La serata al Parenti era sui brevetti e la loro inutilità o, peggio, il loro essere dannosi. Quindi, con la giornalista, abbiamo cercato di chiarire perche' siano un “diritto di monopolio” concesso dallo Stato a dei privati, i quali ottengono cosi' un “privilegio” sull’utilizzo di certe idee perché lo stato glielo concede, non perché abbiano un qualche diritto "naturale" a tale monopolio né, tantomeno, perché i brevetti siano socialmente o economicamente utili.
Infatti, mentre, da un lato, si potrebbe dire che il brevetto è un bene perché protegge l’industria e favorisce l’innovazione, dall'altro la teoria economica e l’evidenza storica dicono che i brevetti non favoriscono né lo sviluppo economico, né l’innovazione; tendono a ritardarli, quando non fanno di peggio. Per questo bisogna pensare all’abolizione dei diritti di proprietà intellettuale e dei brevetti in particolare [Nota del Redattore: come noto, Boldrin e Levine spiegano il punto nel libro "Abolire la proprietà intellettuale", recensito da Andrea qui]
I brevetti funzionano come le tariffe commerciali, le barriere doganali e in generale gli impedimenti al libero commercio. Essi favoriscono chi, in un certo paese, ha l’esclusività della produzione e della distribuzione di certi beni ma, in generale, aumentano i prezzi, riducono l’efficienza, la concorrenza, l'innovazione che crea nuovi beni e nuovi processi produttivi. Complessivamente, pur favorendo temporaneamente il fortunato che riesce ad ottenerlo, quando si generalizza il brevetto finisce per danneggiare i consumatori, gli imprenditori ed i lavoratori stessi. Classico effetto di "equilibrio economico generale" o, se volete, dilemma del prigioniero in equilibri di Nash non cooperativi: io provo a fregare tu, provi a fregare me e, alla fine, ci freghiamo entrambi alla grande.
A questo punto la giornalista mi chiede se penso che i brevetti possano essere uno dei fattori che causano il declino italiano.
Rispondo (ridendo) che nel caso italiano, andiamo ben al di là dei brevetti. Il problema dell’Italia è sistemico e dura da svariati decenni. Ripensandoci, però, mi rendo conto che, in senso metaforico, abbiamo un problema di "brevetti": sì, lasciatemi questa metafora. L’Italia è il paese dei monopoli generalizzati, dei divieti generalizzati, dei privilegi generalizzati, dell’esclusione della concorrenza, del rifiuto universalizzato di ogni forma di meritocrazia spontanea o fattuale, ossia non "misurata" a mezzo di procedure burocratiche.
In Italia è diffusa l'idea secondo cui il "concors" (tipicamente pubblico, ma non sempre) sia una maniera ragionevole (anzi la maniera "giusta", secondo alcuni) di implementare la meritocrazia. Per fare qualcosa devi passare un concorso: non solo per lavorare nel settore statale, per esservi promosso o per essere adibito a questa o quell'altra funzione. Ma anche per accedere alle professioni devi passare dei concorsi, per avere una licenza di praticamente ogni tipo, per aprire un'attività commerciale, eccetera. La lista è lunghissima. Il concorso (pubblico o meno) è l'unica forma di meritocrazia che in Italia venga accettata. L'uso generalizzato del concorso per l'allocazione della risorsa "lavoro" porta, inevitabilmente, alla costruzione di una rete impenetrabile di monopoli, personali o di piccoli gruppi. Che cosi' sia e' trasparente in affermazioni come questa, uscita dalle dita di una persona che, evidentemente, fa lavoro di cancelleria in tribunale e ritiene inaccettabile che alcuni degli ex dipendenti delle provincie possano essere spostati nei tribunali a fare il suo stesso lavoro: "I metalmeccanici non fanno i chirurghi, i ferrovieri non fanno gli insegnanti, gli impiegati generici non possono fare i cancellieri."
In Italia non conta quello che sai fare di fatto ma quello che la confraternita a cui un "concorso" ti assegna decide che sai fare. Ed il concorso in questione, ovviamente, è gestito dalla confraternita medesima: le gilde medievali, né più né meno. Ovunque.
In questa malattia che e' tutta "culturale" sta, io credo, uno dei grandi mali del paese. Perche' questa visione del mondo (che per poter fare il lavoro X occorre aver vinto il relativo "concorso" ed esserne "autorizzati" dalle "autorita' competenti") impedisce di capire che la meritocrazia si misura invece solo nei fatti, sul campo di battaglia. Il merito non e' un attributo eterno ma un risultato, che puo' mutare nel tempo. Esso si verifica solo ex-post e si misura in base a cio' che sai fare, a cio' che ottieni, produci, fai. Non con i titoli che fanno punti, non perche' "ho fatto il classico" o perche' "ho la laurea in", ma perche' "ho fatto questa cosa utile".
La meritocrazia, in particolare, implica non solo che qualcuno "vinca" ma anche che alcuni "perdano" nei fatti e debbano ricominciare, provando a fare meglio cio' che prima han fatto meno bene di altri, oppure provando a fare qualcosa di diverso. La meritocrazia coincide con la creazione distruttiva: solo competendo sul campo, provandoci e "perdendo", si impara a fare le cose bene e di puo' verificare chi sa e chi non sa, chi e' capace e chi e' solo un chiacchierone, o un privilegiato. Perche' i concorsi non solo si possono manipolare (e li manipolano i pochi individui che compongono la "commissione") ma, soprattutto, non sanno prevedere i risultati effettivi del fare concreto di un individuo. Il mercato, dove agiscono e giudicano con i fatti milioni di individui indipendenti, e' un giudice manipolabile, certo, ma molto, molto piu' difficilmente e raramente di una commissione pubblica!
In conclusione, così come in società molto più libere di quella italiana i brevetti tendono ad atrofizzare interi settori industriali e a rendere il loro sviluppo più lento, l’Italia è un paese complessivamente atrofizzato perché ha eretto il "brevetto" (ossia, l'autorizzazione burocratica, ottenuta via questo o quel tipo di "concorso") a pre-condizione per aver diritto di fare quasi ogni cosa. Questa generalizzazione del brevetto definisce una rete intricatissima di privilegi (certificati ogni volta da una particolare confraternita) che permettono ad alcuni di fare qualcosa in esclusiva e di impedire ad altri di provare a fare la stessa cosa.
Questi privilegi medievali vengono chiamati "diritti acquisiti" nella cultura italiana dominante e, giusto per essere sicuri di non deragliare dai binari del declino, essi sono considerati intoccabili. Meglio, ognuno considera intoccabile il proprio ... esattamente come nel dilemma del prigioniero. Tutti monopolisti, tutti furbi, tutti fottuti.
Non mi stupirei se per fare i cancellieri servisse qualche nozione di diritto, esattamente come per fare gli infermieri serve qualche nozione di igiene. La settimana scorsa abbiamo visto una ministra annunciare con il solito tweet il trasferimento degli impiegati delle provincie ai tribunali. A parte il fatto che i ministri dovrebbero parlare per leggi e non per tweet, non mi stupisce se una cosa del genere viene da un politico che mai in vita sua ha fatto un lavoro utile alla società e tutti i posti che ha occupato li ha occupati per cooptazione e non per competenza. Però non tutti siamo politici e dovremmo capire che i lavoratori non sono perfettamente fungibili e se i cancellieri dicono che per fare i cancellieri bisogna avere una certa preparazione, hanno ragione i cancellieri e non i politici.
Nelle cancellerie lavora personale con diverse qualifiche.
Cancellieri veri e propri, commessi, assistenti ecc. ecc. e non credo che l'idea sia di far fare agli impiegati delle province i cancellieri veri e propri, anche se non ci sarebbe nessun ostacolo in tal senso. Infatti, per fare il cancelliere non servono particolari nozioni di diritto che non possano apprendersi in un mese o due di pratica.
La sua caratteristica principale è che ha il potere di certificare ed autenticare. Ma è un potere che non deriva da particolari capacità. Semplicemente questa è la sua funzione.
E' un po' come il notaio che ha il potere di autenticare una fima.
Chiunque sappia leggere e scrivere e non sia cieco può guardare una persona in faccia, rendersi conto che quella persona è la stessa ritratta nel suo documento d'identità, e quindi concludere che la firma appena posta da quella persona è autentica.
In conclusione, non ci sarebbe nessun vero problema a permettere agli impiegati delle province di svolgere le mansioni di un cancelliere.