Cos'è il valore legale
Ho discusso del valore legale in almeno dueoccasioni, e rimando a quei post chiarimenti per chi, immancabilmente e comprensibilmente, abbia dei dubbi sul concetto, sul quale è facile fare confusione. Qui mi limito a ribadire il punto fondamentale: il valore legale corrisponde ad una certificazione da parte di una autorità competente, della qualità minima del titolo di studio. In questo senso, una qualche forma di valore legale esiste anche nei paesi anglosassoni, anche se il sistema è diverso da quello nostrano (in Italia certifica il ministero, negli USA, semplificando, certificano alcuni enti privati o organizzazioni professionali, mentre il ministero certifica i certificatori - alcuni liberali nostrani farebbero bene ad informarsi della piovra burocratica che questo sistema comporta prima di additare il sistema anglosassone come il paradiso in terra).
Nell'accezione comune del termine però il valore legale corrisponde a tutto l'insieme di norme che concorre a stabilire quanto "valga" un titolo di studio. Queste norme comprendono le regole imposte alle università private per poter rilasciare diplomi di laurea, le regole dei concorsi pubblici per l'assunzione dei laureati, le regole per la partecipazione ai concorsi per l'ammissione agli albi professionali, e così via.
Perché il valore legale è un problema
Come hanno scritto in molti, il problema principale del valore legale è l'equiparazione delle università nelle valutazioni che si effettuano per formare le graduatorie dei concorsi pubblici. Mentre il settore privato può diversamente valutare un titolo di studio a seconda dell'università conferente, il settore pubblico non lo può fare perché ai candidati ai concorsi il titolo di studio deve conferire lo stesso punteggio indipendentemente dall'università di provenienza. Questo è un problema perché, vista la sostanziale presenza del settore pubblico nell'economia e in particolare, nel mercato del lavoro dei laureati (pensiamo a dottori, insegnanti, dirigenti pubblici), il mercado del lavoro dei laureati ne risulta notevolmente distorto. Se i concorsi pubblici non distinguono fra università eccellenti e università mediocri, sarà anche basso l'incentivo per lo studente ad acquisire un titolo di studio in una università migliore, il che riduce l'incentivo per le università ad accapparrarsi docenti e ricercatori migliori, il che appiattisce la qualità dell'università e ricerca. Il problema dunque sta principalmente non tanto nel "valore legale", inteso come certificazione di qualità, ma nei criteri di reclutamento della pubblica amministrazione. Di fatto, le proposte sul tappeto propongono alcune modifiche in questo senso. Queste alcune proposte: (1) eliminazione del vincolo del tipo di studio per l’accesso ai concorsi pubblici, (2) eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici, (3) valutazione differenziata della laurea a seconda della qualità della facoltà/università di provenienza, (4) eliminazione o riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici.
Il problema che non menziona nessuno
Un altro problema, dal punto di vista delle università private, è spesso evidenziato dai colleghi della Bocconi, che lo sentono sulle proprie spalle: le università statali non hanno grosso interesse a cambiare la situazione, mentre le università private il valore legale devono guadagnarselo. Il vincolo fondamentale per le università private sembra essere l'imposizione da parte del ministero dell'assunzione di una percentuale minima di docenti tramite il meccanismo dei concorsi. In sostanza la Bocconi, per avere il valore legale, deve assumere alcuni docenti con meccanismi simili a quelli usati dalle università statali, piuttosto che assumerli direttamente con i criteri che più le aggradano. Il vincolo aggiunge una certa macchinosità e una buona dose di inefficienza al reclutamento, anche se le università private restano libere di pagare di più i propri docenti (e in parte lo fanno), di reclutare almeno un sottoinsieme di docenti senza concorso (la Bocconi lo fa e, di recente, lo fa anche qualche università Statale tramite qualche stratagemma). Però, e comprensibilmente, questi vincoli sembrano ingiustificati. Altrettanto comprensibilmente, le università private (e anche alcune università statali) vorrebbero che questi sforzi venissero premiati riconoscendo ai propri studenti nei concorsi pubblici la (presumibilmente maggiore) qualità degli studi intrapresi.
Il rischio di fare peggio
Ecco un esempio del rischio di far peggio. In alcune proposte si sta parlando di usare l'ANVUR (l'agenzia governativa che valuta le università) per stabilire una graduatoria. Citando Trovati dal Sole 24 Ore linkato sopra:
per poter attivare i corsi, gli atenei dovranno sottoporre la propria offerta formativa all'ANVUR, che darà o negherà il via libera in base ad una valutazione complessa su sedi, organici, strutture, ma anche su qualità della didattica e della ricerca.
Tale graduatoria dovrebbe poi essere usata nei concorsi pubblici per assegnare un diverso punteggio ai laureati di diverse università. Cito dall'articolo di Manzini su LaVoce linkato sopra l'esempio di un concorso di assunzione in una Asl:
L’Asl che bandisce un concorso attribuirà allora un certo punteggio (ad esempio, 100) alla laurea dell’università/facoltà X, prima nel ranking di riferimento, e un punteggio inferiore (ad esempio, 90) alla laurea dell’università/facoltà Y, seconda nello stesso ranking, e così via a scalare. La regola dovrebbe essere la più semplice e meno burocratica possibile. Ogni amministrazione dovrebbe poter attribuire a ciascuna università/facoltà il punteggio che vuole; si chiede semplicemente di rispettare la posizione del ranking e dunque chi precede deve necessariamente avere un punteggio superiore di chi segue.
Spero non serva commentare la follia dirigistica che tale sistema creerebbe. Un'agenzia di burocrati ministeriali, coadiuvati si presume da una commissione baronale, stabilirà una complessa graduatoria di atenei e corsi di laurea, cercando di sindacare, per esempio, se il corso di Economia bancaria dell'università di Venezia sia migliore di quello di Economia delle imprese bancarie dell'università di Padova. Tutto questo ambaradan, per poi lasciare alle singole amministrazioni libertà di ignorare o quasi la graduatoria, assegnandole un peso minimo nella valutazione concorsuale. A che pro?
Assumiamo invece che la riforma "funzioni" e che si instauri una norma informale per cui la graduatoria sia seguita e pesata in modo consistente. Si finirebbe per premiare ingiustamente gli studenti scarsi dell'ateneo giudicato migliore rispetto a quelli bravi dell'ateneo peggiore. Migliore e peggiore in base a giudizi inevitabilmente arbitrari, che arbitrariamente condizioneranno la scelta di frequenza degli studenti.
E come migliorerebbe questo sistema la competizione fra università per i migliori docenti, senza una vera liberalizzazione del mercato del lavoro universitario? Finché i docenti saranno tutti pagati lo stesso stipendio quale sarà l'incentivo di spostarsi all'ateneo migliore? Finché la progressione salariale si baserà unicamente sull'anzianità accademica, quale sarà l'incentivo a migliorare il proprio insegnamento, pur rimanendo nella stessa università?
Cosa occorre veramente fare
Se il valore legale è la certificazione della qualità minima del corso di studio, questa si consegue stabilendo con chiarezza alcuni criteri il più minimali possibile sul sistema della valutazione delle università, piuttosto che congegnando un barocco sistema che intervenga sui dettagli dell'offerta formativa, come, per esempio, sui corsi e sul loro contenuto, o sulla percentuale di insegnanti che debba essere assunto tramite concorso piuttosto che con altri criteri.
A tale valutazione deve accompagnarsi una riforma drastica del reclutamento concorsuale nel settore pubblico che lasci libertà alle amministrazioni di valutare i candidati nel modo che più gli aggrada, ma stabilendo punizioni adeguate per i dirigenti reclutatori in caso di mancato perseguimento degli obiettivi. Andrebbe perciò introdotta la possibilità di licenziare i dirigenti che non riescono a perseguire gli obiettivi desiderati dall'amministrazione, ed aggiunta una buona dose di flessibilità sulle progressioni salariali e di carriera che dovrebbero basarsi non tanto sulla valutazione di una laurea conseguita anni prima, ma sulle competenze e sulla produttività dell'impiegato o dirigente.
L'obiettivo di incentivare la qualità dell'offerta didattica e della ricerca nelle università statali si persegue invece più efficacemente e direttamente intervenendo sulla concorrenza fra università cambiando drasticamente i criteri di reclutamento e compensazione dei docenti, ed i criteri di trasferimento delle risorse pubbliche alle università, per i quali certamente una valutazione da parte di un organismo competente che operi sotto il principio della peer review può essere appropriata.
Il problema principale delle università italiane non è la qualità minima, che è decente, ma la qualità massima, che non è al pari degli altri paesi avanzati. Occorre creare un vero sistema in cui le università possano competere su più dimensioni (non bisogna per forza fare ricerca ovunque), ed in cui possano emergere spontaneamente (non scelti da una commissione baronal-ministeriale) alcuni, pochi, centri di eccellenza accessibili da tutti gli studenti meritevoli indipendentemente dal reddito.
assolutamente condivisibile