Prima di rispondere alla nuova domanda, forse è meglio chiarire alcuni punti apparentemente oscuri del nostro post precedente. A leggere il dibattito che ne è seguito viene un po’ il mal di pancia ma la colpa dev'essere nostra. Evidentemente ci siamo spiegati male e non ci siamo fatti capire, riproviamoci.
Due elementi fondamentali vanno ribaditi.
1. Sostenere lo slogan “la libertà è sia esportabile che contagiosa” NON implica ritenere che, per esempio, la maniera in cui la guerra in Irak è stata condotta sia quella giusta. E nemmeno quella in Afghanistan. Infatti, non implica nemmeno ritenere che le due guerre, nella forma in cui si sono svolte e si stanno svolgendo, siano legittime e siano una buona idea. Lo slogan - che è uno slogan non scordiamolo - vuol dire che una politica attiva di sostegno dei movimenti democratici e delle rivolte popolari contro i dittatori, che abbondano nel terzo mondo ed in quello arabo in particolare, è utile e può dare dei frutti. Lo slogan vuol dire che a volte vale anche la pena di intervenire militarmente per aiutare tali domande, che esse vi sono e che anche le popolazioni di religione musulmana, nel caso specifico, esprimono domande di libertà e democrazia non molto dissimili da quelle che esprimevano le popolazioni europee un secolo e mezzo fa, decennio più decennio meno.
Il che vuol dire, fra le altre cose, che tali popolazioni sono probabilmente in grado di autogovernarsi secondo criteri vagamente “democratici” e che il loro esser musulmane non deve considerarsi di ostacolo a tale domanda/potenzialità. Infine, lo slogan vuole anche dire che l’esistenza di tale domanda di libertà e di democrazia genera un incentivo a una politica attiva in quell’area, invece di un’accettazione dello status-quo. Politica attiva vuol dire politica disposta a rischiare, talvolta anche militarmente, cercando di far cadere regimi particolarmente repressivi e corrotti nella speranza/credenza che un effetto di imitazione - questo è l'effetto domino e, francamente, alcuni dei commenti sul tema sono così fuori del seminato ed incoerenti che eviteremo di ritornarci - sia possibile e permetta un rapido cambio dello scenario politico nei paesi arabi.
Sul chi interviene, l’ ONU, la NATO, una coalizione di paesi o altro ancora, si discute sempre con grande vivacità. Qui i principi sono due, molto semplici. Il primo è che coalizioni ampie sono migliori di coalizioni ristrette. Il secondo è che aiuti che arrivino troppo tardi non servono e che c’è sempre un punto, chiaro a tutti, in cui aspettare ancora per aggregare consenso serve solo a posporre la decisione fino a quando essa diventa irrilevante. In Libia, per esempio, questo punto si è cominciato a superarlo qualche giorno fa quando un potenziale accordo si stava profilando fra i paesi NATO sulla imposizione di una no-fly zone e Gheddafi resisteva riorganizzando le proprie forze. Ora Gheddafi è all'attacco mentre l'accordo sull'intervento sembra essere evaporato. Fra una settimana, probabilmente, diventerà irrilevante e sarà troppo tardi. Noi torniamo a chiedere: se ci fosse, domani, un intervento NATO teso a garantire che l'aviazione e le forze corazzate libiche non sparino sugli insorti, non sarebbe questo un aiuto dovuto invece che un intervento imperialistico?
Infine, sul fatto che la idea di libertà sia contagiosa non ci pare che ci possano esser dubbi dopo quello che è successo negli ultimi mesi. Anche se alcuni fra coloro che agitano l’idea della libertà nel mondo (dottrina Bush) hanno altre intenzioni, le idee hanno una forza loro e continuano a marciare indipendentemente da cosa si proponeva chi le ha annunciate, magari strumentalmente, nel passato.
2. Sia ai tempi del dibattito sulla guerra in Irak, sia ora, sia, ovviamente, quaranta o sessant’anni fa quando la fase coloniale europea in quella zona si chiudeva, le “cancellerie” europee (soprattutto quelle europee; meno, e con variazioni complicate che ora riassumere in due righe non è possibile, il dipartimento di stato USA) hanno sempre guardato alle popolazioni arabe come inevitabilmente “inferiori”. Tanto per metterla semplice semplice: gli arabi sono incorreggibili goat fuckers che non si sanno autogovernare, che non possono organizzarsi, che non possono fare altro che essere gente di serie B, che capiscono solo il bastone e la carota, come gli asini. Ragione per cui vanno fatti governare da elites oppressive amiche nostre ed educate da noi o, almeno, nel nostro conto paga. Il cambiamento, da quelle parti, è cambiamento in peggio: basta vedere cos’è successo in Libia, in Iraq ed in Iran quando i nostri amichetti sono stati spodestati (rispettivamente, nel 1968, 1963-68 e 1978). Ragione per cui, quando si parla di mondo arabo, ciò che conta sono la stabilità e le relazioni diplomatico-commerciali che possiamo stabilire con il despota di turno. Il deal è chiaro, dopotutto: loro hanno petrolio e gas che possono vendere solo a noi (a dire il vero neanche questo è piu vero ed anche di questo l’Europa sembra non essersi accorta, ma andiamo avanti). Quindi basta che ci vendano il petrolio e noi gli diamo in cambio i nostri beni di consumo ed armi per opprimere le loro popolazioni. L’unica questione è il prezzo e quanto sforzo mettono nel controllare i più riottosi fra i goat-fuckers che governano. Ma questi sono affari loro, alla fine: a noi basta che arrivi l’olio. Quindi non venite a molestare con l’esportabilità di democrazia e libertà: tranquilli, tutto il Nord Africa è sotto controllo, tutto funziona bene, avanti come sempre. La posizione diplomatica europea era questa nel 2002-03, quando si opponeva all'invasione dell’Irak, lo è ora, quando si dibatte se dare o meno una mano dal cielo agli insorti contro Gheddafi, e lo era sei mesi fa, prima che tutto questo iniziasse. Tanto che si proclamava a destra ed a manca quanto bravo era diventato Gheddafi, quanto stabile era Mubarak e quanti begli affari si potevano fare con i loro regimi e con quelli dei loro colleghi. E non solo nell’Italia del bunga-bunga e delle tende beduine in piazza San Pietro e paraggi ma anche in distinti cenacoli accademici.
Tutte queste "teorie" vengono oggi radicalmente contraddette dai fatti, però occorre ricordarsi che queste, non altre, erano e sono le teorie che si contrappongono a quella che noi difendiamo, secondo cui libertà e financo democrazia sono esportabili. Detta un po' provocatoriamente: all'esportabilità di libertà e democrazia si contrappone, per il momento, la politica estera che ha in Silvio Berlusconi il suo rappresentante più coerente, anche se non il più socialmente presentabile. Prima di lui c'era Giulio Andreotti, che sembrava socialmente più presentabile.
Partiamo quindi da questa constatazione per iniziare a rispondere alla domanda che abbiamo posto nel sommario.
In questi ultimi giorni qualche giornale ha cominciato a scriverlo e persino qualche comissario europeo ne allude, ma ci permettiamo di ricordare che da qualche parte lo si va dicendo da tempo. Quanto accade in Nord Africa è la prova che il sistema della diplomazia e l'armata di “esperti” di politica internazionale europei (ed americani) che con tale sistema interagiscono sono composti di persone che, in media ovviamente, parlano a vanvera tanto quanto i macroeconomisti delle banche centrali, e forse anche di più.
L’incapacità di percepire e capire quanto andava preparandosi nel mondo arabo ha dell’incredibile alla luce degli eventi recenti. Ancor peggiore è l'incapacità di imparare dagli eventi mentre accadono. Le rivolte hanno colto tutti perfettamente di sorpresa, cosicché nessuno ha idea di chi le organizzi e guidi e di dove possano sboccare. Da qui anche, la grande paura del cambio, che attanaglia un po' tutti ma è particolarmente forte in Italia. Per 40 anni le nostre elites, con Agnelli ed Andreotti in testa, hanno fatto affari con Gheddafi e la sua cerchia ignorando il resto della Libia. Ora sono tutti terrorizzati perché non hanno la più vaga alba di chi potrebbe prendere il potere e di con che occhio guarderebbe alle imprese italiane e ai loro comportamenti passati. Questa, oltre alle relazioni personali e di affari di BS con Gheddafi, sembra la ragione principale per l'ambiguità, a esser gentili, italiana. Ma l'idea che gli interessi materiali delle elite economico-politiche italiane in Libia siano l'unica ragione dietro all'atteggiamento italiano durante queste settimane non sembra convincente perché, dalla società civile non sembra venire una visione diversa del problema. Proseguiamo, quindi.
Il fatto chiaro sembra essere che il mondo arabo è in movimento in direzioni molto diverse da quelle passate, direzioni che sino ad ora i "realisti", che dominano l'elaborazione (teorica e pratica) della politica internazionale europea ed USA, non erano neanche stati in grado di immaginare. Esattamente come non riuscirono ad immaginare il 1989 ... In opposizione alla preoccupazione per un possibile rafforzamento dell’estremismo islamico - peraltro da attendersi visto il vuoto di riferimenti alternativi che la politica "realista" di appoggio agli autocrati non può non aver determinato - questa imprevedibilità è almeno ragione di ottimismo. Gli slogan che hanno portato la gente in piazza non sono quelli del passato. Abbiamo visto zero attacchi agli USA ed al suo ruolo di Grande Satana; non abbiamo visto grandi appelli a temi religiosi; nonostante molti insistano a dire che le rivolte sono motivate dalla crescita dei prezzi dei beni alimentari, nemmeno abbiamo visto rivendicazioni esplicitamente economiche ... persino il problema palestinese (o israeliano) è al momento in secondo piano. Le rivolte nei vari paesi sono, anzitutto, rivolte per la libertà. Ricordiamo, da questo punto di vista, le rinnovate manifestazioni in Egitto o le manifestazioni in Baharain, un paese dove il reddito per-capita in PPP è uguale a quello italiano: quelli che vaneggiano di rivolte per il pane hanno qualche idea della realtà delle cose? Il movimento è di giovani, spesso anche educati, che guardano al mondo occidentale non solo con sospetto ma anche con speranza. Questo è un mondo che, probabilmente, ha visto la presidenza di Obama come una promessa di cambiamento che li riguardava nella forma di un atteggiamento diverso dell'amministrazione USA nei confronti del mondo arabo e degli autocrati che lo governano. La risposta che, sino ad ora, è arrivata da Washington non è negativa, ma decisamente ambigua ed incerta, prova che neanche all'interno di questa amministrazione si era riusciti a prevedere tali fenomeni, nemmeno fra i "possibili" piuttosto che "probabili". Il punto è che queste proteste, insurrezioni e rivolte, financo la guerra civile in corso in Libia, provano che il mondo arabo NON è popolato solo, neanche maggioritariamente, da goat fuckers, rimbecilliti adoratori di Allah e ciarlatani ultra-sciovinisti che perdon tempo nei bazaar. E questo, per l'occidente tutto ma per l'Italia in particolare, è un fatto con cui si fatica a fare i conti.
In questo quadro l’Italia ha un ruolo di speciale arretratezza, infatti un ruolo reazionario. Le uniche preoccupazioni, sia delle elites politiche che dell'opinione pubblica, sembrano essere le due seguenti. La prima, vera ma non particolarmente nuova, è quella di garantire che l’Italia non venga sommersa da immigrati clandestini. La seconda, dichiarata sempre più esplicitamente mano a mano che la situazione libica si evolve ed aggrava, è che questi avvenimenti non siano occasione per interventi occidentali, men che meno per interventi armati in cui l'Italia debba partecipare. Il messaggio che, da Berlusconi a Maroni passando per il Corriere della Sera, arrivava sino all'altro giorno dalla patria lontana era che in queste situazioni è meglio lasciar fare e dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, permettendo che il conflitto si risolva "internamente" ad ogni singolo paese, attrezzandosi per essere benvoluti da chiunque vinca. La speranza, riposta ma visibile, è che alla fine Gheddafi vinca e si torni allo status quo ante, che quello sappiamo come gestirlo. Gheddafi, che conosce i suoi polli europei e quelli italiani e francesi in particolare, non a caso sbandiera la versione brutale di questi stessi argomenti per confermare, strizzando l'occhio, che la segreta speranza è infatti ben riposta.
Vale la pena osservare, a questo punto, che le due preoccupazioni sono fra di loro in conflitto. E la speranza è sia suicida che stupida.
La ragione tattica per cui le due preoccupazioni sono in conflitto è banale: da circa un decennio Gheddafi ed il suo regime utilizzano il flusso dei disperati sub-sahariani come arma di ricatto con l'Italia. Il regime di Gheddafi gestisce quel flusso non solo per guadagnare, in stile mafioso, da questa tratta degli schiavi ma per aprire e chiudere il rubinetto delle partenze (non vi sono sbarchi in Italia senza partenze dalla costa libica) al fine di ricattare il governo italiano. Utilizzando tale strumento Gheddafi ha guadagnato aiuti, armi, forniture d'ogni tipo e contratti di favore, oltre che una sostanziale presenza finanziaria in alcune grandi imprese italiane. La crisi di questi giorni ha rivelato palesemente come l'Italia sia ostaggio di Gheddafi (fra gli altri: siamo ostaggio anche di Putin e qualcun altro, ma non allarghiamoci). A questa realizzazione la maggioranza dell'opinione pubblica italiana sembra aver reagito palesando una versione tutta mediterranea della sindrome di Stoccolma ... Invece, anche tatticamente, far fuori Gheddafi conviene! Questo è vero, in particolare, se davvero siamo timorosi del flusso d'immigranti che da lì potrebbe arrivare e che comunque continua ad arrivare. Detto altrimenti, il popolo leghista avrebbe dovuto prendere a pernacchie il signor Maroni mentre profferiva il suo demenziale discorso a Bergamo perché quella è la posizione che maggiormente li danneggia. Ma, di nuovo, che la Lega sia il cancro del Nord lo abbiamo già abbondantemente provato altrove, quindi andiamo avanti.
La ragione strategica è anch'essa banale: l'immigrazione, clandestina o meno, di masse di diseredati dal Nord Africa rallenterà solo quando vi sarà sviluppo economico vero in quelle regioni. Non estrazione di olio e gas e costruzione di palazzi e monumenti per il regime, ma sviluppo economico alla cinese o all'indiana, tanto per capirsi. Ossia, industrializzazione a mezzo di produzioni labor intensive. Questo non succederà mai, come gli ultimi 50 anni ci hanno insegnato, fino a quando i paesi del Nord Africa saranno governati dai pari di Mubarak e Gheddafi. Farli fuori è solo il primo step per poter sperare che (ed operare affinché) si instaurino in quei paesi regimi simili al cinese, se non all'indiano o al brasiliano. La questione, qui, non è illudersi che la Libia diventi la Svezia una volta fatto fuori Gheddafi ma che, semplicemente, si approssimi alla Cina di oggi o a Taiwan e alla Corea del Sud degli anni '50 e '60. Questo è il realismo che sarebbe il caso di avere e di cui, invece, la nostra diplomazia e la nostra classe politica sembrano completamente prive.
Ma questo tipo di riflessioni, in Italia, non le fa nessuno. L'unico tema a dibattito, un'autentica ossessione, è il fondamentalismo islamico, il cambio inatteso, la paura del nuovo, i goat fuckers che si agitano rifiutandosi d'obbedire agli ordini, come avevano sempre fatto. Paralizzata da queste fobie - a tutti i livelli: non si tratta solo della destra oscurantista - l'Italia fa la politica furba di far fare agli europei (criticandoli, perché non ci aiutano abbastanza, quando ci chiedono d'assumere per una volta un ruolo attivo) i quali a loro volta seguono la politica furba di far fare agli Stati Uniti (criticandoli a loro volta, se per caso qualcosa va storto). La furbizia si ammanta di alti ideali - come per esempio quello della diplomazia come metodo di risoluzione dei conflitti internazionali in alternativa allo scontro armato - e di grandi saggezze storiche - come quelle di Panebianco (il quale altro non fa in questo periodo, che dire ad alta voce ciò che 2/3 d'Italia pensa in silenzio) secondo cui le rivolte potrebbero portare al potere gente che ci vuole meno bene perché il "conflitto di civiltà", alla fin fine, c'è e non è superabile. Sino ad ora la posizione italiana più esplicitamente interventista è quella di Veltroni che ha invitato a ... scendere in piazza per fargli vedere tutta la nostra ferma risolutezza!
La nostra analisi, invece, dice che, grazie anche alla posizione assunta dal nostro paese oltre che da altri, rischiamo di avere una dittatura più sanguinaria di prima al potere in Libia assieme alla tragedia di migliaia di disperati che nei barconi fuggono verso le nostre coste.
In conclusione: la posizione del governo - condivisa, per una volta, da gran parte dell'opposizione e dell'opinione pubblica italiana - è dannosa degli interessi nazionali sia nel breve che nel lungo periodo. Essa sembra frutto, da un lato, del controllo sulle nostre relazioni con il Nord Africa esercitato da gruppi d'interesse economico che vivono al bordo fra pubblico e privato (Eni, Unicredit, Fiat, Impregilo, Finmeccanica ..) e, dall'altro, da una mistura culturale antica di timore del cambiamento, razzismo verso l'arabo, imperialismo d'accatto, malintesa furbizia e ben intesa vigliaccheria. Se le cose fossero lasciate in mano nostra sembra, insomma, che anche questa volta noi le gestiremmo con la mortale miscela di codarda miopia che ha segnato, sin dal glorioso Risorgimento, la nostra storia diplomatica e militare. Ma forse, come è successo già svariate volte nel corso degli ultimi 150 anni e segnatamente nel 1943-45, ci penseranno gli altri "partners" europei e gli USA a cavarci le castagne dal fuoco ed a proteggerci dalle tragiche conseguenze delle nostre decisioni politiche, dei nostri atti diplomatico-militari, delle nostre scelte d'alleati. Lo stellone d'Italia, probabilmente, ha le sue punte altrove: Washington e Londra, Parigi e Bruxelles e forse financo Madrid. Roma è solo il palo a cui rischia continuamente d'impiccarsi.
perfetto e convincente. Il miglior pezzo letto sull'argomento in questi giorni.