Recensione di "Contro le tasse" di Oscar Giannino

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Ho ricevuto dall'amico Nanni B. alcuni commenti su Contro le tasse. Perché abbattere le imposte si può, si deve, e non è affatto 'di destra', di Oscar Giannino, che riporto, espando e commento.

L'amico Nanni B. ha studiato a Milano e a Londra. Oggi è ordinario in Italia. Fa parte a tutti gli effetti di quella "Scuola di Milano" cui ha, qualche tempo fa, fatto riferimento Mario Monti in una intervista a Dario Di Vico sul Corriere. L'amico Nanni è uomo di sinistra ma con idee più liberali della stragrande maggioranza della classe politica e intellettuale di sinistra in Italia. Ed infatti non ha snobbato ideologicamente il pamphlet di Oscar Giannino, direttore di Libero Mercato, testata giornalistica di stampo liberista in vendita assieme al quotidiano Libero di Vittorio Feltri.

Nanni però non è stato per niente impressionato dal libro di Giannino; tantomeno è rimasto convinto dalla tesi principale del libro, e cioè  che abbassare le tasse sia cosa di sinistra, nel senso che sarebbero soprattutto i "non-ricchi" ad avere vantaggi economici da una drastica  riduzione delle imposte (come i nostri lettori sanno, una tesi simile è stata formulata con un certo successo anche da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi nella loro ultima fatica editoriale). Vediamo perché.

Sostiene Nanni B.

Il libro di Giannino argomenta in favore di una drammatica riduzione dell'imposizione in Italia - diciamo dell'ordine di 1/3 almeno. L'argomento è in parte etico - di tipico stampo liberista classico: imposizione ridotta  implica libertà di  intrapresa e libertà di intrapresa fa il paio con altre libertà individuali fondamentali. L'argomento etico è solido, lo conosciamo, ma piuttosto astratto. Il cuore del problema  è economico: L'economia del paese sarebbe avvantaggiata da una drammatica riduzione delle tasse? Quali sarebbero i vantaggi, più precisamente? Quali i costi? Chi paga i costi e chi ottiene i vantaggi? La risposta di Giannino è essenzialmente che:  i) i vantaggi verranno da maggiore crescita, maggiore produttività del lavoro, maggiori salari,   ii) che i costi in termini di ridotto gettito fiscale non sussisterebbero, perché riducendo le tasse sia il capitale che il lavoro sarebbero più intensamente impiegati (la riduzione dell'aliquota sarebbe più che compensata dal maggiore imponibile e quindi il gettito fiscale aumenterebbe), iii) che i maggiori vantaggi andrebbero al lavoro, e in particolare che i contribuenti più ricchi finirebbero che contribuire una quota maggiore del gettito. 

E ancora:

Le argomentazioni in favore di una drammatica riduzione dell'imposizione in Italia addotte da Giannino sono quelle classiche da  teoria dell'offerta. Ancora di più: sono quelle estreme da teoria dell'offerta, supportate da una interpretazione letterale dell'idea della curva di Laffer. Ancora di più: da dove il supporto teorico alla tesi che i maggiori vantaggi della riduzione delle imposte andrebbero ai lavoratori?

Se  l'evidenza empirica a favore della teoria dell'offerta è solida,

certo non lo è l'evidenza a favore della curva di Laffer (ai livelli

di tassazione in Italia oggi) o degli effetti re-distributivi (a favore

dei lavoratori) delle riduzioni delle tasse. Insomma, i fondamenti

empirici dell'analisi sono estremamente sdrucciolevoli, discutibili e

infatti ampiamente discussi dalla letteratura economica.

Nanni sostiene anche che il libro parla poco di spesa pubblica:

Ma in quel poco sono contenute tesi incoerenti con l'analisi del libro stesso. Si sostiene ad esempio che la riduzione delle tasse auspicata nel libro avrebbe anche il positivo effetto di "starve the beast", cioè di affamare la bestia, cioè  lo stato, costrindolo a spendere meno e possibilmente a ridurre le spese inefficienti.  Ma se davvero accettiamo la curva di Laffer, come ci chiede Giannino, allora una riduzione delle tasse produce più gettito, e quindi andrebbe ad ingrassare la bestia, invece che non ad affamarla. 

Non si può cambiare schema teorico ed empirico di riferimento ad ogni capitolo del libro, conclude impietosamente Nanni B.

Il libro contiene una certa quantità di imprecisioni di per se forse non molto rilevanti ma che denotano una certa "leggerezza" nella lettura delle fonti e una certa "agilità" nel massaggiarle e presentarle come supporto all'argomento base del libro. Due per tutte: i) il libro Barriers to Riches è citato come scritto da Ed Prescott mentre è invece coautorato da Stephen Parente; ii) E. Prescott non ha vinto il Nobel per l'articolo sugli effetti dell'imposizione fiscale in Europa sull'offerta di lavoro, come detto ripetutamente nel libro, ma invece per i suoi vari contributi con Finn Kydland su teoria dei cicli economici reali e sulla teoria dell'inconsistenza temporale della politica economica. 

Infine, secondo Nanni B.

I capitoli sull'evasione  sono davvero irritanti. Prima di tutto si riduce il problema a problema etico, cercando di presentare le richieste di lotta all'evasione come forme di quasi di vendetta e la posizione dei lavoratori autonomi evasori come giustificata (ancora, eticamente) dall'eccessiva imposizione. Il problema economico è invece ridotto all'argomentazione che un eventuale successo nella lotta all'evasione indurrebbe molti lavoratori autonomi evasori al fallimento e quindi porterebbe immensi danni alla struttura industriale del paese. 

Non sostiene esplicitamente Nanni B., ma  lo pensa, oh se lo pensa

La parte propositiva del libro di Oscar Giannino è essenzialmente schiacciata sul Patto con gli Italiani di Berlusconi - cioe' flat tax con due aliquote 22% e 33% - rispettivamente sotto e sopra i 100.000 Euro. Ma il Patto è stata operazione mediatica-populista da voltastomaco, almeno nella forma e in larga parte nei contenuti; non mi va proprio giù che se ne continui a parlare.

Sono completamente d'accordo con l'amico Nanni B. Ogni punto della sua recensione è corretto, a mio parere - ma si, anche quello che l'operazione mediatica del Patto con gli Italiani è stata così poco digeribile che è difficile affrontare in modo razionale ogni riferimento al Patto.  

Ma Oscar Giannino ha ragione nel suo argomento di fondo: le tasse in Italia vanno abbattute. Ed ha anche ragione a sostenere che 1/3 è probabilmente la dimensione giusta dell'abbattimento - non argomenterò questa affermazione che richiede un bel po' di conti; conti della serva magari, ma conti che farò in altra occasione.

Ed è per questo che leggere il libro di  Giannino mi ha riempito di scoramento: gli errori e le "leggerezze" argomentative saranno usate dai migliori commentatori (come l'amico Nanni B.) per non prendere la tesi del libro sul serio. Ma non saranno usate solo dai migliori: anche i peggiori trarranno vantaggio delle mille "leggerezze" per distruggere l'argomento di fondo del libro, che invece merita ben altro trattamento.

Spiace, perché non siamo in molti a pensare che le tasse vadano abbassate in questo paese. Varrebbe la pena provare ad esporre argomentazioni solide (teoricamente ed empiricamente) per provare a convincere gli osservatori intellettualmente più aperti, come  Nanni B., che tagliare le tasse conviene, tralasciando invece le posizioni ideologiche che fanno appello agli intestini già predisposti.

Proverò a impostare allora una serie di argomentazioni a favore di una drastica riduzione delle tasse in Italia (adesso, ora, senza se e senza ma). Imposto solamente, perché non ho tempo di scrivere un libro; ma chissà, se i lettori aiutassero .... io la butto lì.

Prima di tutto, la teoria dell'offerta che Giannino menziona ripetutamente, è teoria teoricamente solidissima. Da una riduzione delle tasse, al margine, per lavoratori ed imprese, ci si aspetta maggiore attività economica: maggior offerta di lavoro, maggior produzione. Ad esempio, io insegno in Italia quasi ogni anno un breve corso  perché, nonostante non sia cosi' ben pagato, è tassato (per me, non residente in Italia) molto favorevolmente. Non ci penserei nemmeno a farlo se fossi tassato come un italiano. La stessa logica riguarda l'attività di impresa: è ragionevole pensare che una parte consistente delle partite IVA aperte in Italia non lo sarebbe stata senza aspettative di tasse inferiori a quelle previste dalla legge finanziaria del 2007.  Quest'ultima, ricordo, ha aumentato di ben 4 punti percentuali la tassazione dei redditi superiori ai 70mila euro. Insomma l'effetto esiste. Gli economisti teorici dicono che esiste anche un effetto reddito, ossia che quanti più soldi fai meno lavori, ma l'evidenza sia macro che micro sembra suggerire che l'effetto reddito è dominato da quello che noi chiamiamo l'effetto sostituzione: più guadagni per ora lavorata, più ore lavori.

Quanto grande è questo effetto sostituzione? Quanto più prodotto interno lordo ci aspettiamo a causa di una diminuzione delle tasse? Ci aspettiamo effetti di crescita o solo di livello? Non lo so, nessuno lo sa davvero. Le stime dell'elasticità hanno una varianza enorme ed io non sono sufficientemente esperto per poter scegliere a ragion veduta una stima sull'altra, ma spero proprio che i lettori mi aiuteranno a farlo. Ma so che l'effetto della riduzione delle tasse sul prodotto interno lordo dipende da molti fattori addizionali: è maggiore qualora, 1), alla riduzione delle tasse siano associate contemporanee misure di seria liberalizzazione e qualora, 2), la riduzione delle tasse sia credibilmente persistente nel medio-lungo periodo. Quest'ultimo meccanismo richiede spiegazione: in genere si tende a pensare che un effetto sostituzione temporaneo sia molto forte: tasse basse solo oggi, lavoriamo molto oggi. Ma nella realtà vale il contrario: tasse basse solo oggi, non vale la pena far riemergere il sommerso; solo se la riduzione impositiva è credibilmente stabile vale la pena riemergere, perché quando si riemerge è per sempre. Emergere un anno ed andare sott'acqua l'anno dopo è cosa complicata e costosa, Spagna docet. Credo anche che l'effetto della riduzione delle tasse sul prodotto interno lordo sarebbe minore in Italia di quanto non sia stato osservato altrove perché in Italia al margine le attività produttive pagano tasse  bassissime (a causa dell'evasione, ma anche a causa del meccanismo degli studi di  settore: una volta raggiunti e dichiarati x Euro di fatturato come da studio di settore, il resto del fatturato è tutto esentasse, cioé con aliquota marginale uguale a 0). È anche importante notare che nel lungo periodo il vincolo di dimensione e governance indotto dalla fiscalità sulle imprese italiane (che restano piccole e familiari per sottrarsi a contabilità e fisco) tenderà a ridursi e a generare possibilmente un sostanziale effetto sul prodotto interno lordo, ma per questo effetto ci vorrà tempo.

Qual è, poi, l'effetto di una riduzione delle tasse sul gettito? Può essere positiva? Cos'è 'sta  Curva di Laffer che la destra (Giannino in testa) cita per argomentare che il gettito fiscale cresce ad una riduzione dell'aliquota e la sinistra deride come una idea così ovviamente assurda? Cominciamo dalla curva di Laffer. Una rappresentazione onesta dell'argomento della curva di Laffer è che, ad aliquota sufficientemente alta, il gettito fiscale cresce a fronte di una riduzione dell'aliquota. Espresso così (onestamente) l'argomento è ovviamento corretto: se l'aliquota IRPEF fosse il 100% nessuno lavorerebbe, il reddito prodotto sarebbe zero, e così il gettito fiscale. Quindi un abbassamento dell'aliquota sotto il 100% indurrebbe qualcuno a lavorare, producendo reddito e gettito. La destra e la sinistra, per motivi opposti ma disonesti da entrambe le parti, dimenticano l'ipotesi, ad aliquota sufficientemente alta, e quindi l'argomento diventa, a seconda di chi lo dice o di chi lo ascolta, un truismo quasi-religioso o una baggianata colossale. 

La risposta alla domanda seria - Qual è l'effetto di una riduzione delle tasse sul gettito? - è questione empirica, che dipende dalla risposta alle domande precedenti (effetto sul PIL). Ma non c'è alcuna evidenza che faccia nemmeno sperare che la curva di Laffer operi nel breve e nel medio periodo, e che operi al livello di tassazione oggi esistente in Italia. A fortiori, l'argomento vale se consideriamo la peculiarità italiana del reddito evaso ad aliquota marginale 0. Certo, nel lungo periodo, se la riduzione delle tasse avesse effetti sui tassi di crescita - non solo di livello: ossia, un salto in alto e basta - allora sarebbe tutto un altro discorso. Guardiamo al gettito del Regno Unito dopo Thatcher. Non fatico a immaginare che l'effetto di crescita indotto dalle politiche liberiste della Thatcher - ricordate che col trucco dell'economia nera Craxi poteva argomentare che il reddito italiano fosse superiore a quello inglese? Provate a controllare i dati odierni: l'Italia fa pena! - abbia aumentato il gettito fiscale, anche notevolmente. Ma non si possono dimenticare due cose: Maggie non ha solo tagliato le tasse, ha anche brutalmente liberalizzato e ci son voluti tempo e fatica per vedere l'effetto. La riduzione d'imposta non produsse nessun effetto immediato sul gettito o sul PIL, e le liberalizzazioni crearono file di disoccupati per la strada, ossia pietre che piovono, per dirla in italiota. Non ho dubbi che ne valga la pena, ma i costi restano e sono sostanziali. Raccontare che l'anno dopo il taglio fiscale, e solo il taglio fiscale, il gettito migliora è raccontare balle: non è mai successo da nessuna parte. Se esiste un'eccezione, son felice di scoprirla.

E quindi bisognerà ridurre la spesa pubblica per finanziare la riduzione delle tasse, non basta la fatina della destra, che autofinanzia la riduzione delle tasse, se anche viene non viene subito, la fatina. E qui viene il bello! La spesa pubblica in Italia è alta (50% del reddito); ma è alta anche in Francia e in Svezia (dove peraltro è in notevole riduzione). Il punto è che in Italia la spesa è buttata. Qualcuno è mai stato in Francia o in Svezia? L'inefficienza relativa della spesa italiana è pazzesca al confronto: si pensi alle poste, alla sanità, alla scuola, alle pensioni di invalidità, ai trasferimenti al Sud, ad Alitalia, ai costi della politica ... devo continuare? Bisogna, dunque, chiedersi in quali circostanze la riduzione delle tasse induca una drammatica riduzione della spesa pubblica, in tutte le sue forme; ora, senza se e senza ma. Ci guadagneremo immensamente  in termini di efficienza. Qui sta, secondo me, una delle ragioni fondamentali per cui in Italia le tasse vanno ridotte, per indurre una riduzione della spesa. Se con la riduzione delle tasse si guadagnano 100 Euro per capita, e si riduce la spesa per il sistema scolastico ed il sistema sanitario di 100 Euro, quel pezzo di scuola e di ospedale perso lo potremo comprare a 60 Euro. Sono numeri rozzi, tirati fuori dal cappello. Vale la pena provare a trovarli i numeri veri e precisi. Ma questo è il mio punto: invece di andare a cercare interpretazioni disoneste della curva di Laffer, sarebbe più utile che qualcuno onestamente ci desse una idea quantitativa di quanto inefficiente è il sistema scolastico e sanitario italiano (sul sistema sanitario ci sono in giro aneddoti poco seri, á la Sicko; che la destra produca numeri per ribattere, non ideologia dell'offerta). 


Avevo lasciato "in preparazione"  questo post, scritto mesi fa, perche' mi pareva avessimo parlato fin troppo di fiscalita' su nFA. Ma oggi ho visto le dichiarazioni di Padoa Schioppa, come riportate in prima pagina dai giornali di governo:

Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire

tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza,

ambiente e salute

e non ho resistito alla provocazione. Cosa può portare quest'uomo a dire una tale follia? Calvinismo pauperista e socialismo degli altri, tanto lui viaggia in auto blu? Mi sembra di sentirli i signori de "le tasse sono bellissime"! Ma siamo certi che meno tasse a finanziare la spesa pubblica sia buona politica economica e cosa giusta? E se gli italiani spendessero i risparmi delle tasse in giochini elettronici prodotti in Cina con copyright americano? E se la teoria dell'offerta fosse una bidonata e a fronte di una riduzione delle tasse non ci fosse un aumento del reddito prodotto significativo ma solo maggiori consumi e per giunta in importazioni? Beh, dico io. E se anche fosse? Meglio così, ci divertiremmo coi giochini invece di buttare soldi a mare. Ci avremmo pur sempre guadagnato. 

L'aspetto redistributivo di un sistema fiscale che vessa i redditi da lavoro dipendente, come fa l'IRPEF italiana, e' disgustoso. Ha effetto economici ed etici enormi, oltre che scandalosi; ora che ci penso, mesi dopo, tutti discussi da Giannino nel suo pamphlet primaverile! L'IRPEF frega i lavoratori produttivi, e solo loro. L'aumento dell'imposta marginale sui redditi "alti", decisa l'anno scorso, è solo persecutoria di chi svolge lavori altamente qualificati. Non solo, l'IRPEF rapace genera plateali e vaste distorsioni nella scelta delle professioni: com'è che l'Italia è piena di avvocati e non ha ingegneri o biologi? Certo, forse sarà che da Gentile in poi i professori a scuola insegnano che chi è intelligente sa di latino (e non di matematica). Ma il fatto che gli ingegneri, i biologi ed i chimici lavorino per grosse imprese e siano quindi tassati sino alla fame, mentre gli avvocati sono lavoratori indipendenti, come lo sono i droghieri, e possano allegramente fatturare quanto vogliono ... beh, io penso che anche questo fatto avrà il suo bell'effetto. E poi, poiché l'industria è al Nord, gli effetti redistributivi del sistema fiscale, che trasferisce brutalmente dal Nord al Sud, sono enormi anche sul piano territoriale, come ha documentato Alberto Lusiani su NFA. Eticamente, a me par ovvio, se non si può tassare il droghiere al 60% come l'impiegato, che si tassino l'impiegato e il droghiere al 30%. Se non si può tassare la Sicilia al 60% come la Lombardia, che si tassino la Sicilia e la Lombardia al 30%. E se, così facendo, si dovesse intaccare la parte viva della spesa pubblica (ad esempio, se si dovesse far pagare le tasse universitarie agli studenti universitari), ebbene intacchiamola! Almeno faremo pagare a tutti le tasse universitarie, e le imposte sul reddito, in modo equo. L'equità del sistema fiscale è fondamentale. In Italia il sistema fiscale è immensamente iniquo: ci sono i tassati/vessati, e ci sono gli esenti per definizione. E ci sono quelli per cui le tasse sono una partita di giro: si chiamano dipendenti pubblici e sono 3 milioni e mezzo.

Voglio finire suggerendo altri costi, difficilmente quantificabili ma secondo me non meno reali e sostanziali di quelli economici discussi sino ad ora. Lo farò in modo un po' retorico come si addice alla questione, di per sé speculativa: Quanti danni ha fatto, in termini di tratti culturali distorti come il familismo amorale e la mancanza di senso dello stato, un sistema fiscale rapace che perpetua immense ingiustizie del tipo di quelle oggi in vigore in Italia? "Tasse bellissime"? Signor TPS, ma lei si rende conto di quel che dice?

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Commenti

Ci sono 43 commenti

Cari amici del "nFA team" innanzitutto grazie di esistere perché con i vostri interventi di natura economica contribuite ad innalzare la cultura economica degli italiani e ad offrire degli spunti di riflessione a chi in parte ne ha già una abbastanza solida. Caro Alberto Bisin ho sentito parlare del libro di Giannino ma non l'ho mai letto. Comunque ho sempre letto i suoi articoli sulla stampa. E nel leggerli mi è capitato a volte di fare elle considerazioni simili a quelle che tu hai fatto nel pezzo e che condivido. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni. La prima cosa che andrebbe cambiata in italia è la legge finanziaria, figlia del compromesso storico, che lascia la politica di bilancio nelle mani del parlamento. Entra in parlamento con una certa coerenza e ne esce stravolta. Assomiglia ad un albero di natale dove tutti appendono dei desideri di spesa che puntualmente vengono esauditi. Tasse certe vanno a finanziare anche le spese più diverse. Come dici giustamente anche tu prima bisognerebbe partire dalla riduzione e riqualificazione della spesa e poi passare alla riduzione delle tasse. E non fare il contrario. Negli Usa con Reagan a partire dal 1980, se non ricordo male, vennero ridotte le tasse ma non si riuscì a ridurre le spese dello stesso ammontare e si creò di conseguenza un disavanzo di bilancio che venne finanziato dal resto del mondo. Ma questo è potuto avvenire solo negli USA. Ora vorrei un chiarimento sulla curva di Laffer. Tu dici che non ha radici solide rispetto all'economia dell'offerta che ne ha e sono d'accordo con te. In proposito ricordo uno scritto del Matematico Martin Gardner pubblicato su "Science" nel 1981 o 1982 in cui si diceva che la curva era stata disegnata su un tovagliolo di carta in un ristorante di Washington da un certo Jude Wanniski. E poi nel medesimo articolo si metteva in discussione la forma della curva, parlando di tecnogroviglio (ovvero di nuvole di punti). Insomma non era detto che avesse la forma di una campana e che ci fosse una relazione inversa tra aliquote ed introiti fiscali. Che ne pensi di questo articolo di Gardner? In ultimo vorrei sapere se sei d'accordo sull'introduzione di tasse di scopo che potrebbero forse rendere più belle le tasse ai cittadini sapendo questi ultimi a cosa sono destinate. Un caro saluto 

Marco Boleo 

 

Cari amici,

grazie per questo spazio. Io non sono un economista ma sono per formazione un politologo e mi occupo di politiche socialie di mercato del lavoro. Ho letto il libro di Giannino e da una parte mi ha affascitato dall'altra mi ha lasciato qualche perplessità. Perplessità che con i vostri contributi, e quelli di qualche amico economista che mi ha segnalato il vostro sitio, ho iniziato a fugare. Il problema di fondo, però, è quello sottolineato da Giannino: le tasse sono troppo alte. Come sapete non è solo una valutazione di politica fiscale ma innaziitutto le tasse riguardano la nostra visione della persona e dei rapporti sociali. Un maggior reddito disponibile lascia la persona libera di scegliere, anche se questo non significa immediato efficentismo, e la libertà di scleta la rende (si spera) responsabile. Uno dei problemi del marcato del lavoro sono le tasse sugli stipendi: da una parter all'impresa il lavoratore costa motlo (tavolta troppo) dall'altra il lavorotare non ha un reddito sufficiente per sè e la propria famiglia. Questo ha poi portato a storture gravi, un utilizzo improprio e fraudulonto delle riforme del mercato del lavoro viste solo come strumento per abbattere i costi e non come un modo nuovo di intendere i rapporti di lavoro: con le conseguenti ricadute sulle imprese stesse. è sicuramente utopico pensare ad un abbattimento delle aliquote nel nostro paese ma almeno invertire la rotto e pensare ai contribuenti come cittadini e non già come sudditi da spremere sarebbe un bel passo avanti

 

Sarebbe piu' utile che qualcuno onestamente ci desse una idea

quantitativa di quanto inefficiente e' il sistema scolastico e

sanitario italiano (sul sistema sanitario ci sono in giro aneddoti poco

seri, a' la Sicko; che la destra produca numeri per ribattere, non

ideologia dell'offerta).

Sul sistema scolastico c'è poco da dire, visto che è come sparare sulla Croce Rossa, quello sanitario, invece, mi sembra tutt'altro che inefficiente

 

Spulciando sul sito della World Health Organization -

 

si scopre che la spesa sanitaria italiana non è affatto a livelli stratosferici, ma anzi inferiori o comparabili con quella di altri paesi a cui hai fatto riferimento (Francia, Svezia e UK) con efficienza complessiva pari o superiore. L'efficienza, in un sistema sanitario, è data da alcuni indicatori oggettivi, quali l'aspettativa di vita, il tasso di mortalità infantile, la mortilità al parto, ecc. e tutti questi elementi indicano che il nostro sistema nazionale funziona, tra l'altro a costi inferiori rispetto alla "concorrenza".

 

Comunque qui sotto riporto le tabelle con gli indicatori di spesa.

 

  Italy
Indicator Value (year)
Total expenditure on health as percentage of gross domestic product ?8.7 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?75.1 (2004)
Private expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?24.9 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total government expenditure ?13.7 (2004)
External resources for health as percentage of total expenditure on health ?0.0 (2004)
Social security expenditure on health as percentage of general government expenditure on health ?0.1 (2004)
Out-of-pocket expenditure as percentage of private expenditure on health ?84.40 (2004)
Private prepaid plans as percentage of private expenditure on health ?3.6 (2004)
Per capita total expenditure on health at average exchange rate (US$) ?2579.6 (2004)
Per capita total expenditure on health at international dollar rate ?2414.4 (2004)
Per capita government expenditure on health at average exchange rate (US$) ?1936.4 (2004)
Per capita government expenditure on health at international dollar rate ?1812.4 (2004)

 

United Kingdom
Indicator Value (year)
Total expenditure on health as percentage of gross domestic product ?8.1 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?86.3 (2004)
Private expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?13.7 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total government expenditure ?15.9 (2004)
External resources for health as percentage of total expenditure on health ?0.0 (2004)
Social security expenditure on health as percentage of general government expenditure on health ?0.0 (2004)
Out-of-pocket expenditure as percentage of private expenditure on health ?91.80 (2004)
Private prepaid plans as percentage of private expenditure on health ?8.2 (2004)
Per capita total expenditure on health at average exchange rate (US$) ?2899.7 (2004)
Per capita total expenditure on health at international dollar rate ?2559.9 (2004)
Per capita government expenditure on health at average exchange rate (US$) ?2501.8 (2004)
Per capita government expenditure on health at international dollar rate ?2208.6 (2004)

Sweden
Indicator Value (year)
Total expenditure on health as percentage of gross domestic product ?9.1 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?84.9 (2004)
Private expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?15.1 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total government expenditure ?13.6 (2004)
External resources for health as percentage of total expenditure on health ?0.0 (2004)
Social security expenditure on health as percentage of general government expenditure on health ?0.0 (2004)
Out-of-pocket expenditure as percentage of private expenditure on health ?92.00 (2004)
Private prepaid plans as percentage of private expenditure on health ?1.9 (2004)
Per capita total expenditure on health at average exchange rate (US$) ?3532.0 (2004)
Per capita total expenditure on health at international dollar rate ?2827.9 (2004)
Per capita government expenditure on health at average exchange rate (US$) ?2999.8 (2004)
Per capita government expenditure on health at international dollar rate ?2401.8 (2004)

 

France
Indicator Value (year)
Total expenditure on health as percentage of gross domestic product ?10.5 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?78.4 (2004)
Private expenditure on health as percentage of total expenditure on health ?21.6 (2004)
General government expenditure on health as percentage of total government expenditure ?15.4 (2004)
External resources for health as percentage of total expenditure on health ?0.0 (2004)
Social security expenditure on health as percentage of general government expenditure on health ?95.7 (2004)
Out-of-pocket expenditure as percentage of private expenditure on health ?34.90 (2004)
Private prepaid plans as percentage of private expenditure on health ?57.3 (2004)
Per capita total expenditure on health at average exchange rate (US$) ?3464.0 (2004)
Per capita total expenditure on health at international dollar rate ?3040.1 (2004)
Per capita government expenditure on health at average exchange rate (US$) ?2714.6 (2004)
Per capita government expenditure on health at international dollar rate ?2382.4 (2004)

 

 

 

la spesa sanitaria italiana non è affatto a livelli stratosferici, ma

anzi inferiori o comparabili con quella di altri paesi a cui hai fatto

riferimento (Francia, Svezia e UK) con efficienza complessiva pari o

superiore. L'efficienza, in un sistema sanitario, è data da alcuni

indicatori oggettivi, quali l'aspettativa di vita, il tasso di mortalità infantile, la

mortilità al parto, ecc. e tutti questi elementi indicano che il nostro

sistema nazionale funziona, tra l'altro a costi inferiori rispetto alla

"concorrenza".

E' corretto affermare che il sistema sanitario italiano costa complessivamente poco, come testimoniato dal confronto con Francia e Svezia, anche se credo che in rapporto al PIL stia aumentando piu' che in altri paesi, e probabilmente le cifre ufficiali non includono la spesa in nero (specialmente badanti immigrate) cui le famiglie vengono obbligate dalla deliberata sostanziale assenza di prestazioni sanitarie gratuite per le persone non-autosufficienti da parte dello Stato.

Riguardo l'efficienza, personalmente ritengo poco attendibili, o meglio poco utili e fuorvianti, le stime della WHO sul sistema sanitario italiano, per i motivi che riassumo subito. Come spiegato nel rapporto del 2000, l'efficienza e' misurata in maniera alquanto indiretta. Sostanzialmente, si misura la speranza media di vita (DALE, disability adjusted life expectancy) e si assume, per confrontare Stati diversi, che a parita' di spesa pro-capite, la speranza di vita dipenda da due fattori: il capitale sociale, per indicatore del quale si prende il livello di istruzione, e il sistema sanitario. Sapendo questo, e' comprensibile come mai l'efficienza del sistema sanitario italiano risulta alta: l'Italia e' un paese con vita media elevata, ma con spesa medio-bassa, e livello di istruzione basso rispetto a paesi con spesa sanitaria comparabile e vita media comparabile. Secondo me lo studio omette di considerare tre elementi rilevanti del capitale sociale con diretti benefici sulla vita media: i valori religiosi, la coesione familiare, e la dieta alimentare. Basta leggere l'intera classifica dell'efficienza dei sistemi sanitari per vedere subito che sono privilegiati, rispetto ad esempio alla classifica dello sviluppo umano compilata dall'ONU, che misura reddito, sanita' e istruzione, proprio i paesi in cui gli elementi trascurati sono presenti: Francia, Italia, Andorra, San Marino, Malta, Portogallo, perfino la Colombia, che supera la Svezia e la Germania.

In particolare in Italia la speranza di vita beneficia dei seguenti elementi, trascurati dal rapporto, e non merito del sistema sanitario:

  • coesione familiare e impegno delle donne nella cura degli anziani (con conseguente sotto-occupazione femminile)
  • valori cattolici
  • spesa in nero per badanti immigrate (sostanzialmente non contabilizzata nella spesa pro-capite, secondo me)
  • dieta mediterranea

Come si vede nella seconda classifica che allego, il quadro cambia totalmente quando si valuta come i sistemi sanitari rispondono ai bisogni dei cittadini. Qui la misura dei sistemi sanitari e' molto piu' diretta, e la posizione del sistema sanitario italiano ritorna ad essere quella tipica delle classifiche dello sviluppo umano compilate dall'ONU, in cui l'Italia si posiziona intorno al 20o posto, nelle ultime posizioni tra i paesi industrializzati. La terza classifica mostra che secondo i dati della WHO le differenze interne nel livello di risposta dei sistemi sanitari sono poi comparabili nei diversi paesi.


Classifica di efficienza dei sistemi sanitari dal World Health Organization, dal rapporto del 2000, (Annex Table 10 Health system performance in all Member States, WHO indexes, estimates for 1997)

  • il primo intervallo misura la posizione in classifica, entro i margini di errore stimati
  • il primo numero indica l'efficienza, e l'intervallo seguente stima l'errore di misura

1-5 France 0.994 0.982-1.000
1-5 Italy 0.991 0.978-1.000
1-6 San Marino 0.988 0.973-1.000
2-7 Andorra 0.982 0.966-0.997
3-7 Malta 0.978 0.965-0.993
2-11 Singapore 0.973 0.947-0.998
4-8 Spain 0.972 0.959-0.985
4-14 Oman 0.961 0.938-0.985
7-12 Austria 0.959 0.946-0.972
8-11 Japan 0.957 0.948-0.965
8-12 Norway 0.955 0.947-0.964
10-15 Portugal 0.945 0.931-0.958
10-16 Monaco 0.943 0.929-0.957
13-19 Greece 0.933 0.921-0.945
12-20 Iceland 0.932 0.917-0.948
14-21 Luxembourg 0.928 0.914-0.942
14-21 Netherlands 0.928 0.914-0.942
16-21 United Kingdom 0.925 0.913-0.937
14-22 Ireland 0.924 0.909-0.939
17-24 Switzerland 0.916 0.903-0.930
18-24 Belgium 0.915 0.903-0.926
14-29 Colombia 0.910 0.881-0.939
20-26 Sweden 0.908 0.893-0.921
16-30 Cyprus 0.906 0.879-0.932
22-27 Germany 0.902 0.890-0.914
22-32 Saudi Arabia 0.894 0.872-0.916
23-33 United Arab Emirates 0.886 0.861-0.911
26-32 Israel 0.884 0.870-0.897
18-39 Morocco 0.882 0.834-0.925
27-32 Canada 0.881 0.868-0.894Y
27-33 Finland 0.881 0.866-0.895
28-34 Australia 0.876 0.861-0.891
22-43 Chile 0.870 0.816-0.918
32-36 Denmark 0.862 0.848-0.874
31-41 Dominica 0.854 0.824-0.883
33-40 Costa Rica 0.849 0.825-0.871
35-44 United States of America 0.838 0.817-0.859
34-46 Slovenia 0.838 0.813-0.859
36-44 Cuba 0.834 0.816-0.852
36-48 Brunei-Darussalam 0.829 0.808-0.849
38-45 New Zealand 0.827 0.815-0.840


Annex Table 6 Responsiveness of health systems
WHO indexes, estimates for 1999

1 USA 8.10 7.32 8.96
2 Switzerland 7.44 6.79 8.13
3 Luxembourg 7.37 6.73 8.06
4 Denmark 7.12 6.55 7.73
5 Germany 7.10 6.52 7.72
6 Japan 7.00 6.43 7.61
78 Canada 6.98 6.44 7.54
78 Norway 6.98 6.40 7.60
9 Netherlands 6.92 6.38 7.49
10 Sweden 6.90 6.35 7.47
11 Cyprus 6.88 6.76 7.00
1213 Australia 6.86 6.34 7.40
1213 Austria 6.86 6.31 7.45
14 Monaco 6.85 6.32 7.44
15 Iceland 6.84 6.31 7.42
1617 Belgium 6.82 6.29 7.39
1617 France 6.82 6.27 7.42
18 Bahamas 6.77 6.28 7.29
19 Finland 6.76 6.26 7.29
20-21 Israel 6.70 6.22 7.22
20-21 Singapore 6.70 6.16 7.25
22-23 Italy 6.65 6.13 7.20
22-23 New Zealand 6.65 6.18 7.15
24 Brunei Darussalam 6.59 6.11 7.07
25 Ireland 6.52 6.03 7.02
26-27 Qatar 6.51 6.02 7.00
26-27 United Kingdom 6.51 6.01
28 Andorra 6.44 5.97 6.93
29 Kuwait 6.34 5.84 6.82
30 United Arab Emirates 6.33
31 Malaysia 6.32 6.21 6.42
32 San Marino 6.30 5.84
33 Thailand 6.23 6.11 6.35
34 Spain 6.18 5.74 6.63
35 Republic of Korea 6.12
36 Greece 6.05 5.63 6.48
37 Slovenia 6.04 5.62 6.48
38 Portugal 6.00 5.58 6.44
39 Barbados 5.98 5.57 6.41
40 Argentina 5.93 5.53 6.34


Annex Table 6 Distribution or the responsiveness of health systems
WHO indexes, estimates for 1999

1 United Arab Emirates 1.000 1.000 1.000
2 Bulgaria 0.996 0.994 0.997
3-38 Argentina 0.995 0.992 0.997
3-38 Australia 0.995 0.993 0.997
3-38 Austria 0.995 0.993 0.997
3-38 Bahamas 0.995 0.992 0.997
3-38 Bahrain 0.995 0.992 0.997
3-38 Barbados 0.995 0.993 0.997
3-38 Belgium 0.995 0.993 0.997
3-38 Brunei Darrusalam 0.995 0.993 0.997
3-38 Canada 0.995 0.993 0.997
3-38 Denmark 0.995 0.993 0.997
3-38 Finland 0.995 0.993 0.997
3-38 France 0.995 0.993 0.997
3-38 Germany 0.995 0.993 0.997
3-38 Greece 0.995 0.993 0.997
3-38 Iceland 0.995 0.993 0.997
3-38 Ireland 0.995 0.993 0.997
3-38 Israel 0.995 0.993 0.997
3-38 Italy 0.995 0.993 0.997
3-38 Japan 0.995 0.993 0.997
3-38 Kuwait 0.995 0.993 0.997
3-38 Luxembourg 0.995 0.993 0.997
3-38 Malta 0.995 0.993 0.997
3-38 Mauritius 0.995 0.992 0.997
3-38 Monaco 0.995 0.993 0.997
3-38 Netherlands 0.995 0.993 0.997
3-38 New Zealand 0.995 0.993 0.997
3-38 Norway 0.995 0.993 0.997
3-38 Qatar 0.995 0.993 0.997
3-38 Saint Kitts and Nevis 0.995 0.993 0.997
3-38 San Marino 0.995 0.993 0.997
3-38 Singapore 0.995 0.993 0.997
3-38 Spain 0.995 0.992 0.997
3-38 Sweden 0.995 0.993 0.997
3-38 Switzerland 0.995 0.993 0.997
3-38 United Kingdom 0.995 0.993 0.997
3-38 United States of America 0.995 0.993 0.997
39-42 Andorra 0.994 0.992 0.996
39-42 Antigua and Barbuda 0.994 0.992 0.996

 

 

Sugli effetti sul gettito fiscale di una riduzione delle aliquote fiscali ci sono stati alcuni post sul sito web di Mankiw (gregmankiw.blogspot.com) alcune settimane fa. Se ricordo bene (ma non sono così sicuro della mia memoria), Mankiw (dichiaratamente repubblicano e ex-consigliere di Bush e oggi consigliere di Romney) affermava che per ogni dollaro di riduzione delle imposte sul reddito, c'è un effetto di maggior gettito che va da 25 a 50 cent. Quindi ci sarebbe una riduzione netta di 50 o 75 cent di gettito. Mi pare anche di ricordare che lui definisse ciarlatani coloro che dicevano che una riduzione delle aliquote potesse aumentare il gettito. Naturalmente Mankiw si riferiva agli USA. Non sono a conoscenza di stime per l'Italia.

 

Quanto grande e' questo effetto sostituzione? Quanto piu' prodotto

interno lordo ci aspettiamo a causa di una diminuzione delle tasse? Ci

aspettiamo effetti di crescita o solo di livello?

 

Da anni Ed Prescott

(non solo lui, ma soprattutto lui) insiste che l'effetto aggregato e'

grande (al margine), fino a tre volte la variazione delle tasse.

L'effetto sul PIL sarebbe enorme: in un famoso paper

Prescott conclude che se la Francia adottasse le aliquote vigenti in

USA potrebbe aumentare permanentemente il consumo del 19%. Quindi,

considerato che in Francia i consumi finali erano l'80% del PIL nel 2006

, l'effetto (di livello) sul prodotto interno lordo sarebbe del 15%

circa (il 19% di 80%). Questo numero e' forse troppo grande per essere

credibile, ma il messaggio e' chiaro.

L'elasticita' aggregata

forse non e' cosi' grande, ma e' comunque piu' elevata di quello che

affermano gli economisti del lavoro che usano dati individuali perche'

include aggiustamenti al margine estensivo (persone che decidono di

lavorare quando le tasse sono piu' basse) e non solo al margine

intensivo (variazione del numero di ore lavorate dal singolo), che e'

trascurabile (a maggior ragione in Italia dove i contratti consentono

poca variazione delle ore lavorate per i dipendenti e dove gli autonomi

hanno un'imposta marginale pressoche' nulla per le ragioni sottolineate

da Alberto.)

Come tutti sanno in Italia il tasso di occupazione

e' estremamente basso, cioe' ci sono molte persone il eta' lavorativa

(16-65) che non sono occupate. Quindi sono molti quelli che possono

aggiustare al margine estensivo. Cosi' a intuito, questi sono: (1) le

donne, ma ormai probabilmente solo quelle oltre la quarantina (secondo

l'Istat i tassi di partecipazione di donne e uomini sono molto simili

fino ai 44 anni, vedi tavola 7.4 in questo archivio

) (2) quelli parcheggiati all'universita' e a casa di babbo e mamma

fino alla soglia dei trent'anni, (3) quelli che smettono di lavorare a

55 anni.

Percio' la domanda cruciale diventa: queste tre

categorie sarebbero indotte a entrare nel mercato del lavoro se le

tasse sul reddito fossero piu' basse? Il gruppo (3) non credo, perche'

con le regole che vigono andare in pensione presto e' piuttosto

conveniente. Per influenzare questo gruppo occorre un sistema

pensionistico che non disincentivi il lavoro. Nel gruppo (1), quanto e'

facile in Italia per una donna trovare lavoro dopo i 40 anni se non ha

mai lavorato? Il gruppo (2) non so, in fondo l'universita' costa poco e

le case tanto anche se si possono guadagnare novecento euro al mese

anziche' ottocento.  Per questo gruppo il taglio dovrebbe essere

forse piu' di un terzo.

In conclusione, senza riformare il mercato del lavoro e quello previdenziale, non possiamo escludere che in Italia

l'elasticita' aggregata dell'offerta di lavoro rispetto alle imposte

sul reddito sia prossima a zero, per tagli anche sostanziali delle

tasse.

Anch'io sono balzato sulla sedia quando ho letto le dichiarazioni di TPS. Non è solo il fatto che, con tutta probabilità, lui creda a una simile sciocchezza. È anche il fatto che è così separato dal paese reale che non si rende nemmeno conto di quanto fastidio possano generare queste dichiarazioni. Può dire di essere un tecnico finché gli pare, ma la carica di ministro è carica politica e un minimo di accortezza politica bisogna pur averla.

D'altra parte questo è lo stesso signore che è riuscito ad accompagnare una pessima proposta di sussidio (quello sugli affitti ai giovani che escono di casa) con gli insulti diretti ai sussidiati, chiamati 'bamboccioni'. Proporre sussidi perdendo al tempo stesso consenso tra i recipienti del sussidio stesso non è compito semplice, ma il buon TPS sembra esserci riuscito.

Politicamente è un vero inetto. E uno dice: però tale inettitudine è compensata dalla sua formidabile capacità come tecnico; e qui il riso diventa incontenibile.

Non potrei essere più d'accordo  con sandro. Il governo, TPS in testa, sta distruggendo ogni possibilità di vittoria del centrosinistra per i prossimi 10 anni con queste dichiarazioni che mostrano una totale mancanza di senso della realtà. Quello che mi domando è come si sentano i candidati alla leadership del PD (Veltroni in primis ovviamente) sapendo che si stanno candidando a gestire un tracollo. Non credo sia potere personale: non appena ci saranno le elezioni tutti sputeranno addosso al leader del PD (anche se ovviamente non avrà colpe) e lo cambieranno con un altro dopo qualche mese di logoramento ininterrotto. Da un punto di vista individuale molto meglio rimanere nell'ombra adesso e giocarsi le carte dopo le elezioni. Certo che Veltroni si è messo in un vicolo cieco. Se domenica perde, è finito. Se vince, ha il compito di coprire le spalle a TPS and the likes ed è lo stesso finito. Chi glielo ha fatto fare? Onestamente non capisco.

Ho ascoltato Padoa Schioppa dire "le tasse sono bellissime" in diretta, intervistato da Maria Annunziata dopo il Tg3 delle 14. Il suo discorso aveva una logica, (le tasse sono un mezzo per distribuire il costo di servizi statali utili a tutti) me evidentemente l'uomo vive fuori del mondo, dall'alto del cumulo tra le sue indennita' e le sue pensioni di Bankitalia, mentre l'italiano medio se lavora e guadagna 4 soldi al mese non puo' cumulare la sua pensione di altri 4 soldi al mese. Consiglio di leggere l'editoriale di F.Giavazzi sul Corriere della Sera di oggi, "il mito della spesa" dove si parla di "tasse che pagano le famiglie povere per consentire ai figli dei

ricchi di frequentare gratis quell'università che ai loro figli spesso

è preclusa" e "la nostra spesa pubblica non aiuta i cittadini che più ne avrebbero

bisogno. Non finanzia sussidi di disoccupazione generalizzati; non

aiuta le famiglie con figli piccoli (certamente non tanto quanto esse

sono aiutate in Paesi in cui lo Stato spende di meno, come in Gran

Bretagna); non finanzia borse di studio; non fa quasi nulla per aiutare

i poveri e le famiglie a rischio di povertà."

Come nel caso dell'evasione fiscale, sembra che Padoa Schioppa ritenga di dare il suo contributo allo Stato di cui dovrebbe essere servitore elaborando propaganda e disinformazione varia al servizio di ideologie politiche insensate. Potrebbe essere invece molto piu' utile e "di sinistra" se sottolineasse il danno e l'ingiustizia della spesa pubblica improduttiva e clientelare, e si adoperasse per ridurla ricavando con questo le risorse per aumentare la spesa pubblica utile per servizi statali dignitosi, e non "miserabili" come l'Economist definisce quelli attuali:

What is more, taxpayers get miserable value for money.

Public spending in Italy is higher than in Germany, if lower than in

France (see chart). But the clincher is that public-sector pay is high

and the quality of public services is among the worst in Europe.

 

 

 

Non capisco lo stupore dei simpatizzanti dei partiti di sinistra per le affermazioni di TPS. 

Perche' questo stupore? Quali atti o affermazioni passate, quale scelta di vita, quale modalita' di carriera vi aveva fatto pensare, nel passato, che TPS, VV, Prodi, e VW (tanto per menzionare i 4 piu' visibili) abbiano mai pensato altrimenti? Sulla base di quali affermazioni e quali atti politici vi aspettavate che i suddetti avessero, o avessero avuto, a cuore gli interessi ed il benestare di chi lavora, rischia e produce in proprio? Forse che la finanziaria 2007 non ha insegnato nulla a nessuno? Pensate davvero che fosse un errore di percorso, una svista? Cos'hanno mai fatto o detto questi signori che possa far ritenere che essi si sarebbero ravveduti?  Scusate, voi davvero pensate (con AA&FG) che il liberismo e' di sinistra nel senso che alla sinistra italiana piace il liberismo e non piacciono le tasse, la mega spesa pubblica, lo stato che tutto controlla, possiede, regola, redistribuisce? Sulla base di queli fatti o scritti vi siete andati formando questa posizione? Sono davvero sinceramente curioso di saperlo.

Perche' siete cosi' tristi e rammaricati della futura e spero gigantesca sconfitta di questi bonzi del potere statale, di questi parassiti eterni, di questi che non hanno mai lavorato ed hanno passato tutta la loro vita dentro allo stato, mangiando lo stato ed appropriandosene? Quale strana ideologia motiva tanta tristezza per la futura sconfitta di un personaggio improbabile e vuoto come VW? Davvero, spiegatemelo. 

Non mi stupisco che TPS pensi quello cose. Mi stupisco che non abbia la minima accortezza politica ed eviti di dirle esplicitamente.

Se Berlusconi dicesse "non m'importa nulla di come funziona la giustizia in Italia, m'importa solo di passarla liscia" mi stupirei, non perché non sia chiaro che il berlusca la pensa così ma perché sarebbe un ovvio boomerang politico e non è assolutamente nel suo interesse dirlo.

Allo stesso modo, è chiaro oltre ogni dubbio che a TPS non importa alzare le tasse agli italiani. Ma elementare tecnica di comunicazione suggerirebbe almeno di far finta di esser contrito, di dire che poverino non può proprio farne a meno anche se gli dispiace tanto. Da questo punto di vista la sua dichiarazione denuncia un livello di incapacità che lascia esterefatti.

La tristezza che ho non è certo dovuta al fatto che questi signori verranno mandati a casa alle prossime elezioni; di perdere se lo meritano abbondantemente. La tristezza viene al pensiero di quelli che andranno al loro posto; che invece di vincere non se lo meritano proprio.

Non sono un economista, ma un (modesto) analista di politica internazionale. Però ho letto su un blog francese un utile insieme di dati sulle vecchissime "liberalizzazioni" e riduzioni effettuate in Nuova Zelanda e in Canada molti anni fa. Non ho fatto in tempo a verificare tutti i dati, ma mi sembra che in Francia si stiano muovendo verso una nuova visione -non più napoleonica e ideologica- dell'organizzazione economica statale. Qui in Italia invece dibattiamo poco e bene, più spesso tanto e male. Per giunta -finite le parole- non interviene mai l'azione e il feed-back positivo.
http://lapulcedivoltaire.blogosfere.it/2007/10/deficit-francese-e-liberalismo.html

Non ho fatto in tempo a verificare tutti i dati, ma mi sembra che in

Francia si stiano muovendo verso una nuova visione -non più napoleonica

e ideologica- dell'organizzazione economica statale.

Mah, a quanto leggo p.es. della loro finanziaria per il 2008 la mia impressione e' che pure loro non stiano andando molto oltre le chiacchiere (e pure quelle a volte sono raccapriccianti).

la spesa in italia é buttata, e su questo cé´poco da dire, ma il paragone con la svezia é quasi demagogico:

SWEDEN: POPULATION 9,031,088 (july 2007 est.)

ITALY: POPULATION 58, 147,733 (july 2007 est.)

 

 

A me non sembra cosi' ovvio che sia impossibile replicare quello che si fa in una societa' con 9 milioni ad una societa' di 58 milioni. A quale scala di grandezza la tragedy of the commons diventa irrisolvibile? Se fosse solo questo basterebbe dividere l'italia in 7 macroregioni e delegarvi gran parte dei poteri (cosa del resto consigliabile anche per altri motivi). Devi spiegarti meglio: e' l'eterogeneita' della popolazione italiana che fa fallire il progetto di convivenza civile che funziona in Svezia?

 

la spesa in italia é buttata, e su questo cé´poco da dire, ma il paragone con la svezia é quasi demagogico:

SWEDEN: POPULATION 9,031,088 (july 2007 est.)

ITALY: POPULATION 58, 147,733 (july 2007 est.)

Ma perche' uno Stato piccolo deve far meglio di uno Stato grande?
La Germania e' piu' grande dell'Italia e fa meglio, se e' per questo.

Se il solo problema fosse il numero degli abitanti la soluzione e' semplice: dividiamo l'Italia in Stati sovrani. La Lombardia avrebbe gli stessi abitanti della Svezia, e il Triveneto della Svizzera. Non c'e' nessuna ragione di competizione militare con altre potenze europee che ci costringa ad essere quello che D'Alema elogia sempre come "un grande Paese".

Quello che piuttosto pochi vogliono ammettere e' che gli Stati ben amministrati sono di due tipi:

  • stati omogenei come popolazione, storia e cultura, con spesa statale che puo' essere sia piccola che elevata (Germania, Svezia, Olanda, Svizzera, Francia, Giappone). Per essere omogenei, questi Stati sono spesso piccoli.
  • stati disomogenei al loro interno, con governi che adottano sistemi federali (se sono estesi), politiche liberiste e con bassa spesa statale (USA, Canada, la stessa Inghilterra storicamente e' stata disomogenea, Singapore, Hong Kong.)

L'Italia ha molti abitanti, ma soprattutto e' fortemente disomogenea al suo interno, per storia, cultura e geografia. L'unica speranza che l'Italia ha di essere un paese ben amministrato e' con un assetto federale, politiche liberiste e bassa spesa statale.

 

L'Italia come e' ora, centralista, con elevata spesa statale, e con politiche cattocomuniste illiberali e anti-liberiste, e' condannata ad essere amministrata pessimamente.

 

 

Salve e innanzitutto grazie a NfA, di cui su LiberoMercato riporto interventi e commenti.

Ringrazio dell'attenzione e recensione di Nanni.B per mio modesto pamphlet, concepito e scritto in maniera da renderlo commestibile anche a chi non ha elevate conoscenze economico-finanziarie o di scienza delle finanze e di sistemi comparati del prelievo e relativi effetti incentivo-disincentivo su reddito, consumi, investimenti ecc.

Venendo al merito delle più che legittime critiche: l'editore premeva per un testo nel quale richiami a papers e testi -soprattutto stranieri, il che è dire tutto, in materia - fossero ablati. Dunque se la massima colpa fosse quella dell'omissione del coautore di Barriers to Riches, e l'attribuzione del Nobel a Ed Prescott del lavoro preciso che gli è valso il premio invece che della ricerca che mi premeva citare per l'effetto dell'aliquota media sull'offerta aggiuntiva di lavoro, beh sarei più che soddisfatto: sono ben altre le pecche "teoriche" di un testo scritto così a tirar via, e che è già costato sangue far passare rispetto alla forma ancor meno ricca di quotes che preferiva l'editore.

Quanto a una delle pecche: la contraddizione evidente tra teoria dell'offerta e Starve the Beast, l'osservazione è ovviamente fondata. Per quanto mi riguarda, infatti, non punto tanto sul classico argomento affama-Stato, poiché un abbattimento radicale avrebbe effetti di minor gettito - tenuto conto anche delle serie storiche che attestano una maggior vischiosità di cotnribuenti e imprese al variare radicale dell'ordinamento, nel nostro paese, per più che attestate propensioni alla maggior diffidenza sull'irreversibilità delle novelle legislative - nel primo e forse nel secondo anno, prima di dispiegare pienamente i suoi effetti. Mi limito dunque a dire che in quella finestra temporale meglio sarebbe allocabile un'intervento deciso di riallocazione della maggiori poste "non in linea" della spesa pubblica, come i quattro e più punti di pil in media attribuiti da noi alla previdenza più che media Ue, e quelli in meno invece destinati al workfare. In quel senso, la Bestia affamata " a tenmpo"potrebbe cambiare dieta. Ma ne trarrebbe comunque giovamento, insieme a noi tutti.

Quanto all'impostazione "morale" del tema-evasione, lungi da me. L'esame è condotto "anche" su quel versante, perché esso è quello "imposto" nella comunicazione pubblica sin dal primo giorno di assunzioen di responsabilità del governo in carica. Quanto all'uscita dal mercato di migliaia di imprese marginali: ne parlai anni fa con Visco in persona, e mi colpì molto la sua argomentazione sulla palla al piede quanto a produttività multifattoriale di sistema dell'"eccessiva" presenza sul totale della popolazione attiva di lavoratori autonomi, e della piccola impresa nella tipologia complessiva del sistema italiano. Attenzione: chi è oggi al comando teorizza non la neutralità dell'imposta ma esplicitamente il suo effetto "virtuoso", e tra questi trovo conferma della volontà allora dichiarata - anche se mai esplicitamente teorizzata - di "attenuare" quella che VV mi descrisse come "anomalia".....

Quanto alla delega fiscale approvata e rimasta inattuata nella scorsa legislatura, la mia critica nel libro all'aver detto senza fare è anch'essa radicale e senza mezzi termini. Chi pensa che confonda aliquote e sostegni elettorali non mi conosce, e se quanto scrivo alimenta dubbi in proposito la colpa è mia e vedrò di essere più chiaro.

Grazie comunque a voi tutti per la dirittura e lo spessore delle idee che proponete a tutti coloro che vi leggono, e scusate la fretta e l'approssimazione con cui vergo anche queste poche righe.

OGiannino

 

 

Questo non è un sito dove ci si faccia dei complimenti, ma vorrei segnalare un ottimo articolo di Giannino sul Libero di oggi sul Nobel a Capecchi (purtroppo non ho trovato un link). In sostanza, Giannino dice che, grazie alla campagna per astensionismo al referendum fatta da molte forze politiche, ricerche come quelle che hanno fruttato il Nobel a Capecchi in Italia sarebbero impossibili (o difficili) da condurre. E che questa è una vera idiozia (sto ovviamente semplificando). Sono totalmente d'accordo.

 

 

 

 

Ricambio i ringraziamenti per l'attenzione e aggiungo quelli per i complimenti a NFA che sempre apprezziamo.

Colgo l'occasione per spiegarmi meglio. Capisco i vincoli editoriali sulle citazioni e per mia natura non do molta importanza ai dettagli. Il gioco di Nanni B. serviva pero' a fare il punto che la tesi del libro, che io condivido (pur dissentendo da alcune argomentazioni), e' spaventosamente minoritaria tra gli intellettuali del paese delle "tasse sono bellissime" e che quindi anche ogni piccolo errore di dettaglio aiuta i Nanni B. a non considerare la tesi nella sua interezza.

Piu' importante e' secondo me l'argomento da Laffer curve. A me pare uno di quegli argomenti che sono sopravvalutati perche' molto controintuitivi (e quindi sexy): "ma dai, non ci credo, abbassando le tasse si ha piu' gettito?" Ce ne sono altri in economia, tipo "immiserizing growth", effetti negativi dei sussidi e cose cosi'. Sono tutti risultati di possibilita' (che possono accadere, di solito sotto condizioni molto restrittive) che hanno il vantaggio di catturare l'attenzione del lettore ma che finiscono per convincerlo che lo scrittore sta "barando". Che in Italia una drastica riduzione delle tasse, specie se accompagnata a liberalizzazioni violente, possa avere un effetto di crescita nel medio periodo (tipo Regno Unito dopo la Thatcher) e quindi anche generare un aumento del gettito nel medio periodo e' argomentabile (a me pare anche molto probabile), ma le lacrime e il sangue nel breve periodo sembrano inevitabili e a me pare controproducente nasconderli dietro un argomento Laffer curve di breve.

Sulla "bestia", io sono convinto che il cambiamento di dieta che se comprendo bene lei prospetta, pragmaticamente, non sia praticabile ne' auspicabile. La questione in Italia non e' solamente che la bestia e' grassa ma che produce poco o nulla di commestibile. L'inefficienza della spesa pubblica nel paese e' mostruosa. Io non credo che un approccio pragmatico alla questione ci porti lontano; ma io raramente trovo "compromessi" concettuali convincenti.

Sulla questione dell'effetto delle tasse sulle imprese marginali, neanche a dirlo, trovo la posizione di VV una follia su tutti i possibili piani, logici ed empirici. Michele discute sotto la questione spinosa del rapporto tra efficienza e dimensione - e rimando alla sua chiara analisi. Io resto convinto che la questione morale dell'evasione sia di prim'ordine, ancora piu' centrale di quella economica. Per questa ragione mi innervosisco quando vedo posizione che difendono basse tasse ai produttori autonomi (anche se su serie basi "economiche", che condivido) e che implicitamente mettono in secondo piano l'aspetto etico.

Infine, non penso affatto che lei confonda aliquote e sostegni elettorali, non la conosco bene, ma non ho ragione di pensare che sia questo quello che fa nel libro. Il mio punto, ancora una volta, e' che il mio amico Nanni B. certamente lo pensa che lei confonda aliquote e sostegni elettorali; il mio amico Nanni B. non fa grande distinzione tra LiberoMercato e Libero, ne' fra Milton Friedman e Pinochet (forse adesso sono un po' ingeneroso con Nanni B., per gusto della discussione). Non diamogli ragioni di pensare che ha ragione, all'amico Nanni.

Detto questo, e' un gran piacere discutere di queste cose a questo livello. Grazie ancora per avere alimentato la discussione.

 

Nella sua replica Giannino solleva una questione che da tempo avevo voglia di sottoporre a chi mastica di economia quantitativa ben più di me, ovvero la "banda" di NfA. Si tratta di questo: ho sentito anch'io ripetere più volte la tesi che Giannino attribuisce a Visco, ovvero che "uccidere" le piccole e medie imprese italiane, soprattutto nel settore dei servizi, del commercio e delle professioni, sarebbe attività meritoria e virtuosa perché favorendo le grandi imprese si avrebbe più efficienza e più produttività per tutto il sistema. Tale argomento non mi ha mai convinto del tutto perché, "a pelle", sono perplesso sul fatto che le misure di produttività disponibili siano in grado di catturare davvero il contributo che la rete di piccoli/medi produttori arreca, e soprattutto ha arrecato, allo sviluppo economico e sociale italiano. Però, certo, so anche come proprio a livello di piccoli negozianti, piccoli professionisti, ecc. si annidino nel nostro paese le peggiori sacche di inefficienza (parlo del settore privato, sia chiaro), i nepotismi, le caste, le barriere all'ingresso dei giovani. La mia domanda è: cosa ci dice l'economia quantitativa al riguardo? Esiste un argomento convincente a favore della tesi "big is beatiful"? Provocatoriamente potrei chiedere: è proprio vero che, per dire, le grandi law firms USA sono più efficienti del piccolo studio di avvocato italiano? E come diavolo si misura la produttività dell'avvocato? Con i prezzi che pratica ai clienti? E la produttività del salumaio sotto casa? Con i prezzi, chiaramente più alti che alla Coop? Ma il suo "servizio" non è lo stesso del supermercato, è chiaramente differenziato: la sua presenza mi evita l'uso della macchina, mi porta la spesa a domicilio, mi evita la fila alla cassa, ecc. Di più, rende vivibile un quartiere, evitando l'effetto "dormitorio", ecc.

Attendo risposte. Grazie.

P.s.: sulle staminali. Non ho letto l'articolo di Giannino ma ho letto che la ricerca di Capecchi non ha mai fatto uso di staminali embrionali umane, anzi uno degli scopo della tecnica da lui inventata era proprio quello di rendere superfluo l'utilizzo di cellule umane tout court. Non mi pare che la legge italiana vieti la ricerca sui topolini, o sbaglio?

 

La prima cosa che mi viene da dire e' che se esistono delle inefficienze del sistema istituzionale che favoriscono l'emergere di piccole imprese, allora l'efficienza del sistema produttivo si aumenta togliendo le inefficienze iniziali, non certo aggiungendo altre distorsioni che danneggiano le piccole imprese.

Nicola, hai ragione. Come ho scritto nel messaggio precedente, ho semplificato (forse troppo!) il contenuto dell'articolo di Giannino. Lui dice "La sua ricerca sconfina nel tabu, da noi. Per me, è un delitto contro il genere umano." Quindi tecnicamente la ricerca di Capecchi non viola norme attuali, in Italia, ma la legislazione italiana non favorisce, anzi ostacola ricerche come quella di Capecchi. Questo è in sintesi il contenuto dell'articolo di Giannino.

 

credo che la grande inefficienza in italia sia nel settore distributivo. abbiamo piccoli ristoranti, piccoli negozi, piccoli tabaccai, piccole farmacie. Piccola è anche l'industria dell'edilizia abitativa, della gestione dei condomini, etc. etc. ovvero, niente economie di scala, niente possibilità di calmierare in modo significativo i prezzi al consumatore - almeno questa è l'analisi a cui giungo attravero la mia eclettica interpretazione del libro the power of productivity (chicago univ. press 2004 - di cui giannino, tra i pochi, a suo tempo aveva parlato)

questa mi è sempre sembrata la ragione del più elevato costo della vita in italia.

cmq, a me sembra che la ricetta di lewis (l'autore di the power of productivity) funzioni anche in questo caso: liberalizzare, favorire fdi, etc. pensare di uccidere un settore inefficiente attraverso le tasse mi sembra abbastanza ingenuo. anche e soprattutto alla luce di un semplice dato - la ridotta dimensione dei suoi agenti economici permette loro di sfuggire l'imposizione fiscale. in ultima analisi, proprio dall'evasione trae linfa vitale tutto questo sottostrato economico.

gli economisti mi correggano.

saluti, ag.

Domanda complicata, per varie ragioni, quella di Giocoli suggerita anche da Giannino.

Ragione numero uno: le differenze di dimensione si accompagnano spesso a differenze di settore, quindi il confronto e' viziato. Paesi con molte imprese grandi tendono a concentrarsi in settori in cui la dimensione media e' grande (avete mai trovato raffinerie o acciaierie a conduzione familiare?), l'opposto per paesi con molte imprese piccole. Ora, la scelta dei settori in cui un paese si concentra non e' arbitraria, parte viene dalla storia, parte dagli endowments (difficile pensare ad una Arabia Saudita dove si produca molta carne di vacca) e parte dagli incentivi fiscali ed istituzionali.

Ragione numero due: le imprese nuove, innovative e molto produttive tendono ad essere piccole. Poi quando hanno successo e crescono diventano grandi. Questo crea un effetto che, statisticamente, occorre pulire con cura, altrimenti si rischia di esagerare la produttivita' delle imprese piccole.

Ragione numero tre: simmetrica alla precendente. Le imprese produttive crescono, quindi molte imprese sono grandi perche' sono produttive, e non viceversa. pensate a Microsoft: era molto piu' produttiva delle altre anche quando era piccola, ed ora che e' cosi' grande probabilmente lo e' meno (in termini di produttivita' pura, lasciate stare il potere di monopolio che non c'entra nulla).

Ragione numero quattro: appena detta. Molti fanno confusione fra potere di monopolio e produttivita'. Molte imprese grandi controllano una grossa quota di mercato ed hanno molti lawyers che fanno lobbying per loro, conquistando potere di monopolio con vari strumenti siano essi giuridici o strettamente "economici". Ma questo fatto, anche se aumenta i profitti, non aumenta necessariamente la produttivita'. Quindi occorre farci molta attenzione nel concludere che l'alta redittivita' di imprese grandi (penso alle farmaceutiche) corrisponda ad una loro alta produttivita': spesso non e' per niente vero.

Ragione numero cinque: molto spesso non e' la dimensione per se che rende l'impresa piccola poco produttiva, ma la mancanza di accesso a credito "sofisticato" dovuta alla sua dimensione, struttura proprietaria ed incapacita' di offrire collaterals per ottenere il credito che serve ad investire in tecnologie piu' efficienti. Penso alle imprese che in Italia fanno vino, altamente produttive di per se, ma incapaci di costruire consorzi e cooperare per raggiungere in massa i grandi mercati esteri e distribuire piu' efficientemente i loro prodotti.

Ragione numero sei: flessibilita'. La produttivita' si tende a misurarla ad un punto nel tempo, o in media sopra periodi di tempo mai troppo lunghi. Ma la produttivita' non e' tutto, anche la flessibilita', ossia la velocita' con cui si reagisce a shocks negativi, cambiamenti dei prezzi relativi, entrata di nuovi concorrenti esteri (Cina), e cosi' via, anche questa flessibilta' conta e come per il benessere sociale e per far crescere il reddito effettivo. Da questo punto di vista il fallimento di 100 imprese da 50 persone distribuite in molte provincie e' cosa molto meno grave del fallimento di una sola impresa da 5000 persone tutte in una medesima citta'. Il primo si assorbe facile, il secondo meno. Non solo, fra le 100 imprese forse 30 sopravvivono adattandosi rapidamente, licenziando qualche dipendente, facendo aggiustamenti che la grande impresa tende a non sapere o poter fare. Che sappia questo aspetto e' poco studiato, il che e' male.

Detto tutto questo, rimane il fatto che in media le grandi tendono ad essere piu' efficienti delle piccole. Gli studi abbondano, partite da questo se proprio vi interessa, ed andate a ritroso (la base di dati che questi ragazzi utilizzano la conosco ed e' particolarmente affidabile). Una rapida visita a Google Scholar mostra che la letteratura e' enorme ma anche parzialmente inconsapevole di alcuni dei problemi che ho appena menzionato. Il verdetto, comunque, e' che endogeneamente le imprese migliori crescono e che essere grandi permette di adottare, molte volte, tecnologie maggiormente efficienti che imprese piccole non possono permettersi. E' quasi un truismo, direi. L'aspetto flessibilita', che io sappia, non l'ha studiato seriamente nessuno. Se qualcuno conosce dei riferimenti seri, sarei grato di riceverli perche' e' un argomento che mi interessa strettamente. Come qualcuno forse sa, teorizzo da tempo che la competizione aperta - non i brevetti - e' il miglior stimolo per l'innovazione tecnologica. Un'implicazione di questa teoria e' che si innova quando si deve, ossia che la necessita' aguzza l'ingegno. Siccome la necessita' si manifesta spesso nella forma di shocks esterni e crisi, e' interessante studiare come imprese di dimensioni diverse e con diverso potere di mercato reagiscono a tali shocks. La teoria suggerisce che la grande maggioranza delle piccole spariscono o innovano a fronte di shocks esterni, mentre le grandi "resistono" mangiandosi il capitale, oppure investono in attivita' di rent-seeking e lobbying, cercando protezione politica dallo shock esterno. In questo caso le piccole sono piu' "produttive", socialmente, delle grandi. Questo suggerisce la teoria, cosa succeda in pratica credo sia stato poco studiato.

Sulla questione specificissima delle imprese di distribuzione, insomma: sui negozi, la risposta e' molto meno arzigogolata. Sembra ovvio che le grandi catene siano piu' efficienti: l'evidenza empirica e' "aplastante". Quindi, non vi e' dubbio alcuno che occorra lasciare che entrino alla grande ed aumentino l'efficienza del sistema, ci mancherebbe. Anche perche', una volta che le grandi catene entrano, esse costringono i sonnolenti proprietari delle botteghe del centro a lavorare, cosa che non fanno da decenni. Non sarebbe male vedere proprietari di boutiques di tutti i tipi, macellai e pizzicagnoli, baristi e salumieri, lavorare e competere invece di godersi il potere di monopolio che il comune - a base di licenze negate - e l'associazione commercianti - a base di cartelli dei prezzi severamente imposti - hanno loro regalato dagli anni '50 in poi. L'evidenza poi mostra che, a seguito dell'entrata delle grandi catene, non tutti i piccoli negozianti spariscono, anzi. Da un lato, i piccoli negozi che offrono un servizio efficiente ed un prodotto particolarmente buono rimangono in vita ed anzi prosperano; dall'altro, i negozi inefficienti che spariscono vengono sostituiti da altri che o vendono i prodotti che i consumatori desiderano o vengono gestiti da gente che e' disposta a tenerli aperti 7 giorni alla settimana e sino a mezzanotte (tipo i cinesi, tanto per capirsi). Madrid, Barcelona, Paris e New York NON hanno visto i loro centri storici vuotarsi a seguito dell'arrivo delle grandi catene, ma semplicemente cambiare di conformazione e di tipologia d'offerta. In meglio, a mio avviso. Non credo vi sia dubbio alcuno che l'efficienza generale del sistema ed il benessere dei cittadini sia aumentato. Anche nelle citta' spagnole di provincia si puo' uscire alle 11 di sera e trovare un VIPS aperto che ti vende il latte, lo spazzolino da denti e le batterie, oltre a cibo, giornali e mille altre cose. Provate a Parma, o a Caserta!

Altrettanto ovviamente va detto che questo risultato non si ottiene inasprendo il carico fiscale sui redditi da lavoro (che danneggia anche la grande distribuzione la quale e' intensiva nel fattore lavoro, anche se non particolarmente qualificato) o inventandosi l'IRAP (che anche Coin e Macy's vorrebbero fare valore aggiunto, non solo il macellaio) come fa il nostro astuto vice Ministro delle Finanze. Questo, ossia favorire l'entrata di imprese efficienti, si fa liberalizzando orari e licenze, togliendo il potere di monopolio che Confesercenti e Confcommercio esercitano, eccetera. Solite manfrine ripetute mille volte ma sempre disattese sia dalla destra italiana che dalla sinistra.

Infine, sulle teorie di VV su come aumentare la produttivita' totale dei fattori in Italia. Avendo presente la carriera "accademica" (scherzo) e politica del personaggio, suonano purtroppo vere. Fossero vere, bisognerebbe dire che solo un comunista ignorante puo' pensar di fare politica industriale e generare innovazione a botte d'inasprimenti fiscali. Ma non vorrei attribuire al vice Ministro idee ed affermazioni che non ha fatto, quindi non lo dico e lascio il tutto solo ipotetico. L'idea, se fosse vera, sarebbe cosi' balzana da farmi ricordare uno di quei papers demenziali che arrivano continuamente ad Econometrica: sono cosi' assurdi che non sai neanche come cominciare a spiegare all'autore che non ha capito nulla.

 

Michele, grazie per l'esauriente risposta. Alcuni spunti - notevoli! - meriterebbero davvero maggiore ricerca, in particolare, credo, gli argomenti n.5 ed il n.6. Mi chiedo ad esempio se l'accesso a forme di credito più strutturato potrebbe p.e. favorire la costituzione dei c.d. centri commerciali naturali (= insieme di piccoli negozi indipendenti posti nella stessa via o in poche vie limitrofe) che rappresentano un modo di organizzare la distribuzione al dettaglio molto adatto alla storia ed alla tradizione delle città italiane e diverso dal modello Wal Mart.

Quanto alla flessibilità, forse si dovrebbe partire distinguendo tra flessibilità c.d. negativa (cioè capacità di assorbire agli shocks negativi) e flessibilità c.d. positiva (cioè capacità di creare ex novo ulteriori opportunità di investimento). Sono temi che si ritrovano frequentemente in certa letteratura di economia monetaria eterodossa (post-keynesiani e dintorni: la moneta come strumento di flessibilità nelle scelte sotto incertezza), ma al di là di piccoli spunti non li ho mai visti applicati seriamente a studi di industrial economics.

Non sono invece del tutto d'accordo su cosa accade al centro di una città quando ai piccoli bottegai tradizionali si sostituiscono negozi acchiappa-turisti o empori senza storia e senza tradizione. Ho davanti ai miei occhi il triste declino del centro di Firenze (ormai svuotato di fiorentini, anche a causa della chiusura dei negozi tradizionali uccisi dagli affitti astronomici e dalla cattiva amministrazione, e trasformato in una specie di Disneyland del Rinascimento). Immagino ai tuoi occhi sia lo stesso nel caso di Venezia e, francamente, non mi pare un modello auspicabile. Vogliamo difendere la diversità delle nostre città rispetto a New York, Londra o Berlino, oppure dobbiamo rassegnarci all'omologazione? 

Ovvio che la "ricetta Visco" (chiamiamola così per comodità) sia demenziale [BTW, te ne segnalo un'altra di spiegazione incredibile, sentita con le mie orecchie in un dibattito tra un rifondarolo pro-COOP ed un verde che lamentava il fatto che i supermercati generano traffico: "è meglio la grande impresa della piccola perché nella prima c'è più spazio per la sindacalizzazione dei lavoratori e la concertazione delle scelte con il potere politico"]. Rimane però ancora aperta la questione se sia davvero vantaggioso dal punto di vista del benessere sociale, inteso in senso davvero complessivo, favorire la grande impresa rispetto alla piccola. Anche a me piacerebbe avere un negozio sotto casa aperto alle 11 di sera e concordo con il fatto che aprire alla concorrenza stimoli tutti i piccoli bottegai ad offrire al consumatore servizi differenziati oppure perire. Ma concorderai che in nessuno dei due casi si può generalizzare rispetto ad una qualche misura di benessere sociale (molti non vogliono sotto casa il negozio gestito da extracomunitari e ci sono piccoli negozi già efficienti e diversificati che verrebbero comunque uccisi dall'apertura del supermercato).

Potrei anche ricordare una delle grande questioni che periodicamente ha fatto capolino nella storia dell'antitrust. Su quale idea di concorrenza è costruita la norma giuridica (p.e. lo Sherman Act)? Un'idea di concorrenza tra piccoli produttori indipendenti, privi di sostanziale potere di mercato, oppure tra poche grandi imprese oligopoliste la cui interazione va incanalata sul binario della competizione invece che della collusione? A seconda della risposta, cambia l'interpretazione della legge, come mostra p.e. la storia della Corte Suprema USA. Hai ragione, Michele, a raccomandare di non confondere il tema del potere di monopolio con quello della produttività, ma storicamente le due cose sono andate quasi sempre a braccetto. Per esempio, la (presunta) maggiore produttività dell'oligopolista rispetto alla piccola impresa ha spinto in certi periodi ad un'intepretazione dello Sherman Act del secondo tipo. Ed ovviamente questo ha avuto un feedback sul tipo di sviluppo economico dell'economia USA.  

Infine, la questione di fondo da me posta rimane. Siamo proprio certi che omogeneizzare la fornitura di alcuni beni e servizi promuova il benessere sociale? Che copiare il modello di sviluppo nel settore dei servizi o delle professioni degli altri paesi non intacchi il "capitale sociale" caratteristico dell'economia italiana? Personalmente, credo che gran parte di questo "capitale" ce lo siamo già mangiata da tempo, ma questa è un'altra storia... 

 

Sembra ovvio che le grandi catene siano piu' efficienti: l'evidenza

empirica e' "aplastante". Quindi, non vi e' dubbio alcuno che occorra

lasciare che entrino alla grande ed aumentino l'efficienza del sistema,

ci mancherebbe.

Il problema e' che in Italia non si e' capaci neppure di fare questo (vedi la faccenda Coop/Esselunga, qui, qui e qui).

A proposito di IRAP, vorrei ricordare che sostituì l'ILOR (all'epoca il 16,2%) e, con riferimento al costo del lavoro, il contributo al SSN (Servizio Sanitario Nazionale) che pesava per l'8,60% sulle retribuzioni lorde (a carico dell'impresa).

Il guaio grosso dell'IRAP, che tra l'altro rende complictissimi i confronti internazionali, è che nel conto economico compare dopo il risultato operativo nella voce 22 "Imposte sul reddito di esercizio" e fa si che, ad esempio, società con margini ridotti abbiano carichi fiscali sul reddito imponibile anche  superiori al 100%.  Basterebbe allocare l'Irap relativa al costo del lavoro tra le componenti del costo del lavoro (voce B9 per chi si diletta di bilanci) per riequilibrare il tutto.

Società labour intensive sono state ampiamente avvantaggiate dall'introduzione dell'IRAP.