovazioni. Rinfreschiamoci la memoria: le riforme economiche avviate in vari paesi asiatici ed est-europei dagli anni ’80 in poi; la creazione del WTO e l’adesione al medesimo di paesi precedentemente chiusi al commercio internazionale, India e Cina soprattutto, ma anche Messico, Brasile, Russia ...; lo sviluppo del sistema di comunicazioni digitali via internet; un incessante progresso nel settore dei trasporti aerei e navali; innovazioni finanziarie che hanno portato alla creazione di “banche” planetarie e che permettono di muovere capitali su scala mondiale a costi di transazione infinitesimi. Sia chiaro: contrariamente a quanto i teorici dell’orrore economico vogliono farci credere, tutte queste sono ottime e benefiche innovazioni.Però, c’è un però.
Quest'insieme di innovazioni ha avuto le seguenti conseguenze. Più di tre miliardi di persone (chiamiamoli "A") ha cominciato a produrre, consumare e vendere beni secondo metodi e criteri che prima erano l'appannaggio di un numero più ristretto di persone, i circa 700 milioni che sino a fine degli anni '80 vivevano in Nord America, Europa dell'ovest e Giappone (chiamiamoli B). Il costo opportunità del lavoro offerto da (una frazione molto grande di) questi 3 miliardi di persone è enormemente basso; anche la loro produttività è bassa, ma non altrettanto perché in molti dei paesi in cui A vive esistevano sistemi educativi di massa ragionevolmente efficienti, oltre che tradizioni millenarie di frugalità, dedizione al lavoro, senso del commercio e della libera iniziativa. Grazie alle altre innovazioni descritte sopra è oggi relativamente semplice - lo è da un decennio e lo sarà ancor più fra un altro - trasferire la produzione di un'enorme quantità di beni di medio-alta qualità in questi paesi, ed agevolmente finanziare l'investimento che questo comporta. In pratica, solo i beni tecnologicamente più avanzati (gran parte della ricerca scientifica, l'educazione superiore, le attività finanziario-assicurative sofisticate, la ricerca e sviluppo legate ai settori informatico, farmaceutico, bio-ingeneristico, avionico-spaziale, dei trasporti, la parte progettuale del sistema moda e disegno, e poche altre cose) rimangono un chiaro vantaggio comparato di quei 700 milioni (che ora sono 850) che vivono nelle zone del mondo in cui sino agli anni '80 il sistema di libero mercato era confinato. Per un numero sempre più alto di beni il vantaggio comparato di produrli sta passando ai tre miliardi di nuovi arrivati, mentre i vantaggi comparati degli 850 milioni di B si stanno riducendo.
Nessun problema, dice la teoria economica "acquisita": il fatto che molti di quelli che erano i vantaggi comparati di B siano ora passati ad A è un bene, non un male. Gli stessi beni, o un numero maggiori di beni, vengono ora prodotti a costi più bassi. Poiché questi beni vengono liberamente commerciati essi arriveranno anche nei negozi di B ad un prezzo inferiore all'anteriore. Giustissimo, dico io, questo ragionamento non fa una grinza, ed infatti è vero che un numero enorme di beni di medio-alta qualità sono ora a disposizone in quantità maggiori che 20 anni fa, e ad un prezzo più basso. Il problema è, aggiungo, che una fetta sempre più ampia degli 850 milioni di B sembra incapace di comprarseli perché non sa produrre nulla di nuovo e ciò che produce deve venderlo a prezzi che implicano un valore aggiunto molto basso.
Impossibile o al più temporaneo, dice di nuovo la teoria economica "acquisita", e ti spiega il perché. L'innovazione rende A più produttivo e questo mette in difficoltà B. Questo dura per poco: se B si sforza, stimolato dalla concorrenza, diventa tanto produttivo quanto A ed il mercato per il bene che ora producono entrambi cresce perché il costo di produzione cala rapidamente. Mal che vada il capitale e lavoro di B si separano, vanno ognuno per la propria strada, cercano qualcos'altro da fare e diventano così bravi a farlo che rende loro un reddito uguale o maggiore (perché i prezzi dei beni son scesi) di quello anteriore all'arrivo di A; anche in questo caso sia A che B stanno meglio di prima. Insomma, al più ci sono dei temporanei costi di aggiustamento ma, una volta superato lo shock iniziale tutto funziona per il meglio.
In effetti, se uno guarda l'esperienza storica dal 1948 in poi risulta difficile dare torto alla teoria economica "acquisita". Dopo la seconda guerra mondiale sei paesi europei sono entrati nella CEE, hanno cominciato a commerciare uno con l'altro e le cose sono andate come la teoria economica "acquisita" predice: qualche costo di aggiustamento, ma dopo pochi anni tutto meglio. La CEE ha cominciato a commerciare sempre più liberamente con gli USA - lentamente, a dire il vero, e molto "un pelino alla volta": sessant'anni dopo i "cieli" tra USA ed Europa stanno finalmente aprendosi ... - e ad aggiungere un paese europeo dietro all'altro, sino a diventare la EU27, e tutto ha funzionato come la teoria economica "acquisita" suggerisce, anche se c'è stato qualche costo d'aggiustamento extra e qualche sussidio o compenso qua e là si son spesi. Gli USA han fatto lo stesso: han liberalizzato il loro commercio con vari paesi asiatici, il Giappone in particolare, ed anche in questo caso tutto ha funzionato meravigliosamente. Beh, insomma, qualche problema c'è stato: un presidente Bush ci è rimasto così male che ha vomitato in pubblico per cercare di attenuare i costi di aggiustamento, ma da almeno quindici anni possiamo dire che tutto è sotto controllo. Idem per NAFTA, anche se son altri quindici anni che la stiamo "implementando" e non abbiamo ancora finito di farlo (chiedere, per esempio, ai camionisti ed ai produttori d'arance, limoni e barbabietole da zucchero ...). Insomma, è andata più o meno come la teoria economica "acquisita" predice per sessant'anni, perché dovrebbe cambiare ora?
Perché? Perché 100/300 (NAFTA) =1/3; perché 70/210=1/3 o 50/300=1/6 o 75/375=1/5 (vari allargamenti EU); perché 300/450=2/3 (USA ed EU, più o meno), e via elencando. Ed invece 3000/750=4, e quest'ultimo rapporto (un po' a spanne per ottenere un numero intero) descrive l'arrivo di A nel mondo di B a partire dal 1990! Gli ordini di grandezza contano, eccome che contano, nei processi di aggiustamento. Quattro è DODICI volte più grande di un terzo e VENTIQUATTRO volte più grande di un sesto: e se NAFTA (che pure stiamo ancora "implementando") ha creato il casino che ha creato negli USA, chiediamoci cosa il Big Bang dell'arrivo di A nel mondo di B possa creare e stia creando.
Quando le cose hanno un ordine di grandezza dieci o venti volte più grande, il processo di transizione descritto tre paragrafi prima può andare diversamente. In particolare, può (dopo che il lavoro ed il capitale di B si son separati) continuare così. Il capitale di B scopre che vi sono in A lavoratori produttivi abbastanza da fare un prodotto che compete con quello che i lavoratori in B prima facevano, ma costosi un decimo dei medesimi. Nel frattempo, i lavoratori di B cercano di trovare delle cose da fare in cui siano di nuovo i primi del mondo, ma scoprono di non riuscire a trovarle. Sarà perché hanno tra i 40 ed i 50 anni, sarà perché hanno fatto solo la scuola media inferiore in un paese in cui t'insegnano il latino e Leopardi ma non come funziona un sistema operativo, sarà perché trasferirsi a 300 km di distanza è una specie di salto nel buio in un paese dove l'intero sistema è costruito per impedire la mobilità territoriale, sarà perche in giro per il paese di chimici e biologi buoni che mettano su una farmaceutica d'avanguardia e magari t'assumano come autista di camion, o addetto al riscaldamento, o factotum in laboratorio, non ce ne sono poi molti anzi quasi nessuno perché tutti fanno gli avvocati, i notai ed i commercialisti oppure emigrano, sarà perché Malpensa invece d'essere un aeroporto è una vergogna per cui i grandi congressi internazionali li fanno altrove e la tua idea di fare il catering con il Mario e l'Elisa non sembra funzionare, o sarà perché in giro per Napoli ci sono le spazzature da dieci anni e quindi i turisti milionari han rinunciato di venirci, sarà come sarà ma tu il nuovo vantaggio comparato non lo trovi proprio. Per cui t'accontenti di cercare di produrre ancora le cose che producevi prima accettando lo stesso stipendio reale di dieci o quindici anni fa perché, ripete ogni mattina il principale prima di mettersi a lavorare al tornio di precisione, "ea concorensa dei cinesi me copa, porca mastea".
Cose del genere, ovviamente, accadono in tutte le transizioni. E la teoria economica "acquisita" suggerisce che da un lato si possono attenuare con appropriati "trasferimenti" e che, dall'altro, sono quantitativamente piccole rispetto ai guadagni globali. Questo è perfettamente logico, ma a volte lo è solamente. I trasferimenti, questa volta, non ci sono stati. C'erano stati, e fin troppo, sia con la CEE che con i suoi progressivi allargamenti; ci son stati con NAFTA e ci son stati in Italia ed in Europa quando sono arrivati giapponesi e coreani (la "riconversione industriale" degli anni '70 e primi anni '80) ma questa volta non ci son stati per nulla. Che sia anche perché continuiamo a farli, i trasferimenti, alle persone sbagliate, tipo gli agricoltori che stiamo proteggendo da una transizione finita da due decenni? Sia quel che sia, i trasferimenti compensativi della teoria "acquisita" nessuno li ha visti, ed A è venti volte (cento volte, se si controlla per i differenziali nel costo del lavoro) maggiore di prima. Per questo sono cavoli amarissimi, e per questo il maledetto momento in cui si comincia tutti a guadagnarci dalla globalizzazione liberista sembra non arrivare mai!
La teoria economica "acquisita" ama gli stati stazionari ed i mondi senza "frizioni". Personalmente - sia quando penso alla politica che alla ricerca - io preferisco studiare le dinamiche di transizione nei mondi con le "frizioni". Le "frizioni", in economia, NON sono quelle cose che ti fa il barbiere sui capelli dopo lo shampoo e che ti piacciono tanto, né quel pedale che schiacci per cambiar marcia. Sono cose del tipo: spostare 5000 lavoratori dalla produzione di maglioni alla produzione di computers richiede anni di riqualificazione professionale, mobilità territoriale ed investimenti in nuovi impianti; oppure: spostare 500 artigiani che producono mobili all'attività di scrittura di software per videogiochi richiede un tempo ... infinito, perché è impossibile farlo. Le frizioni, detto in due parole, sono il mondo reale che la teoria economica "acquisita" tende a scordarsi. E qui chiarisco perché continuo a mettere "acquisita" fra virgolette: perché c'è abbondante ricerca economica d'ottima qualità che le transizioni e le frizioni non le considera perdite di tempo poco eleganti ma aspetti rilevanti del mondo in cui viviamo, aspetti da tenere in considerazione quando si cerca di valutare una politica o l'altra. Che non goda della simpatia dell'establishment, non ci piove. Che venga frequentemente scordata quando si ricorre alla "teoria economica acquisita" per dibattere un avversario politico, anche su questo non ci piove. Ma è buona economia, e non ho ancora trovato qualcuno capace di dimostrarmi convincentemente che, quando si studiano le riforme, i costi di transizione non dovremmo inserirli nel calcolo del benessere sociale.
Se così facciamo e veniamo all'Italia (in particolare, ma anche all'Europa ed in misura minore agli USA) scopriamo che la scelta tutta politica di lasciare che la Cina (e l'India e svariati altri) entrassero con un big bang nel WTO, non è stata particolarmente illuminata e va probabilmente rivista. Per la banalissima ragione detta sopra, nel caso dell'Europa e degli USA: la grandezza dell'impatto rende enormi i tempi ed i costi di aggiustamento, lasciando decine di milioni di lavoratori incapaci di aggiustare i propri vantaggi comparati in tempo utile (utile dal loro punto di vista, ossia prima di morire). Per un paio di addizionali e drammatiche ragioni (ma sempre banalissime per i lettori di questo blog) nel caso italiano. Perché in Italia i soggetti economici esposti all'impatto della globalizzazione liberista NON sono i quasi quattro milioni di dipendenti pubblici, né la grande maggioranza dei più di sei milioni di lavoratori autonomi e professionisti, né i circa tre milioni (qui vado a naso, i conti esatti non ho avuto tempo a farli) di lavoratori dipendenti molto protetti dei settori dei grandi servizi (telefonia, trasporti, elettricità, acqua, gas, banche ed assicurazioni, ...), né (ma questi sono qualche centinaio di migliaia al più) i molto sussidiati coltivatori diretti, né i quasi tre milioni che operano nel turismo e nelle costruzioni (moltissimi dei quali sono poi immigranti da A). No, quelli che devono fare i conti con A sono i 7-10 milioni di lavoratori dell'industria e dei servizi commerciabili (e non protetti) privati. Quelli che sono esposti da sempre alla concorrenza internazionale, quelli che pagano le tasse per quasi tutti, quelli che cinquant'anni fa hanno fatto il miracolo economico e che poi, miracoletto dopo l'altro, han tenuto in piedi il paese, quelli che dovrebbero innovare ma non ci riescono per le tante ragioni che anche su nFA abbiamo documentato e che non sto a ripetere. Insomma, esposta al big bang è la classe operaia, che suda che soffre e lavora assieme ai managers, i tecnici industriali, ed i piccoli imprenditori. Questa, signore e signori, è B: quella parte del paese che la Casta va massacrando da decenni.
La colonna portante dell'economia italiana è stata esposta ad uno shock competitivo cento volte maggiore dei precedenti proprio negli anni in cui il carico fiscale su di essa saliva, la qualità dei servizi pubblici scendeva, la scuola e l'università pubblica si disfacevano e la capacità del sistema Italia di offrire supporto a processi di riconversione, adattamento ed innovazione veniva brutalmente meno. In questa situazione estremamente sfavorevole - e di cui B è in parte responsabile perché, alla fine, l'orrenda Casta che da decenni massacra il paese anche B ha collaborato ad eleggerla - la capacità di ristrutturarsi, d'innovare e di pagare quei costi d'aggiustamento che possano generare nuovi e migliori vantaggi comparati, tale capacità viene meno. In tale situazione risulta quindi non solo immorale, ma anche poco utile e controproducente, spiegare che nello stato stazionario staremo tutti meglio e che occorre aumentare e non ridurre il grado di liberalizzazione e concorrenzialità a cui B è esposta. In primo luogo perché o ben il grado di liberalizzazione e concorrenzialità dell'economia si comincia ad aumentarlo per davvero ed in modo brutale, riducendo drasticamente il carico fiscale che B sopporta, licenziando un milioncino di dipendenti pubblici e facendo lavorare i rimanenti, eliminando i privilegi dei sei milioni di autonomi e professionisti (ed un paio di milioni di essi così facendo), imponendo che il Sud si mantenga, eccetera, eccetera, oppure è meglio smetterla di far praticare la moralità concorrenziale solo ad una minoranza della popolazione, e sempre la stessa perdippiù. In secondo luogo perché, come le tensioni continuamente crescenti sia negli altri paesi europei che negli USA confermano, anche laddove il sistema pubblico è altra cosa, la Casta è solo classe politica e le categorie protette sono meno e meno protette, anche in quei paesi il processo di aggiustamento allo "stato stazionario" della globalizzazione liberista predetto dalla teoria economica "acquisita" sembra molto, ma molto duro da sopportare per svariate decine di milioni di persone.
Perché, poi, nella realtà allo stato stazionario non si arriva mai: siamo sempre in transizione e le innovazioni sono troppo frequenti per permettere il raggiungimento d'una situazione stabile. La politica dovrebbe governare i processi e le transizioni, non aspettare gli stati stazionari, che sono poi altamente instabili. Non solo: nella realtà le scelte politiche le dovremmo fare per massimizzare l'utilità di quelli che esistono hic et nunc, non di quelli che verranno. Ricordatevi San Michele aveva un gallo: quando li portano alla prigione attraversando in barca la laguna, Manieri spiega che "non noi, ma i figli dei figli dei nostri figli vedranno la luce del socialismo ...". Ecco, non vorrei che per difendere l'idea della globalizzazione a scapito della realtà dei processi di transizione non ci traformassimo in ideologhi socialisti del XIX secolo. L'ideologia, di qualunque colore sia, non la trovo affatto interessante.
Caro Michele, benvenuto (o bentornato, o benrimasto-ma-non-avevi-mai-dato-l'-impressione-di-esserci) nel mondo gradualista di di Ferdinando Galiani. Son lieto di apprendere che anche gli economisti Euclidei conoscono... Ginevra (cfr. http://socserv2.socsci.mcmaster.ca/~econ/ugcm/3ll3/galiani/bleds.htm , Second dialogue).
Il punto metodologico è: qual è il confine entro il quale tener conto dei costi di transizione? Perché, ad esempio e fatte le debite proporzioni, non dovrebbero essere parimenti considerati anche nel caso microeconomico di tutte quelle famiglie a cui porteranno via la casa perché per molti anni degli pseudo-notaio-fai-da-te, frutto immediato di una liberalizzazione avventata di quellaspecifica professione, sbaglieranno a registrare il relativo atto di compravendita?
P.s.: Solo una piccola obiezione: finché nelle scuole italiane si insegneranno latino e Leopardi continueremo ad avere un (piccolo) vantaggio comparato (o credi forse che i nostri stilisti e designer non siano figli della nostra cultura classica?). Quando insegnaranno (solo) ad usare un sistema operativo, saremo alla pari dei cinesi... e quindi del tutto rovinati!
Il tuo post scriptum però secondo me è consolatorio e poco aderente alla realtà (D&G hanno una formazione classica? Magistretti, Ponti o Castiglioni hanno beneficiato così tanto del latino e di Leopardi?)