D.L. Fallimenti: che c'è di buono e che c'è di cattivo (Seconda Parte)

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In questa seconda parte, dopo una breve descrizione delle caratteristiche e del funzionamento del concordato preventivo, analizzo le principali innovazioni apportate dal decreto. Ne emerge uno scenario senz'altro migliorato, ma ancora pieno di incertezze regolamentari: spicca in particolar modo l'assenza di meccanismi per l'accountability dei curatori fallimentari e i rflessi dannosi che questa assenza determina sul funzionamento di tutte le porcedure, anche non strettamente fallimentari. 

Veniamo ora al secondo argomento di questo mio breve scritto: le innovazioni apportate dal D.L. ‘83/2015 alla legislazione fallimentare (linko nuovamente il testo della riforma per comodità di consultazione) e in particolare alle norme sul concordato preventivo e sulla curatela fallimentare.

Innanzitutto, cos’è il concordato preventivo? Il concordato è un accordo con il quale l’imprenditore che non è in grado di pagare tutti i propri debiti ottiene dai creditori uno “sconto”. Quest'accordo, però, ha una caratteristica peculiare: vincola anche i creditori che siano dissenzienti (e che quindi si vedranno espropriati di parte delle proprie legittime pretese) purché la maggioranza assoluta, al contrario, sia favorevole. Proprio in virtù di questo esproprio (che nella prassi si attesta tra il 70 e il 90% del capitale dovuto), la legge prevede delle complicate procedure il cui controllo è affidato al giudice e ai suoi fiduciari (commissario, perito, liquidatore giudiziale), volte ad assicurare principalmente la serietà e la fattibilità della proposta del debitore (cosiddetto “piano concordatario”). Laddove tali procedure si concludano positivamente e l’accordo venga poi rispettato, il debitore sarà liberato in maniera definitiva e avrà evitato il fallimento. Il concordato esiste nelle varianti “in continuità” o “liquidatorio”, a seconda che l’impresa, in seguito alla procedura, prosegua la propria attività o la cessi.

Fatta questa breve descrizione, occorre poi fare alcune considerazioni preliminari:

  • Quantunque ormai sconfessato dallo spirito della legge, l’approccio di molti operatori italiani al default dell’imprenditore conserva un’impronta moralistica, per la quale il debitore che non paga è in qualche modo indegno e, probabilmente, delinquente;
  • Quest’approccio impedisce di separare concettualmente e praticamente la sorte dell’imprenditore (con ciò intendendo la persona fisica dell’imprenditore oppure dell’amministratore, ove si tratti di società di capitali) da quella dell’impresa.

Da ciò deriva, ahimè inevitabilmente, che:

  • il fallimento viene ancora inteso come una “punizione” dell’imprenditore incapace di adempiere ai propri impegni:
  • erogata la "punizione", a nessuno più interessa la sorte dell’impresa, dei suoi creditori, dei suoi dipendenti. Essi sprofondano in una sorta di dimenticatoio affidato alle cure di soggetti legalmente irresponsabili, che fanno il bello e il cattivo tempo senza risponderne che a Domineddio (nella misura in cui ci credano);
  • il fallimento diviene totalmente inutile per il raggiungimento del fine del pagamento almeno parziale dei creditori (fine che ogni procedura di questo genere dovrebbe, per definizione, avere);
  • il concordato preventivo transita, per conseguenza, dall'originale funzione di strumento di rivitalizzazione dell'azienda in crisi a scappatoia per evitare la devastazione del fallimento (con ciò generando la prassi dei concordati irrealizzabili, a volte veri e propri casi di accanimento terapeutico quando non addirittura di millanteria).

E, naturalmente, ci troviamo davanti a un cane che si morde la coda: quanto più il fallimento “fallisce” nell’obbiettivo di rimborsare almeno parzialmente i creditori, tanto più si tenderà a ricorrere al "concordato a tutti i costi" sperando di raggranellare qualche spicciolo; quanto più si ricorrerà al concordato in casi disperati, tanto più aumenterà il numero di fallimenti le cui risorse saranno state completamente sperperate nel vano tentativo di un impossibile salvataggio.

La riforma del Governo Renzi interviene prevedendo:

1)      La possibilità, per i creditori rappresentino più del 10% del totale, di proporre un proprio piano concordatario alternativo a quello del debitore;

2)      L’obbligo di “aprire” a possibili offerte concorrenti il piano concordatario predisposto dal creditore, laddove questo preveda la cessione a terzi di assets;

3)      Alcune facilitazioni in favore dell’impresa che, nelle more della procedura, voglia procurarsi nuova finanza;

4)      L’introduzione di una soglia minima di soddisfacimento dei creditori (il 20%) al di sotto della quale il concordato liquidatorio non potrà più andare e l’eliminazione del meccanismo di voto basato sul silenzio-assenso;

5)      Nuove regole in materia di nomina dei curatori fallimentari e di liquidazione fallimentare.

Alcune delle misure sono abbastanza ragionevoli e tengono ben conto della prassi delle ristrutturazioni, altre risultano velleitarie, rilevanti, infine, sono gli aspetti trascurati.

La possibilità, ad esempio, che dei semplici creditori propongano un proprio piano concordatario alternativo - privi come sono di dettagli ed esperienza sulla specifica impresa  - è fantascienza pura: i creditori, nel mondo reale, normalmente si limitano a disinteressarsi dell'azienda finita in default. L’unica tipologia di stakeolder sufficientemente informata per farsi avanti sarebbe quella dei lavoratori (in grado di fare valutare correttamente il rischio d’impresa, specie se guidati da un management capace). Proprio loro però sono esclusi dalla possibilità di partecipare alla formulazione di piani alternativi, a meno di non essere disposti a rinunciare alla protezione speciale che la legge gli riconosce (anche nel concordato i crediti da lavoro non possono subire lo “sconto”, ma vanno pagati integralmente). Insomma chi avrebbe i denti è privato del pane: un vero peccato visto che il gran parlare di disoccupazione avrebbe dovuto immediatamente suggerire l'idea di incentivare i lavoratori a divenire imprenditori (anzichè attendere il sussidio di disoccupazione).

Ottima è invece l’idea di rendere obbligatoria la competizione tra compratori quando si tratta di vendere singoli asset, aziende o rami d’azienda, poiché un conto è elaborare un intero piano, altro è valutare un singolo asset. L’interesse alla massimizzazione del valore realizzabile per i creditori è senz’altro meglio soddisfatto ricorrendo a procedure competitive: in precedenza, al contrario, non essendovi obbligo d’asta, poteva accadere che l'imprenditore tendesse a collocare gli asset a soggetti “vicini”, in tal caso addirittura avendo un obbiettivo interesse a minimizzare il prezzo di cessione.

Le facilitazioni all’ottenimento di nuova finanza si tradurranno, con buona probabilità e nonostante i buoni propositi, in un buco nell’acqua: bisogna tuttavia essere equanimi e riconoscere che la legge non può (a meno di stanziamenti di risorse o altre incentivazioni “reali”) indurre i mercati a finanziare controvoglia le aziende in ristrutturazione, specie alla luce della regolamentazione di vigilanza sul rischio di credito ulteriormente aggravata negli ultimi due anni (trattandosi però di altro e differente argomento ne parlerò altrove, se vorrete). Più di così, dunque, non si poteva fare sul punto.

L’introduzione della soglia minima del 20% può essere letta da due angolazioni diverse: da un lato essa potrebbe essere intesa quale giusta discriminazione tra concordato liquidatorio (nel quale, ripeto, non vi è continuazione dell’impresa e prevale dunque il fine di rimborsare i creditori auspicabilmente con più di quattro soldi)  e concordato in continuità (continuità alla quale si “immolano”, quindi, i creditori e le loro pretese); dall’altro la si potrebbe giudicare come una limitazione arbitraria della libertà negoziale dei privati (se i creditori ritengo la percentuale riconosciuta troppo bassa possono pur sempre votare contro no?). A voi decidere quale sia la prospettiva più corretta.

È invece obbiettivamente inopportuna l’eliminazione del “silenzio-assenso”: mentre finora il creditore dormiente veniva considerato favorevole al concordato, d’ora in poi il debitore dovrà ottenere l’esplicito “ok” della maggioranza assoluta dei creditori, pena la bocciatura. Questa novità non aumenta in alcun modo le tutele dei creditori, mentre rende concreto il rischio di mercato del voto e "ricatto" al debitore allorché questi sarà costretto a bussare di porta in porta e far di tutto pur di raggiungere la fatidica soglia del 50% + 1.       

Arriviamo infine alla vera occasione persa con questa riforma: ancora una volta i curatori fallimentari escono indenni da qualsiasi intervento realmente significativo.

E già, perché il vero motivo per cui il fallimento è strumento che mai ha generato risultati per i creditori (se non di limitatissimo valore e dopo anni di frustrante attesa) è che, nel nostro ordinamento, il curatore fallimentare in carica è “irresponsabile”. Non conto balle, è proprio così, avete capito bene: alla persona del curatore non si può far causa, non se ne può criticare l’operato, non si gli si può addebitare alcuna responsabilità; egli è libero di sbagliare, perder tempo, fare danni, dovendo solo stare attento a tenersi buono il giudice che l’ha nominato (lascio a voi immaginare i rischi di azzardo morale e di cattura del "regolatore-giudice" che questa incredibile situazione comporta).

Ebbene, a questo stato di fatto non si è ritenuto di dover porre alcun rimedio, se non prevedendo il divieto di nominare curatore chi abbia già svolto incarichi concernenti la stessa impresa (prima si poteva!) e l’obbligo di liquidare (cioè vendere) il patrimonio del fallito entro 2 anni.

Attenzione al dettaglio: 2 anni per vendere il patrimonio del fallito, non per pagare i creditori.

Che lor signori aspettino, che fretta c’è?

 

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Spezzo "un' arancia"a favore della categoria dei curatori, a cui, in un lontano passato, sono appartenuto; se ciò che scrivo è "aggiornato" a quando ho smesso di curare fallimenti (9/1992), e superato, ne chiedo scusa e la cancellazione:

1) il curatore è un pubblico ufficiale: sembra un privilegio, in realtà è un danno, viste le fattispecie penali a cui il curatore, anche involontariamente, si può esporre;

 

2) la liquidazione dell' attivo: se trovo nel patrimonio fallimentare un appartamentino occupato di 45 mq a Roma, zona Tor Bella Monaca (diciamo zona degradata, tanto per competere con l' eufemismo di Di Gaetano sull' opacità dei rapporti giudice-curatore), debbo intraprendere un' asta, a tutt' oggi, mi risulta, sottomessa al vergognoso istituto dell' offerta di sesto; se trovo il penny black, bene mobile non registrato, lo vendo a trattativa privata.

Aste snelle tipo Christie' s sempre e comunque, no ? Anche per superare l' italico mito della prevenzione assoluta del male, impossibile, che poi si unisce alla sua impunità a posteriori;

 

3) i compensi: percentuali ridicole rispetto all' attivo, peggiori rispetto al passivo: ma, se il curatore ha la fortuna (!) di trovare astronomiche sanzioni fiscali al passivo, probabilmente più del suo compenso deriverà dal passivo (soldi mancanti) che dall' attivo;

 

4) (estensione del precedente) perchè io curatore dovrei darmi da fare per resistere a pretese, anche molto resistibili, di insinuazione al passivo ? Dovrei lavorare e faticare per diminuire il mio compenso ? Tanto ho prelazione su quasi tutti: il conflitto di interessi, in Italia, è come il vestito blu: si porta sempre;

 

5) nomina dei periti: altro che opacità ! Il curatore suggerisce, il g.d., spesso, avalla; al prossimo fallimento, ruoli invertiti tra perito e curatore: capito, giovani aspiranti curatori, quante belle porte vi si chiudono in faccia ? Perchè un perito "che si sa muovere" raggranella paghe orarie che il curatore si sogna, e senza un milionesimo delle sue responsabilità.

 

 

 

Ma poi viene fuori il fatto che il papà di tutta questa disciplina, il R. D. 16/3/1942 n° 267, è stato ideato dal fascismo: sproloqui su tutti i testi di diritto fallimentare riguardo alla funzione sociale della tutela della par condicio creditorum, e roboanti richiami al sempreverde italico statalismo. Il curatore deve lavorare per i creditori ? E perché non dovrebbero eleggerlo e pagarlo direttamente proprio loro ? Così casi "opachi" in cui i giudici di Perugia debbono rivedere le bucce di quelli di Roma forse non ci sarebbero. Nel frattempo riduciamo i poteri del g. d. e del tribunale, e rendiamo un po' più vincolanti i pareri del comitato dei creditori. Certo, però, bisognerebbe dare un po' di ragione a noi quattro coglionacci liberisti ...