Marco: mi piacerebbe chiarire assieme alcuni aspetti cruciali dell'enciclica da te trattati un po' sbrigativamente nell'articolo introduttivo. Mi riferisco al concetto di carità avanzato dal papa, e a come si rapporta con l'economia ed il mercato. Tutta l'enciclica è fondata sull'idea della carità, che secondo il papa dovrebbe informare tutte le relazioni sociali. La prima cosa che salta agli occhi è la genericità di questa definizone di carità, che risulta accessibile nel suo senso dottrinario, peraltro interno alla dogmatica cattolica, ma è senza significato al di fuori di quelli. Mi piacerebbe capire se è accettabile sostenere che sia possibile costituire delle interazioni economiche informate ad un principio di carità. La prima difficoltà, però, è capire cosa si intende appunto per carità.
Andrea: L'enciclica lo definisce abbastanza bene al punto 6. Si tratta di disfarsi di qualcosa di proprio a beneficio altrui. Banalmente, si tratta di pagare 15 euro una maglietta venduta per 10 se si ritiene che il venditore/produttore della maglietta si trovi in condizioni economiche ingiuste. In realtà il papa cerca di sostenere che si tratti di qualcosa di più, perchè così come l'ho messa io sembra beneficenza. Il termine carità forse ha i caratteri di una liberalità incondizionata, mentre la beneficenza si esercita a capriccio dei singoli, e comunque slegandola dalla realizzazione di valori morali o credenze metafisiche che sottostanno l'idea di carità che invece il papa difende. Sarò un praticone, ma non vi trovo grosse differenze dal punto di vista di chi riceve.
Marco: in realtà la differenza fra carità e beneficenza c'è ed è sostanziale. La carità aspira ad una integralità che misure di aiuto come quelle delle istituzioni benefiche in genere neppure si propongono: agli occhi dei credenti la beneficenza senza fede è qualcosa di meno nobile. Se le due cose non fossero distinte non avrei problemi ad accettare che la carità rientri nelle possibili forme di interazione fra individui, che possono benissimo votarsi alla beneficenza: in realtà quando il papa parla di carità mi sembra ambisca a qualcosa di molto più esigente della generosità esercitata dai singoli secondo una loro personale discrezione. Aggiungo, peraltro, che nel noto passo evangelico del ricco che chiede a Gesù cosa debba fare per raggiungere la vita eterna, avendo già adempiuto a tutti gli altri precetti, Gesù stesso risponde che dovrebbe vendere tutto quello che ha e dare il ricavato ai poveri ... Come sappiamo, il giovane ricco se ne andò via comprensibilmente intristito, ci dice il Vangelo. La Chiesa si è ben guardata dallo sposare un'attitudine simile a quella di Gesù nei riguardi della gestione della ricchezza, la sua in primis.
Il punto che sollevo non è tanto quello di questionare la coerenza di un'intera istituzione, bensì richiamare l'impossibilità di un modello di sviluppo economico, che si definisce "altro" ma non è realmente praticato neppure da coloro che lo predicano ... semplicemente perchè insostenibile! Sarebbe importante capire se è vero che organizzare gli scambi economici intorno a tale concetto morale potrebbe arrecare addirittura meno vantaggi di quelli che si realizzano in assenza dello stesso. La carità che effetto produce sui prezzi e le quantità prodotte? Un innalzamento o un abbassamento? Cosa succede al benestare economico delle persone quando tutti diventano "caritatevoli"? E dove si situa il punto ottimale in cui questa carità è realizzata? Chi deve decidere i limiti e le forme di questa carità?
Andrea: è difficile rispondere a questa domanda perché, di solito, assumiamo le preferenze come date. Il papa sembra auspicare un cambiamento delle preferenze attraverso l'inclusione del benessere altrui nelle preferenze di ciascun individuo. Se le preferenze cambiano, l'esito di mercato sarà diverso, ed in un certo senso non sarà comparabile con l'esito risultante dalle preferenze originarie. Se il papa riuscisse a convincere tutti gli imprenditori che i dipendenti vanno pagati di più - supponiamo questa sia una delle implicazioni della carità - allora le aspirazioni del papa verrebbero realizzate e tutti sarebbero contenti (perché queste aspirazioni sono condivise) anche se il tasso di rendimento del capitale ed il profitto imprenditoriale diminuirebbero. Sia chiaro: dovrebbe convincere gli imprenditori ad accontentarsi di meno ed a produrre ed innovare tanto quanto ora. Idem per i dipendenti: pur guadagnando di più indipendentemente da quanto lavorano (perché l'imprenditore è caritatevole) dovrebbero fare gli stessi sforzi che fanno ora, almeno. In quel caso di certo tutti sarebbero contenti. Non "più" contenti, perché non c'è confrontabilità di preferenze, ma contenti e la carità sarebbe realizzata: quindi anche il papa sarebbe contento, mentre ora non lo è, sembra. Il problema è solo pratico, non di principio.
Marco: rimane però il fatto che, se tutti aderissero all'idea di carità che il papa propugna, si otterebbe sì un modello funzionante di economia ma non desiderabile sul piano pratico. Quel progetto funzionerebbe al prezzo di ridurre tutti alle stesse motivazioni morali, un esito che confliggerebbe non solo con la constatazione che le persone sono diverse e hanno preferenze morali diverse. Quella speranza cozzerebbe pure con l'aspirazione (normativa) che le differenze morali fra cittadini si mantengano a un livello tale da rendere le interazioni fra questi interessanti ... cosa che verrebbe meno se si imponesse un modello di interazione dove tutti giudicano dell'interesse delle cose a partire da una medesima metrica. Non so neppure come potrebbe avvenire uno scambio in queste condizioni: quale idea di vantaggio dovrei conseguire nello scambiare un bene e acquisirne un altro? E se tutti siamo contenti di quanto abbiamo e parchi e sobri, cosa cercherremmo? Le uniche trasformazione estetiche e tecnologiche sarebbero vincolate alla maggior gloria di Dio e della nostra fede in Lui: il commercio e gli scambi si farebbero solo per avere stoffe lussuose per i paramenti; le tecnologie edilizie sarebbero giustificate per innalzare cattedrali sempre più alte...è un periodo storico che abbiamo già vissuto quello!
Andrea: credo di averlo accennato nell'altro articolo: come ci deve comportare in un mondo in cui tutti sono perfettamente altruisti? Non mi è chiaro. Non ha neanche tanto senso porre la domanda. Occorre porre alcuni punti fermi, come suggerisci tu: nel mondo esistono diversità di preferenze, e, aggiungo, anche diverse capacità e aspirazioni. Questo induce naturalmente disparità economico-sociali. Il papa dovrebbe spiegarci quanto e fino a che punto queste siano da lui accettabili, visto che ammette, fra le righe, che totale uniformità nei risultati non sia né raggiungibile né auspicabile. Però non è detto che tutto si fermerebbe: magari, per sentimento di carità, si continuerebbero a fare invenzioni (perché sono benefiche ai nostri simili ed a noi) ed a creare cose nuove (similmente: perché piacciono agli altri), e così via. Tu capisci che, quando la si interpreta in modo ottimista ed estensivo, la nozione di carità permette ... miracoli.
Marco: la cosa che mi colpisce è che voi (economisti intendo) non possiate escludere con certezza che il ricorso a motivazioni moralmente connotate come quelle che adduce il papa producano esiti che sono sempre migliori di quelli che si genererebbero nel caso di scambi liberi fra cittadini.
Andrea: anche se la carità che il papa auspica si realizzasse gli scambi sarebbero liberi. Lui desidera semplicemente che cambino le preferenze ed i valori di tutti. Che, insomma, si realizzi l'universale "voemose ben". Io non dico che sia realista, infatti auspica un miracolo in senso stretto. Dico solo che non è illogico.
Marco: da quello che intuisco i cittadini potrebbero usare qualunque motivazione nel determinare cosa vogliono e perchè lo vogliono, ma all'atto della transazione dovrebbero identificare il loro interesse con quello della controparte. Giusto? Pensi che questo sarebbe un sistema economico "migliore"?
Andrea: per la valutazione di cosa sia "migliore" serve una metrica comune, ossia delle preferenze stabili. Per il papa questa metrica c'è: è quella di Dio, metrica che lui afferma di conoscere e diffondere. È certamente possibile che in un mondo in cui tutti sono altruisti si producano meno beni e servizi che in un mondo di egoisti, oppure di più. Ma questo non significa che nel secondo mondo si stia meglio (peggio) che nel primo. "Altruismo" e "Egoismo" sono componenti della metrica che usiamo per valutare quanto bene si sta, e non ha senso valutare l'esito in un mondo con la metrica dell'altro. Certo l'enciclica è sorpendentemente cauta e mai ammette che l'egoismo negli scambi individuali produca esiti efficienti, nemmeno si sofferma sui caveat teorici di tale affermazione. Il mio prof di Equilibrio Generale, David Cass, diceva che quanto insegnava poco avesse a che fare con il mondo reale. In realtà io non mi finisco mai di sorprendere quanto efficiente sia il mercato azionato dall'egoismo individuale. Ma qui entriamo nei giudizi personali.
Marco: a dire il vero non credo che in merito all'egoismo quella del papa sia una cautela reale. Essa è piuttosto la manifestazione di una certa idea di antropologia; secondo questo modo di intendere l'uomo, i suoi tratti negativi devono sempre essere sublimati o in un progetto salvifico, che ha bisogno però della Grazia divina per compiersi, o in un progetto umano integrale realizzato compiutamente da valori esterni all'uomo e predicati in forme non del tutto accessibili alla sua ragione privata, benchè universale. Serve sempre un magistero o una tradizione per definire quegli stessi valori...l'accesso ai quali è però strettamente presidiato.
Andrea: credo tu stia cogliendo nel segno. Io che non ho fatto il liceo la metterei in questi termini: la chiesa non può permettersi di ammettere che, per gestire il sistema economico, basti il mercato, regolato e scevro di posizioni monopolistiche, come ho sostenuto nel mio articolo. Non può farlo perché se così fosse verrebbe meno il suo ruolo. E allora via con la necessità di altruismo, di carità, etc... Non solo, la caritas di cui il mondo ha bisogno è in veritate. Insomma, solo loro sanno dirci qual'è quella giusta. Ma secondo me stiamo andando fuori tema.
Marco: sono d'accordo, a parte la cosa del liceo (comunque statale e non dei preti). Ma torniamo all'auspicio papale di una condivisa coordinazione intorno a fini sociali considerati desiderabili. Io associo questo auspicio ad una forma di costruttivismo sociale spinto per cui, stabiliti i fini (nel caso dell'enciclica del papa sono fini religiosi, ma una qualunque ideologia laica potrebbe assumere fini etico-politici come la società degli eguali e così via), questi si possono sempre realizzare a patto che, come il cavallo della Fattoria degli Animali di Orwell, si lavori sempre di più per raggiungerli, e a patto che tutti credano in quell'obbiettivo (per la cronaca: il cavallo muore di crepacuore).
Andrea: vediamo se ho capito bene. Senza pretendere di parlare per l'intera categoria degli economisti (faccio fatica a parlare per me stesso), assumiamo che la chiesa scelga un punto nell'insieme delle possibilità di produzione (scusa il gergo, intendo un'allocazione delle risorse raggiungibile usando le conoscenze e la tecnologia disponibili). Assumiamo che per mezzo di encicliche il papa riesca a convincere tutti che questa allocazione sia quella moralmente desiderabile. Se tutti diventano convinti, il problema è risolto, si raggiunge questo punto prima producendo le risorse necessarie, e poi redistribuendole come richiesto. In un certo senso non è nemmeno necessaria l'unanimità. Quale sarebbe il tuo dilemma?
Marco: ammettiamo che sia un bene convincere moltissimi della bontà delle tesi espresse in un'enciclica. Non stiamo parlando di convincere tutti, come è ragionevole pensare, di adottare un insieme di regole del gioco condivise su come rendere l'esito delle interazioni accettabile e prevedibile; no, stiamo proprio parlando di definire l'insieme di credenze specifiche che gli agenti dovrebbero adottare al momento di partecipare agli scambi. Insomma, non stiamo parlando delle procedure generali, stiamo invece prescrivendo le motivazioni morali accettabili negli agenti in misura tale da rendere decente l'esito di tutti gli scambi. Questa è una follia, secondo me. Le circostanze abituali della politica ci parlano di disaccordi persistenti, sopratutto in campo morale; e ci dicono anche che queste forme di disaccordo non solo sono, a quanto ne sappiamo, inevitabili, ma costituiscono anche un bene che andrebbe preservato. O no, o pensi il contrario? Quindi c'è questo punto della non fattibilità pratica di una misura del genere, fondata com'è sull'idea troppo esigente di una condivisione di specifici contenuti morali. Ma, ripeto se anche fosse possibile, una cosa del genere non mi affascinerebbe.
Andrea: tutta questa parte è irrilevante, tu capisci? Lui è il papa e crede in Dio, o almeno così dice. Dio gli ha detto certe cose. A te no. Il dio di Ratzinger è uno con i gusti strani e vorrebbe che gli umani vivessero in un modo che a te non piace? Possible, ma è tutta una questione di gusti soggettivi. E lui è Dio ...
Marco: veniamo allora all'aspetto che tu dovresti illuminarmi da economista. Il ponte fra le mie ragioni narrative e l'economia sono le parole di Kant che esalta il ruolo del disaccordo nel miglioramento delle condizioni umane ... pressapoco dice che laddove noi ci sforziamo di creare una condizione di pace, la natura interviene a porre a un'inevitabile discordia. Ecco, la competizione fra soggetti motivati non moralmente, ma interessati a realizzare ricchezza e successo materiale, soprattutto comparativamente ai propri vicini di banco e poi ai propri vicini di casa, è o no un motore ineliminabile per la creazione della ricchezza? È possibile che lo stesso livello di creatività, ricchezza e dinamismo che si creano in una azienda motivata da profitto, espansione delle sue quote di mercato e via dicendo, si produca anche in una comunità che persegua l'obiettivo della carità? E allora se è così, perchè fra le più grandi aziende mondiali, non figurano i frati del convento x che produce miele o medicamenti naturali? Neanche quella è la comunità caritatevole pienamente realizzata? E allora quale lo è?
Andrea: sono personalmente d'accordo che l'unanimità delle preferenze, anche solo su un ambito ristretto come quello della redistribuzione delle risorse, sia irrealizzabile e forse inauspicabile. Ma, ripeto, il papa non chiede cotanto. Chiede solo che si diventi tutti altruisti e caritatevoli, non che tutti amino lo stesso tipo di marmellata. Son due cose diverse. Diamo quindi un po' di corda al papa e assumiamo che voglia convincere tutti che sarebbe desiderabile un mondo con meno disuguaglianze di quelle che abbiamo oggigiorno (quante meno? da definirsi). Diciamo un mondo in cui nessuno muoia di fame. Io direi che, anche senza encicliche, siamo quasi all'unanimità su questo. Il problema è come realizzarlo questo mondo. Il papa sembra spingere sull'anelito morale degli investitori. Non so, è una questione di priorità e di visioni dell'uomo. Non è che la sua strada sia senza speranza: lui deve ritenere che sia possibile convincere la gente di seguire i precetti che lui indica. Negli USA abbiamo abbondanti esempi di imprese che pubblicizzano l'assenza di child labor nei loro prodotti, esito di una massiccia campagna di boicottaggio da parte dei consumatori, che non sono tutti no-global. Insomma campagne di questo genere in parte funzionano. Io sostengo che sarebbe più utile spingere per l'abolizione dei monopoli anche a livello sovranazionale.
Marco: qui il discorso si complica per le mie competenze...ma provo lo stesso. Intanto non è sempre vero che l'abolizione del lavoro minorile possa essere inteso come un elemento assolutamente e indiscutibilmente positivo. O meglio, come obbiettivo è ragionevole e sacrosanto, lo condivido del tutto. È noto che le stesse ONG che lavorano per l'abolizione del lavoro minorile si scontrano con l'opposizione dei genitori dei bambini, amorevoli con i loro figli almeno quanto lo erano i miei bisnonni che mandavano i miei nonni a lavorare nei campi seppure giovanissimi. Cerca di comprendere che non giustifico il lavoro minorile, dico però che in certi contesti il bambino che non lavora non è che poi se smette di cucire palloni allora va a scuola! Anzi, impoverisce sè stesso e la sua famiglia di una fonte di reddito. Eppure una posizione di principio, deontologica, vorrebbe che si proibisse quel tipo di lavoro e basta, senza considerare le conseguenze dell'applicazione di quel principio...ma alle volte la sola affermazione di un principio non risolve la questione pratica, che è quella di una infanzia che vive in modo differente in parti diverse del mondo; il lavoro minorile era una cosa molto comune nell'Italia del Sud (ed anche in parti di quella del Nord) fino a non molto tempo fa. Tutto questo per dire che se andassimo in certi quartieri del terzo mondo e proponessimo una cosa tipo "da oggi non lavora più nessuno fino a 18 anni compiuti" non staremmo affrontando i problemi.
Andrea: ho proposto l'esempio riguardante il lavoro minorile solo per evidenziare che in certi casi campagne promosse "dal basso" funzionano in maniera piuttosto efficace. Ma sono d'accordo con te: proibire il lavoro minorile rischia di danneggiare, probabilmente danneggia, gli stessi individui che si intendono beneficiare. Io credo che l'enciclica avrebbe potuto essere più chiara su questo. Per esempio avrebbe potuto dire: "gran parte della crescita dell'economia e dei consumi occidentali degli ultimi 40 anni è dovuta al trasferimento della produzione in aree del globo dove si può produrre manifatture a costo enormemente più basso, magari con l'uso di lavoro minorile, che riteniamo, con gli standards odierni, inaccettabile. Pretendere di imporre ai paesi in via di sviluppo standard etici che noi stessi ignoravamo mezzo secolo fa può sembrare una forma inopportuna di colonialismo culturale (non dimentichiamo che, ignorandoli, noi ricchi occidentali abbiamo potuto crescere agli attuali livelli di benessere). Ma perché la scelta deve essere fra fame e lavoro minorile? In un'ottica altruistica, non potremmo privarci di un po' del nostro benessere per permettere ai paesi in via di sviluppo sia crescita che assenza di lavoro minorile?" Un discorso del genere porrebbe le basi per un ragionamento serio. Immagino già i tuoi dubbi: cosa fare se non possiamo né vogliamo imporre coercitivamente l'altruismo? Rispondo io: scriviamo encicliche e invitiamo noi ricchi ad essere più altruisti. Non c'è niente di male a farlo. Cerchiamo poi di congegnare istituzioni che, facendo leva sull'altruismo, possano incentivare modelli di sviluppo e autosostentamento dei poveri. Il movimento del commercio equo e solidale e delle banche etiche cerca di fare proprio questo, io credo. Nell'altro articolo sono stato un po' ingeneroso con queste iniziative, che cercano di supportare imprenditorialità e lavoro nei paesi in via di sviluppo. In questo senso si inseriscono perfettamente nella logica di mercato. La critica al mercato dell'enciclica - e di tutta la sottocultura no-global e dell'equo/solidale - è fuorviante e rischia di fare danni. Io credo che il mercato sia perfettamente in grado di sollevare i poveri dal sottosviluppo. L'altruismo, al massimo, può accelerare il processo, magari riducendo alcuni costi di transizione (come il lavoro minorile, ma questo è solo un esempio). Se l'enciclica dicesse questo più chiaramente, la troverei condivisibile.
Marco: scusa se insisto, ma dal punto di vista della tua disciplina, non ci sono ragioni o evidenze che ci mettano innanzi ai rischi dell'altruismo?
Andrea: certo, esistono almeno due tipi di rischio. Se non tutti diventano altruisti, ma solo i ricchi, nei destinatari delle donazioni c'è il rischio che si creino forme di dipendenza o che, peggio, gli aiuti vadano dirottati o sprecati. Quanti degli aiuti ai paesi del terzo mondo sono finiti per finanziare guerre tribali? Ma il papa vuole che tutti diventino altruisti, inclusi dittatori e satrapi africani presumo, quindi questo rischio, nella sua teoria, non si pone. Il secondo rischio è che il ricco altruista, non trovando diretto vantaggio del proprio lavoro, finisca per avere meno incentivi a produrre ed innovare; questo finisce poi per essere svantaggioso anche per i poveri. Questo è certamente possibile quando l'aiuto ai poveri avviene attraverso forme di tassazione inefficienti; non voglio dire che l'altruismo "di stato", gli aiuti ai paesi poveri, non abbia un suo ruolo, ma certamente esistono costi in termini di efficienza da non trascurare. In questo senso, bene fa il papa a rivolgersi soprattutto agli individui: un invito a donare, ma anche a continuare a lavorare come prima. Quest'ultima parte non la dice esplicitamente ma è ovvia. Insomma, se la cosa funzionasse come la concepisse lui ... funzionerebbe. Poi c'è il rischio vero, ma di quello parliamo dopo.
Marco: quello che posso aggiungere io è che da un lato mi preoccupa l'idea che il prezzo da pagare per realizzare una supposta concezione morale dell'economia sia la riduzione delle credenze degli agenti economici ad un set predefinito di opzioni (credere in ciò che la Chiesa nel suo magistero e attraverso la tradizione presume essere "Carità"). In più aggiungo che se si verificasse anche un caso, ne basta uno solo, in cui una transazione operata a mezzo di moventi egoistici fosse più accettabile per la parte materialmente meno avvantaggiata della transazione (che si presume sia la parte della cui cura intende farsi carico la Chiesa nella sua prospettiva "sociale") allora, per mantenere in piedi la prospettiva della carità ammannita dalla chiesa, bisognerebbe sostenere che può/deve esistere un punto di vista esterno alla transazione che stabilisca quando è bene affidarsi alla Carità e quando dovrebbero invece intervenire valutazioni di diversa natura, come quelle egoistiche. Questo aspetto secondo me svela qualcosa...solleva implicazioni pratiche inquetanti. Esso chiarisce che la Chiesa intende perseguire concezioni di giustizia sociale formulate intorno a principi, come quello della Carità, che si fondano su uno specifico trade off fra la libertà degli agenti e la realizzazione di quella giustizia, nel mio discorso di sopra questo trade off si palesa qualora si converga che il modello di economia sociale cattolica funzionerebbe se e soltanto se tutti aderissero a quella dottrina stessa, condividendone i fini e i valori. Inoltre si solleva un problema di paternalismo, perchè la transazione sarà assoggettata ad un criterio univoco di "giustizia": come possiamo ritenere una cosa del genere fattibile o addirittura buona per la società? Dovremo forse proibire quelli che Nozick chiamava "atti capitalistici fra adulti consenzienti"? Dal punto di vista dell'autorità monocratica della Chiesa poi non è difficile immaginare chi dovrà assolvere a quella missione...
Andrea: ma non sei disposto a concedere la bontà di tentativi di moralizzazione che potrebbero condurre ad esiti effettivamente più preferibili per tutti? Se il papa vuole scrivere un enciclica in cui tutti siamo esortati a quello che lui crede essere il bene, che problema c'è? A mio avviso c'è solo UN grave problema: le prediche del papa sarebbero un bene (o, almeno, non un male) se l'uomo (inteso nel senso degli esseri umani) fosse questa creatura plasmabile, modificabile, "ingegnerizizzabile" che il papa ha in mente. Uno che cambia di preferenze, desideri, istinti e valori fondamentali a base di prediche. Se così fosse, bene. Ma se così fosse, anche il socialismo ed il comunismo avrebbero funzionato; ed anche san Francesco: a quest'ora saremmo tutti frati minori. Apparentemente non lo siamo e, apparentemente, l'uomo NON è quella creatura plasmabile che il papa vorrebbe che fosse. Qui viene il rischio: cosa succede quando predichi delle cose impossibili, spacciandole per possibili? Cosa succede quando prescrivi ad un gatto stitico la medicina adatta a curare la stitichezza d'un elefante? Rischi di fare guai in quantità industriale.
Marco: su questo siamo in accordo. Il papa non soltanto si affianca alle molte voci esistenti e basta: propone un certo modello di società che condivide alcuni tratti idealtipici di forme di pensiero totalizzanti e pianificatrici che emarginano la libertà dei singoli subordinandola alla realizzazione di un certo progetto etico/politico. Io ho ragioni di tipo normativo che mi inducono a essere molto sospettoso della preferibilità di società informate a principi ispiratori risolutivi dell'autonomia individuale ed escludenti. In più con te ho cercato di capire se le buone intenzioni del papa potessero essere meglio soddisfatte assumendo moventi umani non nobili ma capaci di produrre una maggiore creazione di benessere. Dal punto di vista del metodo considero invece pericoloso che si possano affrontare i problemi semplicemente professando una fede su come le cose dovrebbero essere, e ribadendo che la fonte di legittimazione della propria azione coincide solamente con la messa in atto di un principio, peraltro svincolato dal confronto con gli altri.
Andrea: sono questioni difficili, non vorrei rischiare di ripetere la ritrita conversazione fra teenagers che discutono di The Matrix: se nella Matrix sono tutti contenti, facciamo del bene o del male a rivelargli che è tutta una finzione?
Marco: tu hai preso la pillola blu? E quella rossa? Il punto è capire dove, nelle credenze nostre e altrui, inizia la realtà rispetto alla finzione, anche riguardo le finzioni nobili e moralmente ristoratrici, e sopratutto comprendere se i sogni di alcuni possono diventare incubi per tutti gli altri. Io comunque vado per la pillola rossa, che delle pillole blu posso ancora fare a meno...
Andrea: certo, pillola rossa. Senza rimpianti.
Non credo che quello che si trovi nell'enciclica riguardi l'unanimità delle preferenze. Il mondo è bello perché è vario e nella Chiesa trovano spazio una molteplicità di voci e di modi di intendere la realizzazione della volontà divina sulla terra.
Se così non fosse, d'altra parte, sarebbe ben difficile giustificare la molteplicità di ordini religiosi :) Se la volontà di Dio si realizza sempre in un solo modo, perché disturbarsi con tutte queste differenze?
Allo stesso modo la carità. Non credo che vivere la carità cristiana debba intendersi come avere una scala di preferenze fissa, quanto piuttosto come un metodo per riuscire a ottenere quelle preferenze.
Esempio scemo: la carità non mi può dire se preferire mele o pere, ma mi dice che quale sia la mia preferenza non devo soddisfarla rubando.
Allo stesso modo, un sistema capitalistico "virtuoso" è assolutamente in accordo con i principi di carità: uno degli esempi che mi viene in mente è proprio Ford (non era cattolico, ma non vuol dire che non fosse una brava persona) e il suo progetto per rendere il suo prodotto accessibile alle masse è sicuramente conforme a questi principi. Si entra in un circolo virtuoso di cui beneficiano anche gli altri, e di certo non si può dire che Ford l'abbia fatto per beneficenza.
Però.. oggi fare quello che ha fatto Ford non avrebbe lo stesso significato e non sarebbe altrettanto caritatevole perché se ne conoscono i "side-effect". Insomma, il discorso é complicato e sicuramente affrontato poco e male nelle sedi cattoliche preposte, ma di sicuro carità non vuol dire scala di preferenze fissa ma vuol dire agire con un certo metodo.