L'obiettivo durante la prossima legislatura deve essere quello di aggredire con la massima forza possibile il debito pubblico e la pressione fiscale. Occorre porsi l'obiettivo del raggiungimento del rapporto debito/PIL al 100% come obiettivo minimale, insistendo in particolare nel massimizzare le dismissioni di immobili attualmente usati in modo inefficiente. Per questo ci sarà bisogno di una forte volontà politica. Se il prossimo parlamento sarà pieno di gente che pensa che dismettere e privatizzare sul serio, non per finta, significa ''svendere ai predoni della tripla A'', o che ogni riduzione della spesa sia un atto di ''macelleria sociale'' allora è ovvio che non si andrà da nessuna parte. Vedremo alle prossime elezioni quanti voti le forze che hanno favorito il declino (e con tutta evidenza vogliono continuarlo) prenderanno, e quanti invece il declino sceglieranno di fermarlo.
Problemi politici a parte, ci sono legittime domande sulla fattibilità economica di un simile programma, che è bene non nascondere. Ne poniamo in evidenza tre.
1) Lo scenario presentato è uno scenario di politica fiscale cosidetta “restrittiva” in cui (in aggiunta ai provvedimenti già presi dal governo Monti) la spesa pubblica primaria viene ridotta più delle tasse, per un ammontare netto dello 0,17% del PIL per anno per 5 anni. Tale politica di bilancio dovrebbe, secondo la vulgata “keynesiana” dominante, ostacolare la ripresa, riducendo nel breve periodo il tasso di crescita del PIL reale.
2) Reperire 210 miliardi addizionali nell'arco di 6 anni mediante privatizzazioni, dismissioni e altre operazioni straordinarie può non essere affatto facile. In particolare, è ragionevole pensare che il patrimonio pubblico contenga attivi effettivamente liquidabili per tali quantità? Le fallite esperienze tremontiane con la cartolarizzazione degli immobili pubblici dovrebbe fungere da monito.
3) Mentre tagliare le tasse è politicamente facile (è difficile farlo bene, massimizzando l'impatto positivo sulla crescita, ma questo è altro discorso), tagliare la spesa lo è molto meno. Occorre pertanto mostrare in dettaglio che è possibile tagliare 5 punti di spesa primaria nell'arco di 5 anni senza provocare reazioni politiche e sociali eccessive.
Una risposta completa a queste domande richiede molto maggior spazio di quanto ho deciso di concedermi oggi: i dettagli delle risposte verranno date nelle prossime settimane man mano che svilupperemo in dettaglio il programma. Qui risponderemo brevemente al primo punto, e per non essere troppo evasivi daremo anche una risposta sommaria al secondo. La risposta al terzo punto è in realtà più politica che economica. Individuare tagli alla spesa pari al 5% del PIL che non pratichino alcuna “macelleria sociale” (anzi tutto il contrario) è perfettamente possibile (se ne è parlato in vari posti, e in particolare in questa sequenza di articoli: uno, due, tre) ma la questione di fondo è se risulterà possibile infrangere le resistenze che le varie categorie influenzate dai tagli opporranno. Qui un grosso aiuto dovrà venire dal fatto che, contestualmente alla diminuzione della spesa, ci sarà una diminuzione delle tasse. Suggerimenti addizionali si trovano nel post di Aldo Lanfranconi, che compara la spesa pubblica italiana con quella tedesca. e fornisce una stima di quanto potrebbe essere fatto rendendo la nostra spesa almeno altrettanto efficiente quanto quella di Berlino. Per andare oltre occorrono scelte tutte politiche su quali spese tagliare (non riqualificare: tagliare, dato che praticamente quasi tutta la spesa pubblica italiana deve essere riqualificata).
Riguardo l'impatto aggregato della manovra restrittiva la prima cosa da osservare è che essa è di dimensioni molto modeste e certo non comparabile alla ''cura da cavallo'' che l'economia italiana ha dovuto subire tra il 2011 e il 2012. La sequenza di provvedimenti approvati nella seconda metà del 2011 ha aumentato la pressione fiscale di più di due punti di PIL in pochi mesi, aggiungendo inoltre a tale manovra alcuni modesti tagli alla spesa. L'inasprimento della tassazione ha certamente contribuito al calo del PIL, anche se non è affatto chiaro che ne sia stato la causa principale: la restrizione creditizia in atto dal secondo semestre del 2011 ha avuto un effetto molto maggiore e infatti la caduta del PIL precede l’arrivo delle misure restrittive adottate dal governo Monti. Quella che stiamo proponendo è una riduzione di 5 punti sia della spesa primaria sia delle imposte, con un profilo leggermente più accelerato (5 anni anziché 6) per la riduzione della spesa. Questo ammonta quindi, in ogni dato anno, ad una riduzione netta della “domanda pubblica” (ossia: spesa - tasse) pari allo 0,17% del PIL Una cosa assai più blanda ma molto più sistematica e annunciata, quindi più efficace. Poiché non è ragionevole concepire che un arco di tempo di cinque o sei anni possa ancora legittimamente essere considerato il “breve periodo” di “keynesiana” memoria – in cui il livello dell’output, essendo la capacità produttiva totalmente fissa, dipende puramente dalla domanda esogena – per valutare gli effetti aggregati dell’operazione che stiamo proponendo occorre considerare non tanto la pura riduzione di “domanda pubblica” che essa implica ma anche, e soprattutto, gli incentivi ad una diversa utilizzazione delle risorse che dovrebbe indurre. Vale la pena sottolineare anche che, come conseguenza della riduzione del debito in essere, una parte sostanziale (circa il 15-20%) della minore spesa pubblica totale verrebbe da una ridotta spesa per interessi, ossia da un calo delle rendite finanziarie; questo permetterebbe ulteriori riduzioni future di imposte sul reddito delle famiglie con un effetto quindi “espansivo” sulla domanda aggregata.
Sia l’evidenza storica che la teoria economica suggeriscono che l’effetto netto di un’azione di politica economica così articolata (graduale e annunciata riduzione spesa + riduzione imposte + riduzione debito e interessi sul debito) dovrebbe essere positivo sulla crescita. Questo è particolarmente vero nel nostro caso sia per il tipo di spesa pubblica (altamente improduttiva o, più generalmente, parassitica) che si intende tagliare sia perché i tagli permanenti alle tasse dovrebbero avere un effetto più espansivo di quello (opposto) di un taglio alla spesa. Non solo: oltre ad aumentare permanentemente il reddito disponibile alle famiglie, la nostra proposta prevede anche la vendita a famiglie e imprese di beni produttivi oggi malamente utilizzati in cambio di debito pubblico. Detto altrimenti: la vendita di beni capitali, siano essi immobili o imprese, oggi mal amministrati dalla classe politica dovrebbe favorire una migliore allocazione delle risorse, un aumento della ricchezza privata e un aumento della domanda di consumi.
Inoltre la manovra di dismissioni più miglioramento dell'avanzo primario dovrebbe avere un effetto positivo, se ritenuta credibile, sul valore di mercato del debito pubblico. Questo dovrebbe sia aumentare la ricchezza “percepita” delle famiglie (i titoli di debito pubblico in loro possesso dovrebbero valere di più) sia migliorare i bilanci delle banche italiane, che di tale debito possiedono una quota sostanziale. Il primo effetto ricchezza non ridurrà di certo la domanda di consumi mentre il secondo, a nostro avviso molto più sostanziale come le recenti vicende MPS dimostrano, dovrebbe migliorare la situazione nel mercato del credito. In altre parole, una politica più credibile di riduzione del debito dovrebbe aumentare il valore di mercato dei titoli di stato, migliorando quindi il patrimonio delle banche e rendendo meno restrittivo il credit crunch che ha guidato la riduzione del PIL in corso. Da questo canale possiamo quindi attenderci una ulteriore spinta espansiva anche nel breve periodo. La conclusione è che non è irragionevole ipotizzare che una operazione di politica di bilancio del tipo da noi ipotizzato dovrebbe stimolare, anziché sfavorire, la crescita del PIL, anche guardando unicamente agli effetti sulla domanda aggregata.
Veniamo ora al secondo punto: è effettivamente possibile ottenere entrate straordinarie per 35 miliardi l'anno per 6 anni, per un totale di 210 miliardi? C'è molta incertezza sulla valutazione del patrimonio pubblico ma anche mantenendo stime molto conservative la risposta è sì. Occorre però avere una volontà politica ferrea nel portare avanti l'obiettivo. Questo obiettivo, in verità, è probabilmente quello su cui più forti saranno le resistenze da parte della casta e delle attuali élites politico-economiche, che hanno già iniziato il fuoco di sbarramento contro la ''svendita allo straniero''. E si capisce benissimo perché: basta rileggersi le intercettazioni di Belsito e con la sua intenzione di farsi mandare ''in Eni, però meglio alla Rai, alle Poste''. Se Eni, Poste e Rai, vengono privatizzate, dove si farano mandare i tanti Belsito che ancora allignano nella politica italiana? Bisogna infatti essere estremamente chiari su una cosa: per raggiungere l'obiettivo occorre procedere senza alcuna timidezza sia alla privatizzazione delle imprese in mano allo stato sia alla dismissione massiccia del patrimonio immobiliare pubblico. Chi pensa di cavarsela vendendo solo gli immobili, e magari solo quelli che interessano poco ai politici, sta solo facendo melina e non è serio.
Ma quanto vale il patrimonio immobiliare pubblico, e quanto di esso è effettivamente vendibile? Di preciso non lo sa nessuno, ma le stime esistenti puntano a numeri sostanziali. Uno dei massimi esperti della materia è Edoardo Reviglio, che durante la scorsa decade ha curato il progetto di compilazione dello stato patrimoniale della repubblica. Nel corso di un seminario tenuto presso il Cnel lo scorso giugno, Reviglio ha riportato una stima del patrimonio ''fruttifero'' dello Stato di circa 700 miliardi. Una buona parte di questo patrimonio (risorse naturali, varie infrastrutture) non è cedibile e molti immobili sono occupati da amministrazioni pubbliche. La ''parte libera'' di immobili effettivamente vendibili è stimata intorno ai 42 miliardi (Reviglio parla nella sua relazione di un valore tra 40 e 50 miliardi). A questi si aggiungono gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il cui valore totale viene stimato in 150 miliardi. Anche in questo caso non tutti gli edifici sono vendibili, ma in molti casi gli immobili hanno smesso di avere caratteristiche di edilizia popolare e la loro vendita può rappresentare un miglioramento sia per lo Stato sia per gli inquilini (secondo la Corte dei Conti, citata da Reviglio, il 50-60% degli edifici non ha più caratteristiche di edilizia popolare). Difficile qui mettere un numero esatto. Il rapporto Astrid (purtroppo accessibile solo mediante password, non capisco bene perché) stima in 30 miliardi l'ammontare ottenibile dall'edilizia pubblica. Aggiungendosi ai 42 miliardi di parte libera questo porta il totale ottenibile mediante la dismissioni di immobili a 72 miliardi.
È possibile che tale cifra possa essere aumentata includendo altri immobili non inclusi nel rapporto Astrid o che Astrid stima possano essere dismessi solo in un periodo di tempo più lungo. Il punto principale in questo caso però non è se la valutazione è di qualche miliardo in più o in meno, dato che comunque sono stime molto aleatorie e che tali resteranno finché gli immobili non inizieranno a essere effettivamente venduti sul mercato. Il problema principale è che la proprietà immobiliare pubblica è estremamente dispersa e frazionata fra i vari enti pubblici. Per esempio, secondo Reviglio solo 7 miliardi, dei 42 di ''parte libera'' di immobili, appartengono allo stato centrale. Qui la parte del leone la fanno i comuni, con 25 miliardi. Questo significa in sostanza una cosa: qualunque processo di dismissione del patrimonio immobiliare non può che essere un lavoro di lunga lena. Si dovrà intrecciare con l'attuazione di una vera riforma federalista che dia incentivi (o, se questi non bastano, imponga) agli enti locali di vendere gli immobili e terreni liberi a fronte di riduzione del loro debito. Si dovrà inoltre collegare ad una operazione di rigorosa classificazione e valorizzazione del patrimonio pubblico, che elimini sprechi e inefficienze.
Tale processo è solo iniziato e prenderà tempo, ma può essere accelerato e i tempi non devono essere biblici. Il rapporto Astrid, per esempio, stima in 100-120 miliardi il patrimonio immobiliare vendibile solo da parte degli enti locali su un arco di 10 anni; un governo fortemente determinato può accelerare il processo e portarlo a compimento entro la prossima legislatura. Ed è probabile che alla fine si scopra che il valore degli immobili vendibili è ben più alto. Un rapporto meno recente dell'Istituto Bruno Leoni e della Fondazione Magna Carta, che si basava su stime precedenti dello stesso Reviglio, forniva una stima molto più sostanziosa del patrimonio immobiliare alienabile: 420 miliardi di euro (stima 2008). La differenza tra le due stime deriva semplicemente dal fatto che quella inferiore tiene conto soltanto degli immobili attualmente non utilizzati o sgomberabili facilmente, l'altra considera invece tutti gli immobili tecnicamente alienabili (cioè, per capirsi, esclude il Colosseo, la Torre di Pisa, il Quirinale …). Tenendo conto della possibile razionalizzazione dell'uso degli uffici pubblici (che andrà incontro alle resistenze degli attuali occupanti: al potere politico piace lavorare nei più prestigiosi edifici delle città italiane) e della possibilità di vendere immobili di pregio per ricollocare le funzioni pubbliche in immobili più periferici (da acquistare o affittare, escludendo operazioni di lease back che si sono rivelate in molti casi la grande madre di tutte le prese in giro), e tenendo conto del calo del mercato immobiliare negli ultimi anni, probabilmente la cifra realisticamente ottenibile sta da qualche parte nel mezzo: diciamo attorno ai 150-250 miliardi di euro. Nel mezzo sta il valore di 200 miliardi, che sembra un ragionevole ed abbondante punto di riferimento.
Come precedentemente osservato, gran parte di questi immobili sono in mano agli enti locali che, a legislazione vigente, non possono essere costretti a vendere. Questo è un ostacolo, e rende il processo più lungo, ma non è un ostacolo insormontabile. Una possibile via d'uscita può essere la costituzione di una serie di fondi chiusi, la cui gestione andrebbe delegata a terzi selezionati con procedure a evidenza pubblica e con remunerazione collegata alla performance (per esempio sotto forma di percentuale sulla differenza tra i valori di realizzo e un target price), in modo da procedere a una valorizzazione efficiente. Ma questi sono problemi su cui si può poi ragionare con più calma. Quello che ci interessa qui sottolineare è che l'obiettivo di 105 miliardi di dismissioni immobiliari complessive in 6 anni non dovrebbe essere impossibile da raggiungere, e anzi ci sono ragioni per pensare che si possa fare parecchio di più. Dato che comunque le cose non vanno fatte con fretta eccessiva e dato che abbiamo deciso di mantere una linea di prudenza, manterremo a 105 miliardi la stima delle dismissioni immobiliari, assumendo che si concentri negli anni tra il 2016 e il 2018.
Restano da individuare 105 miliardi da realizzare tra il 2013 e il 2015. Lo studio Astrid stima in 30 miliardi la somma che può essere raccolta valorizzando le concessioni dello Stato. Occorre indagare meglio come si è giunti a tale cifra, ma per il momento assumiamo prudenzialmente che solo la metà, 15 miliardi, sia effettivamente realizzabile. Astrid, fra le fonti una tantum che ritiene si possano utilizzare, elenca un accordo fiscale con le autorità svizzere che ammonterebbe (al di là delle belle parole) all’ennesimo condono fiscale. Non avendo simpatia per i condoni, che il declino anziché fermarlo tendono ad accentuarlo, preferiamo escludere quei soldi dal conto. Un accordo fiscale con le autorità svizzere forse bisogna farlo, ma senza che assuma la forma del condono e senza che debba essere considerato un’operazione straordinaria (segnaliamo comunque che lo studio di Astrid prevede di raccogliere 13,5 miliardi tramite il condono; Brunetta, che evidentemente è persona molto ottimista, pensa di poterne raccogliere 25-35, anche se non si sogna di spiegare la fonte di tanto ottimismo).
Se 105 miliardi sono reperibili dalla vendita di immobilii e altri 15 da concessioni, per arrivare a 210 mancano 90 miliardi. Per reperirli, occorre mettere mano alle partecipazioni dello stato nelle imprese, arrivando fino alle partecipate degli enti locali. La stima che offre Astrid è di 40 miliardi, ma in questo caso è chiaro a nostro avviso che di tratta di una brutale sottostima. La cifra infatti include soltanto le partecipazioni quotate (ENI, ENEL, Finmeccanica, StMicroelectronics, stimate in 25-30 miliardi) ai valori di borsa correnti, oltre alle società da cedere alla Cassa Depositi e Prestiti (10 miliardi, ottenuti con la cessione di SACE, Fintecna e Simest). Quest’ultima proposta (perseguire e rafforzare la politica tremontiana secondo cui trasformare la Cassa DD.PP. in un’enorme holding finanziaria di stato sarebbe equivalente a “privatizzare”) è ancora peggio, molto peggio, della continuazione della politica dei condoni. Ragione per cui (ripromettendoci di ritornare alla prima occasione sulla questione Cassa DD.PP. e di come mantenerne in mano pubblica quel poco di utile che ha e può fare, privatizzando il resto) calcoliamo semplicemente che se 10 miliardi si possono raccogliere “trasferendo” proprietà industriali pubbliche alla Cassa DD.PP. certamente almeno 10 miliardi si possono raccogliere vendendo quelle stesse proprietà sul mercato. I 40 miliardi stimati da Astrid non includono la cessione del controllo. Una politica di vendita più aggressiva, che non abbia alcun timore di vendere a gente con religione, colore della pelle o nazionalità differente e che miri all'uscita completa dello Stato da imprese come ENI o ENEL (si può ragionare sul valore strategico di mantenere il controllo italiano di Finmeccanica, ma comunque è una piccola parte della torta), può portare a valori di realizzo nettamente più alti di quelli stimati da Astrid. Stimare ex ante il valore del premio per il controllo è sempre complicato. Qui saremo un po' meno prudenti e stimeremo in 10 miliardi addizionali il potenziale introito.
Ci sono poi le società non quotate, una lista che comprende Poste, Ferrovie, e Rai e varie altre. Edoardo Reviglio riporta che il patrimonio netto di queste società è di 27,5 miliardi (si veda la slide 10), ma questo valore esclude le Ferrovie dello Stato. Se aggiungiamo a quanto discusso sino ad ora un'azione decisa sulla vendita di almeno alcune partecipate degli enti locali, in cui si annidano grosse inefficienze e odiosi favoritismi, riteniamo che l'obiettivo complessivo possa essere raggiunto nell'arco di tre anni. Anche per aziende che richiedono processi di riorganizzazione interna e liberalizzazione dei rispettivi mercati si può immaginare un orizzonte temporale di 6 mesi-1 anno a seconda della complessità del caso. Per essere onesti è ovvio che vari margini di incertezza sussistono, sia per l'entità del premio di controllo che può essere ottenuto per le società quotate sia per il valore concreto a cui si possono vendere le società non quotate, ma i dati indicano che il valore atteso degli attivi cedibili può essere più alto di 90 miliardi con alta probabilità. Le sorprese sono possibili, ma sia in negativo sia in positivo.
Possiamo quindi concludere. Sì, un altro rapporto debito/PIL è possibile, ed è anche possibile avere al contempo un fisco assai meno esoso nei confronti dei lavoratori e delle imprese. È raggiungibile anche in uno scenario abbastanza prudenziale in termini di valutazione del patrimonio pubblico cedibile e del livello di entrate straordinarie e persino assumendo che misure di questo tipo non abbiano, come invece tutto suggerisce dovrebbero avere, un effetto positivo sulla crescita economica. Se si scoprirà che il patrimonio cedibile vale più di quanto qui prudenzialmente stimato occorrerà applicare il massimo di pressione politica perché si venda comunque tutto il vendibile e si utilizzi il ricavato per accelerare ulteriormente la riduzione del debito. Se la crescità, grazie alle riforme, risulterà superiore a quella delle ipotesi FMI occorrerà di nuovo applicare il massimo di pressione politica per evitare che si usi il maggior gettito fiscale per evitare di tagliare le spese, puntando invece a ridurre ancor di più la pressione fiscale. Se terremo la barra dritta, i risultati possono essere non solo soddisfacenti, come nel nostro scenari prudenziale, ma eccellenti.
È, ripetiamo, questione di volontà politica. Trovare la maggioranza sociale e politica che porti all'imbocco deciso di questa strada sarà il compito dei prossimi mesi.
Finalmente il dettaglio.
bene mettere le dismissioni immobiliari a partire dal 2016 perchè la faccenda è intricata. oltre a reviglio, ricordo anche un'intervista a visco che diceva più o meno le stesse cose aggiungendo che molti immobili erano beni strumentali tipo ospedali caserme ecc.
ok privatizzare rai poste ferrovie e partecipate. immagino che accanto alla vendita ci saranno anche provvedimenti volti a liberalizzare il mercato e regolare i conflitti d'interesse.
ENI, in misura minore ENEL, e finmeccanica. ho già scritto nell'altro post le mie perplessità al riguardo. Lanfranconi ne ha aggiunte altre che trovo sensate.
quello che continua a non convincermi del tutto è però altro. Oggi non è che ci siano tanti compratori in giro.nel report che ho precedentemente linkato ,si afferma che l'anno scorso nel mondo i ricavi da privatizzazioni sono stati 90 mld di $. noi vogliamo farne 35 mld di euro con questa congiuntura.spero di sbagliare, ma mi sembra veramente ottimistico.Se i ricavi fossero tipo 20 mld di euro, che si fa? c'è un piano b?
Ci sono tante cose che possono andare storte. La crescita del PIL in qualche punto della prossima legislatura può essere nettamente inferiore a quella ipotizzata. Ci può essere un'improvvisa fiammata nei tassi d'interesse. L'Europa può chiederci di contribuire all'aiuto finanziario a qualche altro paese, come ha fatto per la Grecia. Qualche paese del Nord-Africa o del Medio Oriente può esplodere creando un'emergenza umanitaria/militare. E poi il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette ....
Il rischio che le dismissioni e privatizzazioni non rendano quanto previsto c'è sempre. Abbiamo volutamente mantenuto una linea di valutazione prudenziale e abbiamo cercato di essere il più realisti possibile, ma nessuno può dire con certezza quanto vale un immobile o il premio di controllo di un'impresa finché non si prova veramente a vendere queste cose. Che si fa se gli introiti sono inferiori a quanto atteso? Lo stesso che si fa in tutti gli altri casi in cui le cose vanno peggio di quanto previsto. Si prende atto che gli obiettivi stabiliti, nell'arco di tempo stabilito, non sono raggiungibili e si cerca, in base alle nuove informazioni, di formulare un nuovo piano.
Al momento direi che se uno qualunque degli shock avversi sopra descritti si materializzasse sarebbe necessario posticipare nel tempo l'obiettivo di riportare il rapporto debito/PIL a livelli ragionevoli. Non è bello, ma neanche una tragedia. Se gli shocks sono positivi (crescita più alta, tassi più bassi, introiti da privatizzazioni e dismissioni superiori) invece si accelera.
Lasciami dire però che le preoccupazioni su quanto si può incassare dovrebbero secondo me essere di secondo piano rispetto alle preoccupazione per le resistenze politico/amministrative al progetto.
Il vero pericolo per questo piano è che i politici e tutto il mondo burocratico che dalla proprietà pubblica degli immobili e delle imprese traggono notevoli vantaggi si oppongano sia attivamente sia passivamente al progetto, creando enormi ostacoli a ogni passo (esempio: ogni progetto di dismissioni deve necessariamente iniziare da un censimento accurato del patrimonio pubblico, che richiede la collaborazione delle varie amministrazioni dello stato; che si fa se qualcuno inizia a ritardare?). Rispetto a questo, il rischio di incassare (molto) meno di quanto ipotizzato mi pare decisamente di rango inferiore.