Le fondazioni bancarie furono la risposta italiana alle richieste europee di liberalizzazione, in previsione dell'unificazione dei mercati dei capitali europei nel 1992. La repubblica italiana aveva ereditato dal fascismo un sistema bancario essenzialmente pubblico, e tale realtà non venne cambiata nel dopoguerra. Quale fonte di potere e di malsani intrecci fossero le banche per il sistema politico della prima repubblica è cosa ben nota. Non c'è quindi da stupirsi per gli insistenti tentativi di preservare tale potere, anche a fronte delle spinte liberalizzatrici provenienti dall'Europa.
Qualcosa andava fatto, ma cosa? Come eliminare la proprietà pubblica delle banche mantenendone al tempo stesso il controllo da parte dei politici? La quadratura del cerchio avvenne con la cosidetta Legge Amato del 1990. La logica può essere brevemente spiegata come segue. Le banche divenivano normali società per azioni, il cui controllo era quindi in principio contendibile (cioè ottenibile attraverso l'acquisto sul mercato di una quota maggioritaria). Ma dei congrui pacchetti azionari, tali da garantre il controllo, venivano conferiti a delle fondazioni. Le fondazioni, come noto, sono enti che vengono formati mediante conferimento di un patrimonio. Tali enti sono vincolati per legge e statuto nel tipo di uso che possono fare del proprio patrimonio e del reddito che esso genera. Sono inoltre controllati da un comitato di gestione secondo modalità previste dallo statuto della fondazione stessa. Nel caso delle fondazioni bancarie, molti degli amministratori sono tipicamente nominati da comuni, province, camere di commercio e altri organismi pubblici o semipubblici, il che significa che in larga misura tali enti sono controllati dal sistema politico.
Il punto cruciale è che, a differenza delle società per azioni, le fondazioni non sono contendibili. Mentre è concepibile che una società quotata in borsa possa essere scalata da qualcuno che ha un patrimonio sufficiente e decide quindi di acquisire una quota maggioritaria della proprietà, nulla del genere è possibile con le fondazioni. Il patrimonio della fondazione è indivisibile ed è controllato dagli amministratori, e gli amministratori sono nominati a norma di statuto (questo, per inciso, vale non solo per le fondazioni bancarie, ma per tutte le fondazioni, non importa quanto minuscole). Quindi, se si vuole acquisire il controllo di una fondazione bisogna impegnarsi in giochetti di corridoio e in congiure di palazzo, influenzando gli enti che nominano gli amministratori. Si tratta, come è facile capire, di un terreno sul quale i nostri politici si trovano assai più a proprio agio.
Quindi, riassumendo: le banche sono in principio contendibili, ma le fondazioni ne possiedono quote significative mediante le quali esercitano il controllo. Non essendo le fondazioni contendibili, anche le banche da esse controllate finiscono per essere non contendibili. Il loro controllo resta quindi, seppur in via indiretta, nelle mani dei politici.
Vi sono stati ripetuti sforzi, tipicamente su istigazione europea, per ridurre la quota di proprietà bancaria detenuta dalle fondazioni. In effetti ora quasi nessuna fondazione possiede quote maggioritarie delle banche controllate. Per contrastare tale possibile aumento della contendibilità il sistema politico ha però agito in due direzioni. Da un lato, le fondazioni hanno incrementato l'acquisizione di pacchetti azionari di altre banche, oltre alla banca di riferimento, il che ha generato intrecci dal difficile scioglimento (esempi più concreti a breve). Dall'altro, il mondo politico è sempre stato pronto a intervenire in tutte le occasioni in cui le oscillazioni dei corsi azionari hanno reso realistico un cambiamento di controllo. Per esempio, immediatamente dopo l'esplosione della crisi nel settembre 2008 vennero proposte varie misure per rendere più difficili le scalate delle società quotate (tra cui ovviamente le banche), e l'orientamento anti-scalate sembra continuare a caratterizzare l'azione della Consob sotto Vegas.
Per avere una idea di quali siano gli intrecci tra fondazioni e proprietà delle banche, è utile guardare all'assetto proprietario di alcune tra le principali banche. Se guardiamo all'assetto proprietario della Banca Intesa San Paolo (si veda pag. 20 della relazione), ad esempio, osserviamo che le fondazioni continuano a essere estremamente presenti:
Proprietario |
Percentuale cap. ordinario |
Compagnia San Paolo | 9,888% |
Crédit Agricole SA | 4,996% |
Assicurazioni Generali SpA | 4,973% |
Fondazione CariPaRo | 4,924% |
Fondazione Cariplo | 4,680% |
Ente C.R. Firenze | 3,378% |
Blackrock Inc | 3,179% |
Fondazione C.R. BO | 2,734% |
Carlo Tassara SpA | 2,504% |
Non solo quindi la fondazione di riferimento (la Compagnia San Paolo) detiene circa il 10% dei diritti di voto, ma una quota anche superiore è detenuta da altre fondazioni. Uno schema simile si osserva a Unicredit, dove il principale azionista è Mediobanca ma varie fondazioni detengono quote significative. Piú semplice la situazione al Monte dei Paschi di Siena, dove (si veda pag. 7 della relazione) la relativa Fondazione possiede la maggioranza assoluta del capitale votante.
Come e da chi vengono nominati gli amministratori di una fondazione? Anche qui è utile guardare ad alcuni esempi. Per esempio, la Compagnia San Paolo ha 21 consiglieri, in maggioranza nominati da enti pubblici quali comuni, regioni e camere di commercio (si veda l'art. 8 dello statuto a pag. 9). La Fondazione Cariplo ha un consiglio di amministrazione nominato da una Commissione Centrale di Beneficenza, con 20 membri espressione degli enti locali e 20 nominati dagli enti più vari (ci stanno pure la diocesi di Milano e i rettori delle università lombarde, si veda l'art. 11 a pag. 4). E così via. Una noterella divertente, e che testimonia l'attenzione ossessiva con cui il mondo politico segue le vicende delle fondazioni bancarie, è data dalla fibrillazione che colpì il mondo politico ad agosto quando, in una delle innumerevoli versioni delle manovre estive, si ventilò l'ipotesi di abolire le province con meno di 300.000 abitanti. Risulta infatti che tali province controllano circa 50 poltrone nei consigli di amministrazione delle fondazioni bancarie. La provincia di Rovigo, tanto per dire, nomina tre seggi su 28 del Consiglio della Fondazione Cariparo (il ''paro'' sta per Padova e Rovigo). La quale a sua volta, ci informa l'articolo del Sole, controlla il 4,18% di Intesa Sanpaolo e l'1,03% di Cassa Depositi e Prestiti. Insomma, non son proprio noccioline. E infatti, non appena si sono prospettate le minacce alla Pax Bancaria, i progetti di abolizione delle province sono immediatamente rientrati. La Lega Nord, ricorderete, fu la più decisa nell'opporsi al progetto. In effetti dev'essere dura vedersi portar via il pasto caldo proprio quando ci si è riusciti a sedere alla tavola imbandita. Ma la Lega è solo l'ultima arrivata, la presenza dei principali partiti (di destra e di sinistra) è assai diffusa e pervasiva.
Che fanno le fondazioni, oltre a gestire il potere che deriva dal controllo delle banche? In teoria, tante belle cose, promuovendo attività culturali, sociali e chi più ne ha più ne metta. Quanto efficientemente lo facciano, è discutibile. Roberto Perotti aveva sollevato il problema qualche anno fa, mostrando come soprattutto nelle fondazioni più piccole i costi di gestione fossero assolutamente esorbitanti. Non mi risulta che da allora sia successo gran ché.
Anche ignorando le critiche alla gestione, comunque, la seguente questione va posta: in un momento in cui tutti beneficeremmo grandemente da una riduzione dello stock del debito pubblico, non è il caso di destinare il patrimonio delle fondazioni bancarie a tale scopo? Intendiamoci, come discuteremo più approfonditamente nell'articolo successivo il patrimonio delle fondazioni bancarie da solo non sarebbe determinante per la soluzione del debito pubblico italiano. Occorre ovviamente in primo luogo arrivare al pareggio del bilancio, principalmente mediante riduzione della spesa corrente, e occorre intraprendere altre misure di valorizzazione e dismissione del patrimonio pubblico in modo da intaccare seriamente il livello del debito e ripristinare la fiducia dei mercati. Ma all'interno di tale strategia, una forte imposta patrimoniale sulle fondazioni bancarie può giocare un ruolo importante.
Perché una patrimoniale sulle fondazioni bancarie è di gran lunga preferibile a una patrimoniale su famiglie e imprese? Per tre ragioni strettamente economiche, oltre che per una ragione di carattere etico.
La prima ragione economica è che una tassa sulle fondazioni non avrebbe gli effetti di disincentivo sul risparmio che avrebbe invece una tassa patrimoniale su famiglie e imprese. Il patrimonio di famiglie e imprese deriva infatti, in larga misura, da decisioni di risparmio passate. Un aumento della tassazione sul patrimonio inevitabilmente scoraggia il risparmio e l'accumulazione del capitale. Da un lato, sempliceemente, ci può essere minore risparmio, dall'altro il risparmio sarà con maggiore probabilità portato all'estero (cosa che si può fare legalmente). Inoltre, verrebbe scoraggiato l'afflusso di capitale dall'estero: a nessuno piace portare soldi in un paese in cui ogni tanto, senza preavviso e in modo arbitrario, il governo decide di prelevare una fetta del capitale. Quanto siano forti gli effetti di disincentivo è difficile dire, ma anche se fossero assai deboli la verità è che nessuno di questi effetti si verifica nel caso delle fondazioni bancarie. Il patrimonio di tali fondazioni infatti non deriva da decisioni individuali di risparmio ma è il risultato di decisioni amministrative. Una tassazione dei patrimoni delle fondazioni si tramuterebbe quindi in un trasferimento netto allo Stato, senza effetti distorsivi.
La seconda ragione economica è che una sostanziosa imposta patrimoniale costringerebbe le fondazioni bancarie a disfarsi dei propri pacchetti azionari delle banche. È probabile che questo riapra la competizione per il controllo delle banche stesse, e la competizione per il controllo aumenterebbe il valore delle azioni; questo sarebbe un indubbio beneficio per tanti piccoli risparmiatori. Inoltre, è abbastanza noto che il sistema bancario italiano non brilla per efficienza, un fatto che viene pagato soprattutto da chi consuma i servizi delle banche. Le idiozie sulle magnifiche banche italiane che ''non parlano inglese'' sono durate lo spazio di un mattino, e la realtà ha fatto rapidamente capolino. Un cambiamento di controllo, con l'entrata di nuove competenze manageriali, può quindi condurre a un aumento di efficienza del sistema bancario.
Infine, la terza ragione economica è che una tassa sulle fondazioni bancarie sarebbe un segnale importante per i mercati, assai più di altri tipi di tasse. Segnalerebbe infatti che il sistema politico è serio riguardo alla riduzione del debito, e in particolare che è disposto a privarsi dei privilegi che tanto danno hanno fatto al paese. Sarebbe, insomma, un segnale forte come sarebbe quello della vendita della Rai, un modo rapido per guadagnare credibilità.
La ragione etica è semplice, ed è legata al terzo punto enunciato poco sopra. Nei momenti difficili, quando si richiedono sacrifici al paese, le classi dirigenti devono dare il buon esempio. Se occorre intervenire sulle pensioni, bisogna prima abolire i vergognosi trattamenti previdenziali riservati ai parlamentari. E se bisogna intervenire con un'imposta straordinaria sui patrimoni per abbassare il debito, i patrimoni controllati dalla elite politico-economica vanno colpiti prima dei patrimoni dei comuni cittadini. Finora nulla di questo è stato fatto, e i cittadini hanno sempre pagato per primi. Anche quando i nostri politici hanno tentato di usare toni populisti, hanno sempre avuto cura di non toccare i veri interessi che stanno loro a cuore. L'esempio più lampante è quello della maggiorazione IRES per le banche (la mal chiamata ''Robin Hood tax''). Si tratta di un'imposta che alla fine colpisce principalmente i piccoli risparmiatori e (tramite traslazione) i consumatori, lasciando intatto quello che veramente interessa ai politici: il controllo del sistema bancario. È tempo di farla finita con questi trucchetti da circo, se non si vuole che alla richiesta di sacrifici la popolazione risponda con la rivolta. I sacrifici quindi inizi a farli la casta. Poi se ne parla.
Per una volta non sono molto d'accordo con Sandro, per vari motivi, che elenco rapidamente
i) il problema italiano non è il deficit ma il livello di spesa pubblica. Abbattere il deficit con nuove tasse, per di più una tantum, avrebbe effetti recessivi molto gravi. Sarebbe necessario ridurre strutturalmente la spesa pubblica attesa nel lungo periodo (innalzando l'età pensionabile e riducendo gli stipendi degli statali p.es.) e compensare con misure anticicliche a breve (p.es. aumentando l'importo della cassa integrazione o distribuendo sussidi)
ii) ridurre lo stock di debito diminuirebbe la spesa per interessi, con l'effetto indesiderato di ridurre i già scarsi incentivi a tagli strutturali.
iii) una patrimoniale sulle fondazioni ne ridurrebbe le risorse e quindi la possibilità di contribuire pro quota agli aumenti del capitale delle banche indispensabili per far fronte al collasso dell'area euro. L'alternativa sarebbe un intervento diretto statale - ancora peggio
iv) forzare le fondazioni a vendere titoli bancari deprimerebbe le quotazioni degli stessi, con risultati disastrosi a breve
In sostanza, a mio avviso la proposta di Sandro potrebbe andare bene in momenti normali ma rischia di essre disastrosa in una situazione di crisi come qualla attuale
Giovanni, sui punti i) e ii) ho risposto a Christian sotto. Sugli altri punti ti chiedo di portar pazienza e aspettare il prossimo articolo (spero di farcela per la settimana prossima), in cui discuterò di questi temi. Riprenderemo la discussione allora.