Perchè gli imprenditori non investono?

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Simone Cabasino

Ma è vero che gli imprenditori in Italia non vogliono investire nell'innovazione? e perchè? Vogliono fare del male a se stessi o al paese?
I rapporti fra innovazione e imprese pubbliche, i benefici dei meccanismi di contribuzione alle imprese, contratti di lavoro e meritocrazia visti nell'ottica di chi vuole innovare

Questo articolo è nato come una breve risposta a Marco Cattaneo (http://www.roars.it/online/nel-paese-dei-camerieri/) e si basa su fatti ed esperienze concrete per  spiegare quali siano i fattori che ostacolano l'innovazione in Italia. L'autore ha lavorato per molti anni come primo ricercatore dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e poi come imprenditore nel settore "Hi-Tech".


I fattori che frenano l'innovazione in Italia

Tutti scrivono che il sistema imprenditoriale non investe in innovazione. Ma perché gli imprenditori in Italia non investono sull’innovazione?La CGIL ci insegna che  le imprese non investono in innovazione perchè gli imprenditori non credono nell'innovazione.
Io conosco la vera risposta o meglio lo schema di condizioni, leggi, procedure che influenzano questo fenomeno. Non e’ un solo elemento, ma il combinato disposto di tanti fattori.
Io conosco molti di questi fattori. Io so i nomi dei responsabili. Li conosco perché sono un imprenditore nel settore delle tecnologie. Li conosco perché per 15 anni sono stato un ricercatore del prestigioso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.  
E ne ho le prove, non di tutto naturalmente, ma dei principali fattori che provo ad enumerare e descrivere rozzamente e in disordine nel seguito.

Cominciamo: non è vero che gli imprenditori in Italia non vogliono investire e non investono sull’innovazione. Per gli imprenditori innovare è vitale, disperatamente vitale, per non essere schiacciati da una sorta di legge bronzea dell’ economia che tutti gli imprenditori vivono sulla loro pelle: se non c’è innovazione la marginalità competitiva si riduce a poco o nulla. Tutti gli imprenditori privati tentano di innovare finché hanno un filo di forza e di speranza.

1) Solo gli imprenditori privati!
Un imprenditore privato (che non intende dismettere l’impresa) ha interesse e allo sviluppo reale e soggettivo (attenzione: non necessariamente oggettivo)  della propria azienda, per il suo futuro e per costruire il suo patrimonio è disponibile a correre un certo rischio. Quindi un imprenditore privato è interessato a rischiare per sviluppare innovazione reale, mentre un manager dell’impresa pubblica (chiamiamolo con l’ossimoro: imprenditore pubblico) deve tentare di accrescere con certezza il valore oggettivo, ma l’innovazione, se non si traduce in un fallimento, si trasforma in valore oggettivo solo in tempi medio-lunghi. In questo l’imprenditore pubblico è simile  ad un imprenditore privato che intende vendere l’impresa a breve.

I valori reali, ma soggettivi a cui mi riferisco sono ad esempio: l’effettivo completamento e successo dei test preliminari di un’applicazione complessa, la conoscenza dell’assenza di difettosità in un apparato sperimentale, prima ancora dei test report formali. In negativo, ad esempio, la scarsa validità di una soluzione tecnica portata in immobilizzazione. E’ un valore reale, ma soggettivo la formazione degli specialisti su tecnologie complesse e la capacità creativa di alcuni collaboratori. Questi sono i valori critici di base per l'innovazione.
I valori oggettivi di un’impresa sono quelli che possono più o meno facilmente essere dimostrati e riportati in un bilancio (al di là del principio dei costi sostenuti), in cui cioè la valutazione non dipende in maniera preponderante da considerazioni soggettive. Una soluzione tecnica può, ad esempio, conseguire un maggior valore oggettivo a seguito di una certificazione. Un’idea a seguito di un brevetto. Queste procedure non cambiano necessariamente il valore soggettivo attribuito dall’imprenditore ne il valore come innovazione, a differenza ad esempio di un test critico sostanziale. La differenza tra valori oggettivi (dimostrabili, ma non necessariamente consistenti) e soggettivi (reali, ma fortemente dipendenti dalle capacità dell’imprenditore) è cruciale per l’innovazione.

Un bravo imprenditore pubblico responsabile pertanto dovrà concentrare la sua attenzione sulla creazione di valori oggettivi: profitti, brevetti, valorizzazione di impianti ecc.  Non può e non deve (usando soldi non suoi) inseguire idee fantasiose avute la notte o portate sul suo tavolo da un neolaureato con la faccia spiritata..
Non può: perchè il suo lavoro sarà valutato nell’arco del suo mandato e se la sua innovazione fosse un successo non sarebbero intestati a lui i benefici a lungo termine, ma nel frattempo sarebbe accusato per i costi e i rischi dell’investimento.
Non deve: perché l’amministrazione non gli da licenza di fallire (innovare significa rischiare, e spesso rischiare tutto, innovare significa spesso sbagliare e fallire).
Se, ignorando ciò che gli conviene e ciò che dovrebbe fare, un imprenditore pubblico decide di scommettere su un idea, forse combatterà una battaglia di breve respiro: il suo mandato ha una scadenza che non coincide con l’orizzonte temporale dell’ innovazione.

Spesso nell’impresa pubblica manager di medio livello e giovani, hanno una chiara visione di spazi di innovazione, idee che gridano “scommetti su di me!”. Situazioni di mercato, incroci tra competenze presenti in azienda e opportunità tecnologiche talvolta indicano chiaramente (specie in una grande impresa) una direzione altamente promettente per un investimento rischioso in innovazione. Ho incontrato manager desiderosi di innovare anche in Finmeccanica e in ENI.
Ma come dare torto alla direzione che frena queste iniziative dovendo rispondere a terzi? Al massimo verrà stabilita una commissione di valutazione che farà un’analisi costi/rischi/benefici. Ma se si tratta veramente di innovazione il risultato è facilmente immaginabile!

In generale anche se ho le prove, non farò nomi, ma con  un’eccezione: ho conosciuto almeno un manager pubblico di alto livello che ha tentato la strada dell’innovazione: Antonio Rodotà, come A.D. di Alenia Spazio, ha combattuto contro tante, tantissime forze in nome dell’innovazione, ma una gran parte dei suoi sforzi è  stata vanificata quando ha cambiato ruolo per passare alla direzione dell’ESA. q.e.d.

In conclusione di questo paragrafo vorrei ricordare quello che mi ha insegnato un capital venture inglese: “Noi scommettiamo su un’innovazione se l’imprenditore ci punta tutta la sua impresa, la vita sua e della sua famiglia. Sappiamo bene noi e sa bene lui che il 95% per cento delle volte lui ci rimette l’impresa e talvolta anche il resto.” Ecco in generale non è questo che si chiede, si può chiedere o si deve chiedere ad un manager pubblico!

2) Togliete i maledetti finanziamenti! (e lasciateci le stesse risorse)
Il finanziamento pubblico all’innovazione aiuta l’innovazione come una lussazione aiuta uno scalatore.
E’ evidente che se le tasse fossero meno alte sarebbe tutto più bello, e da qui non impariamo nulla.
Lasciamo stare che sarebbe meglio non tassare per nulla gli utili reinvestiti nell’azienda.
Però una considerazione possiamo farla: in Italia le aziende vengono tassate in maniera significativa, ma una parte importante di questo gettito viene sprecato in “contributi all’innovazione”. Sarebbe necessario lasciare alle aziende private le risorse per l’innovazione senza farle transitare per una valutazione pubblica. Cioè se non potete ridurre la pressione fiscale, almeno lasciateci le risorse che togliete per finanziare l’innovazione!
Il contributo pubblico all’innovazione è un disastro.

La valutazione: un’innovazione per essere significativa deve essere una sfida, è raro o rarissimo che possa essere valutata a priori in maniera equilibrata. La valutazione dell’opportunità  di un contributo pubblico è fatta su diversi “parametri”: rischio, business plan (a 3 anni), livelli d’ occupazione (a 3 / 5 anni), innovatività. Con questi parametri Google e Facebook tanto per fare un esempio non sarebbero stati finanziati. Che innovazione era un sito di valutazione delle ragazze dell’ università? Che occupazione può dare uno nuovo motore di ricerca?
Inoltre stiamo già ipotizzando che la valutazione sia lucida, competente e soprattutto obiettiva!

Il tempo: Il tempo di gestione dei finanziamenti pubblici (identificazione settori, sviluppo bando, presentazione progetti, valutazione, finanziamento) non è confrontabile con i tempi del mercato dell’innovazione.
In qualche caso un valutatore illuminato (e ne ho incontrato almeno uno) intuisce la prospettiva del valore di un’ innovazione al di là dei parametri. Ma anche in questo caso le risorse saranno sprecate: nel 1995 avevamo la capacità di sviluppare al pari dei primi  al mondo un processore vettoriale per la grafica (per gli scettici ho ampia documentazione e referenze). Lo chiamammo VSP (Visual Signal Processor) e convincemmo alcuni brillanti e visionari valutatori dell’ ENEA che ci sarebbe stato un mercato in futuro per queste tecnologie, avevamo bisogno di 4 anni per lo sviluppo e di circa 2 miliardi di investimenti.  Nonostante gli sforzi eroici dell’ENEA il finanziamento fu interamente approvato solo attorno al 1998 cioè proprio mentre NVIDIA stava rilasciando la GeForce 256 la prima GPU (Graphic Processing Unit) al mondo. Inutile dire che un ritardo di 4 anni la competizione era senza speranza.
In altri progetti di cui sono a conoscenza, i componenti elettronici prescelti (come innovativi) ad inizio progetto sono obsoleti a fine progetto (un componente innovativo diventa obsolescente in 3 o 4 anni, ma un finanziamento pubblico può vedere il saldo anche 6 anni dopo il bando iniziale).

La rendicontazione: Nei finanziamenti pubblici in ricerca una quota significativa delle risorse erogate (non meno del 20%) viene speso per la rendicontazione (la preparazione del materiale necessario per l’ ottenimento del finanziamento). Un costo del 20% sarebbe ancora tollerabile se fossero rendicontabili le spese necessarie per l’innovazione, molto spesso è il contrario!
In generale i progetti vengono finanziati sulla base della quantità di personale addetto cosa che induce alla collocazione di numerose risorse, mentre è difficilmente rendicontabile personale pregiato (ovvero pagato molto oltre gli standard di mercato). Per l’innovazione serve scommettere su poche risorse brillanti e ben pagate! Per l’innovazione serve sbagliare ovvero fare acquisti e dare commesse ingiustificabili. Questo è chiaramente incompatibile con una rendicontazione.

L’incertezza: Nei finanziamenti pubblici c’e’ sempre una componente di incertezza anche con progetti approvati e parzialmente finanziati. Un errore nella rendicontazione, l’utilizzo di un fornitore non ritenuto adeguato o anche il pagamento di un collaboratore troppo oneroso possono comportare la revoca di un finanziamento. In un caso di cui sono a conoscenza il fatto che i ricercatori non fossero nella sede dell’azienda durante un’ispezione dell’autorità erogante il finanziamento è stato causa di revoca. Poco significando che i ricercatori si trovassero sul campo a fare riprese (per un progetto di riprese ambientali)!
Questa incertezza induce tutti gli imprenditori razionali a concentrare l’attenzione sul metodo e sulla forma, ma non sui risultati (che non sono oggetto di verifica).

3) Lavorate la notte, in un garage e se non funziona: licenziati!
Gira una storiella: prima di investire su una startup innovativa vai in segreto a vedere la loro sede qualche notte, se ci sono luci accese e c’è sempre gente che lavora può valere la pena.

Diverse startup di successo nel mondo sono nate in luoghi che in Italia non avrebbero giustamente l’abitabilità. In un caso in cui sono a diretta conoscenza l’impresa ha dovuto andare in tribunale per non essere costretta a chiudere in quanto il locale era abitabile, ma non formalmente qualificato “uso ufficio”.

Il problema principale però è nei contratti di lavoro e nei rapporti con i lavoratori. L’innovazione richiede una collaborazione fiduciaria straordinaria tra i partecipanti all’iniziativa (spesso la si vede nei laboratori universitari), ma questa collaborazione è scoraggiata dalle normative attuali. In pratica l’innovazione tecnologica di punta non può essere costruita con un modello imprenditore + dirigenti/impiegati/operai, regolato da contratti nazionali, ma serve una collaborazione trasversale e la possibilità di escludere (licenziare) chi non si adegua all’impegno comune.
Le ricerche innovative coronate da successo alle quali mi è capitato di partecipare hanno sempre visto  l’impegno di un nucleo di “ricercatori e tecnologi” che hanno lavorato senza risparmiarsi per settimane e mesi. In questi casi c’è sempre qualcuno che si defila. In ambito accademico è tollerato e non costituisce un grave problema, in quanto i compensi non sono di tipo economico e quasi sempre i leader sanno riconoscere chi ha dato di più ed hanno i mezzi per escludere dal gruppo un disfattista o un nullafacente.
In ambito industriale, in Italia, invece è semplicemente impossibile trovare un metodo per escludere da un team una persona selezionata e assunta per le sue potenzialità ma poi in pratica dannosa per il team.

Vorrei aggiungere che mentre l’esistenza dell’Art.18 è un problema serissimo per lo sviluppo, la crescita e la competitività delle imprese, esso ha poco a che fare con la capacità d’innovazione che dipende invece dalla disponibilità di contratti flessibili e da un rapporto fluido (leggi: contratti a progetto) con il mondo dell’accademia e dei giovani più brillanti.
Mi è stato chiesto di valutare la riforma Fornero alla luce delle nostre esigenze per quanto attiene all’innovazione. Direi che ha “eliminato il problema” rendendo in pratica quasi impossibile ogni nostra attività in tal senso. Mi spiego meglio: gran parte delle nostre attività non direttamente finalizzate alle commesse, quindi quasi tutte le attività di R&D erano svolte con contratti a progetto che oggi sono di fatto aboliti.
D’altronde i contratti a termine non sono adatti a questo tipo di attività per varie ragioni, ad esempio non possono essere sospesi qualora si evidenzi che la strada intrapresa è infruttuosa, inoltre la forma di lavoro subordinata spesso non si adatta alle personalità più brillanti con cui ci dobbiamo confrontare (spesso in bilico con il mondo accademico).
Infine i contratti a termine non possono essere utilizzati per lo svolgimento di attività di scouting tecnologico di durata breve o brevissima (20-40 giorni).

4) Università mediocri, studenti molto vari,  stipendi non correlati al merito.
Nella nostra storia abbiamo fatto centinaia di colloqui di assunzione e possiamo fare una sintesi: l‘università italiana è in grado di produrre eccellenze, ma il prodotto standard non è mediocre: è di basso livello o pessimo. Devo precisare che la mia esperienza è limitata ai settori dell’ elettronica e dell’informatica, pertanto ci siamo confrontati con una gamma di giovani laureati in Informatica, Fisica, Ingegneria e talvolta Scienza della Comunicazione.

L’eccellenza si ottiene quando uno studente dotato ha trovato da se le motivazioni per uno studio e un lavoro di qualità, questo deve coincidere con la fortuna di incrociare alcuni docenti di alto livello e magari di inserirsi in un gruppo di ricerca di elite.
Questi casi sono rari e ne risultano cervelli appetibili per la nostra accademia (spesso purtroppo incapace di trattenerli) , per le imprese italiane (che spesso li sottoutilizzano) e certamente per il mercato estero.
Più frequentemente si laureano studenti che hanno lavorato in gruppi di serie B o C o che hanno conseguito stancamente il loro titolo di studio.

In questo scenario ne le imprese ne le università sono in grado di premiare adeguatamente il merito. La struttura dei contratti in pratica impedisce in Italia la stipula di contratti “di attrazione” ovvero contratti d’ingresso con livelli salariali elevati, ma con la possibilità di regredirli o interromperli se dopo 3 o 5 anni le aspettative di valore non sono mantenute. Di fatto avendo di fronte un neolaureato che appare straordinariamente brillante siamo costretti a proporre un salario d’ingresso miserevole, (con elevata possibilità  di vederlo fuggire all’ estero) essendo impossibile per un’impresa proporre un salario elevato per poi ridurlo (o addirittura licenziare) se dopo alcuni anni si riconosce che magari il dipendente è si brillante ma incapace di uno sforzo continuo o produttivo, oppure incapace di adeguarsi a uno standard o simili (casi reali a iosa per chi fosse interessato).


Conclusione.
Certamente esistono contro-esempi di innovazione di successo in Italia, nonostante i fattori a cui ho accennato, ma spero che alcuni concetti chiave siano condivisibili:

  •     l’innovazione è rischio e bassa probabilità di successo, ma alti profitti (in caso di successo!) e questi non sono tipicamente obiettivi di buon management pubblico
  •     le grandi imprese pubbliche hanno giuste logiche che impediscono questo tipo di rischio
  •     le PMI (che vogliono avere elevate probabilità di sopravvivere) hanno solo una piccola frazione di risorse da rischiare per l’innovazione
  •     il finanziamento pubblico per l’innovazione andrebbe eliminato e le risorse liberate restituite alle imprese come minor tassazione (quale miglior incentivo per un imprenditore e per i lavoratori avere salari netti più alti in caso di successo?)
  •     le università, spesso realizzate per motivi campanilistici, senza meccanismi punitivi, non hanno seri meccanismi per promuovere l'eccellenza e quindi producono masse di giovani meno che mediocri
  •     le rigidità  contrattuali non sono un ausilio all’innovazione tecnologica


Può essere che il paese scelga di continuare a vivere con grandi imprese pubbliche e PMI molto tassate, ma incentivate con finanziamenti pubblici. Può essere che si voglia mantenere il valore legale del titolo di studio e a finanziare università e facoltà di scarso valore senza seri meccanismi di competizione. Può essere che si mantenga il divieto di attivare contratti di collaborazione o contratti a progetto.

Nessun problema: saremo un paese di pizzerie e ristoranti sul mare. Affrettatevi però a cercare la concessione per un pezzo di spiaggia.



Simone Cabasino - it.linkedin.com/in/cabasino

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Commenti

Ci sono 32 commenti

e rilancio: ho lavorato per un po in un centro di ricerca in Sicilia, la fase di rendicontazione arrivava a livelli allucinanti, ogni anno venivano i finanzieri per settimane, e controllavano tutto, ma proprio tutto: mi prendevano la tastiera e il mouse per controllare i numeri seriali, una volta perdemmo un pomeriggio in 3 per trovare un floppy da 5¼, di quelli proprio floppy, a fine anni '90, non gli interessava minimamente che in tutto l'edificio non ci fosse un lettore per quel genere di supporto, avevano quel floppy in lista, e doveva spuntare. Ho poi lavorato, sempre in Sicilia, in una startup. Tralasciando tutto il resto, quando anni dopo a Londra cercavo di spiegare il concetto di studio di settore, applicato ad una startup, al CFO del mio datore di lavoro, davanti ad un paio di pinte di birra, quello si rifiutava, giustamente, di credermi.

Anni di tremontismo e leghismo hanno demonizzato demenzialmente  la grande impresa privata e sostenuto, senza selezione sulla qualità, la piccola e media impresa (PMI).

Nel nord est eravamo leader mondiali negli sciacquoni per gabinetti, serrande, maniglie, bare, mobili in truciolare (insieme a  poche imprese coraggiose  con prodotti innovativi): questi distretti industriali sono stati spazzati via in pochi anni dalla concorrenza dei paesi emergenti.

La grande impresa privata è il principale volano per ricerca e innovazione, come avviene In Germania con Siemens, Hoechst, Bayer, industria automobilistica.

La PMI potrebbe essere un pò aiutata dalle ricette suggerite nell'articolo con le quali in linea di massima concordo.

Per quanto riguarda l'Università,  che pure va riformata, in questo contesto non mi sembra il maggiore problema.

Cabasino, che è stato ricercatore INFN, sa bene che il sistema dell'Università e degli enti di ricerca genera, nel settore tecnico scientifico, molti giovani talenti, in eccesso rispetto alle esigenze della ricerca fondamentale, che  vengono respinti dal sistema.

Affermo che la produzione di validi ricercatori in Italia è attualmente in grande eccesso rispetto alle capacità e volontà di assorbimento da parte del del sistema industriale. Qui si innesca anche una questione culturale, di qualità delle nostre classi dirigenti e imprenditoriali, che forse andrebbe ulteriormente approfondita.

Stavo per scrivere un commento quasi identico ! Aggiungerei solo che la PMI avrebbe potuto ricevere aiuto anche da una maggiore "coesione". Qualcosa è stato fatto (nel bene e nel male) nel settore alimentare con la creazione di consorzi, marchi e certificazioni varie che aiutano asviluppare i prodotti e a far fronte alle richieste del mercato estero e ai concorrenti stranieri. In altri settori le piccole aziende non hanno saputo (ho potuto) creare associazioni di categoria che potessero supportarle nello sviluppo dei prodotti. Ovviamente classe politica completamente assente nel supportare il settore aldilà delle belle parole di elogio e di qualche promessa (balla) protezionistica contro la concorrenza straniera,  per far contenti quegli imprenditori piú poveri di spirito che, magari erediteranno il regno dei cieli, ma nulla lasceranno in eredità ai figli

la coesione è degenerata in cartelli a quanto pare: lavalledelsiele.com/2012/10/10/cara-mi-si-e-ristretto-il-vigneto/

lavalledelsiele.com/2012/10/13/fuori-controllo-a-chi/

Proprio per quello ho specificato "nel bene e nel male ;-)

Ci sono settori dove il cartello è impossibile perchè la concorrenza estera (che è fatta di grandi imprese) arriva e spariglia le carte.

In alcuni setto

ri un "coordinamento"tra le PMI per creare associazioni che consentano di far arrivare le informazioni, di dividere i costi di laboratorio, di esplorare nuovi mercati penso sarebbe stata una strada da seguire con convinzione invece che limitarsi a rinorrere quel che i concorrenti stranieri imponevano ( concorrenti che avevano i mezzi della grande impresa e magari governi che facevano il loro mestiere, invece che "governatori"che esploravano il mercato cubano con i soldi dei contribuenti)

Reti tra piccole e medie (ed anche grandi) italiane ed estere, con la presenza nella rete stessa delle università che fanno ricerca, sono a mio avviso una soluzione per realizzare quelle dimensioni che necessitano per fare ricerca di un certo livello.
La realtà delle reti d'impresa, emergente un po' in tutta Europa, è una di quelle a cui il prossimo governo dovrà guardare per risolvere il nostro nanismo salvaguardando pero' le necessità di autonomia dei piccoli. 

Mi occupo di ricerca ed innovazione nelle PMI come consulente di direzione.

La mia impressione è che ci sia anche un errore statistico nella rilevazione dell’attività di R&S svolta nelle aziende, errore che porta a sottostimare l’effettiva entità delle attività di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo.

Avete mai visto un questionario per la rilevazione ISTAT delle attività di R&S?

Ho avuto tra le mani questionari compilati in piccole/medie aziende che conducevano attività di ricerca industriale che rientravano pienamente nelle definizioni OCSE di R&S. Il questionario viene però normalmente compilato (e vissuto come ennesima incombenza burocratica) dall’amministrazione dell'azienda, che, ad esempio, al quesito 15 relativo ai “ricercatori” che operano in azienda rispondono “0”, perché per loro la parola “ricercatore” è troppo vicina a quella del mondo accademico o delle grandi aziende ed attorno vedono solo dipendenti, magari ingegneri, fisici o chimici, ma nessun “ricercatore”! Al massimo, viene indicato che l’azienda svolge attività di R&S solo se erano stati ricevuti contributi pubblici.

Al contrario, quando ho compilato il questionario assieme alla direzione tecnica, è emersa l’effettiva intensità delle attività di R&S ed ho potuto toccare con mano quanto possa essere significativa questa la sottostima delle attività di ricerca.

Al contrario, mi sembra che le aziende italiane (oddio, conosco aziende piemontesi, lombarde e venete, spero siano un campione statisticamente significativo dell’Italia) svolgono una immane attività di innovazione (stimo con valori medi del 5 % del fatturato per le aziende manifatturiere, fino ad arrivare al 10-15% per quelle legate all’elettronica / informatica), che però non viene fuori perché viene considerata attività usuale senza la quale l’azienda non può andare avanti. Cioè per tanti imprenditori, innovare è così connaturato all’essere per l’appunto imprenditori, da non pensare nemmeno che quello che stanno facendo sarebbe valorizzato in altre nazioni come ricerca industriale!

Solo quando ci sono stati vantaggi fiscali (il credito d’imposta sulle attività di R&S previsto dalla Legge 296/2006) molte aziende hanno contabilizzato attentamente le spese di R&S; ma da quando questo credito non è più stato concesso manca anche questo indizio.

Avevo provato ad associazione l’andamento delle spese rilevate di R&S con il credito d’imposta, ma i fattori disturbanti dovuti alla crisi (e la mia mancanza di strumenti metodologici adeguati) non hanno portato a nessun risultato. Sapete se per caso questi aspetti sono stati studiati?

30 anni fa lavoravo nel campo delle materie plastiche in una piccola industria, con compiti di controllo qualità, messa a punto formulazioni e asistenza sugli impianti, e ricordo benissimo che un quarto del mio tempo era impegnato in prove su nuovi prodotti, sulla messa punto degli esistenti e su miglioramenti di prodotto e di processo.

Tutte cose teoricamente assimilabili a R&S ma che erano state definite tali solo una volta, quando un contributo della regione aveva incentivato l'eliminazione dell' amianto dalle formulazioni della materie plastiche.

Dato che in realtà la lungimiranza dell'imprenditore aveva già fatto questa innovazione ( a me che l'avevo fisicamente implementata era costata un paio di settimane di lavoro ) il tutto si era ridotto alla fotocopia di vecchie formulazioni, e delle nuove, e delle schede di collaudo sul prodotto finito, ricordo anche che il tutto aveva fatto incassare un contributo pubblico pari al costo di 2 anni del mio lavoro.

Le mie successive esperienze in medie e gradi imprese mi hanno convinto del fatto che alle condizioni attuali in Italia i contributi pubblici per R&S siano per il 90% soldi sprecati, sovvenzioni mascherate alle imprese.

esperienza le PMI sono tali perchè non hanno nessuna intenzione di ingrandirsi e il settore R&S gli interessa unicamente per i benefici immediati che gli può portare (finanziamenti e sgravi fiscali). Sbaglio?

 

Vedo con piacere che il mio editoriale su Le Scienze di dicembre (il cui link corretto sarebbe questo: www.lescienze.it/edicola/2012/12/03/news/nel_paese_dei_camerieri-1394322/) ha suscitato il vostro interesse. Mi sfugge tuttavia in che modo questo post rappresenti una risposta a quella modesta opinione, o forse deve essere l'effetto del rumore. Troppo, e per nulla. Che una quota imprecisata dell'imprenditoria italiana non investa in innovazione – e non da oggi, da mezzo secolo – è una constatazione. Che una discreta parte della grande industria abbia tratto profitto dagli incentivi statali ritenendo di poter campare sulla svalutazione dell'amata liretta è un altro fatto. Che la CGIL per parte sua abbia guardato alla scala mobile per cinquant'anni senza accorgersi del TIR che arrivava da dietro è ancora un fatto. Che il sistema creditizio e assicurativo abbia investito in immobili creando una bolla speculativa di cui ancora non abbiamo visto le conseguenze mi pare un altro fatto. Avendo superato da tempo l'età dell'innocenza, tendo a diffidare delle colpe unilaterali. E penso che sarebbe tempo di assumersi individualmente le proprie responsabilità. Detto questo, non mi sembra che il testo di Simone Cabasino sia una "risposta" a quanto scrivevo in quelle poche righe. Anzi. Anche se in certi passaggi lo ritengo assai poco convincente (non è che basta citare in negativo la CGIL nelle prime dieci righe per avere automaticamente ragione), penso che molti degli elementi di cui parla rafforzino il senso di quelle mie parole. Che non sono le parole di uno che accusa gli imprenditori di non volere l'innovazione (mio zio, per non innovare, fallì, alla fine degli anni settanta), ma di uno che pensa che lo Stato assistenzialista – anche nei confronti dell'impresa privata (che poi con quei soldi magari ci ha pagato lo yacht intestato alla società, eh) ha portato a una situazione non sostenibile, in cui nessuno ha avuto più bisogno di correre rischi. Almeno fino all'ingresso in Europa. Non dovevano rischiare gli imprenditori, non dovevano rischiare le banche, non dovevano rischiare il posto i dipendenti. Non doveva rischiare di prendere decisioni serie la politica. Non sarà facile uscire da questo sprofondo e dovremo rivoltare questo paese come un calzino, con le sue abitudini più radicate e deprimenti. Però resta il fatto che io non ci sto, a diventare un paese di camerieri.

 

P.S. Per esempio potremmo cominciare a valutare insieme come sono stati assegnati i 7 miliardi di PON europei per il periodo 2007-2013.

Non è molto chiaro il nesso logico tra i due articoli, salvo il tema trattato.

Che gli imprenditori privati scontino un ritardo rispetto al resto d'Europa è un dato di fatto, forse quando vendevamo rubinetti a mezzo mondo ci saremmo potuti chiedere "e quando impareranno a farli bene da soli?".

Ma tant'è, qui non si tratta più di innovazione e sviluppo, si tratta di limiti culturali di un'intera classe dirigente. Da un lato si sono incensati e foraggiati gli industriali del tornio come capitani d'industria dal luminoso futuro, dall'altro non si è riesciti a fare soldi coi personal computer avendo già in casa il know-how, le capacità produttive e un mercato in esplosione.

Si chiama Olivetti l'11/9 dell'industria italiana, qualcuno l'ha citata di passaggio, vorrei davvero capire come sia stato economicamente possibile un tale disastro.

Credo ci sarebbe da imparare.

effetivamente mi sembra che tra l'editoriale di Marco Cattaneo e l'interessante post di Cabasino non ci siano molti nessi, se non una frase di Marco un po' "collaterale" al suo ragionamento

 

È tempo di affrontare i nodi di un sistema imprenditoriale che non investe in innovazione, avendo campato per quarant’anni della falsa competitività garantita dalle periodiche svalutazioni della lira

 

che peraltro non mi sembrava un giudizio moralistico su una presunta diversità antropologica delle imprese italiane non orientate agli investimenti in innovazione, quanto un invito ad analizzare un problema, quali che siano le origini.

 

Se il post di Cabasino prova a dare una risposta, è vero però che il tema dell'articolo di Cattaneo era un altro, ovvero una frase (molto) infelice di luigi Zingales durante una trasmissione televisiva (quindi con tutte le scusanti del caso - poco tempo a disposizione, gente che ti parla addosso)

 

Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro nel turismo

 

Ora, l'obiezione che fa Marco Cattaneo è

 

se tanti giovani vanno all’estero perché qui non hanno opportunità, evidentemente in Italia c’è ancora qualcosa che funziona. Altrettanto evidentemente, è il sistema della formazione. In Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti non saprebbero che farsene dei nostri ricercatori, se fossero impreparati o scadenti. Il problema, casomai, è che l’Italia non attira ricercatori stranieri sul «mercato globale dei cervelli»

 

e questa è una affermazione che a me non convince. Ma è questa affermazione qui quella che meritava una risposta, e credo che queste pagine siano frequentate da persone in grado di fornirla e argomentarla, piuttosto che quella sugli imprenditori che non investono, che a me sembra più che altro una ricerca della primogenitura tra uovo e gallina.

Credo che abbiamo gli stessi intenti e probabilmente intravediamo percorsi simili, pero' non capisco perche' dice che il mio post non e' una risposta al il suo editoriale "Nel paese dei camerieri". Lei propone di "affrontare i nodi di un sistema imprenditoriale che non investe in innovazione", io proprio quei nodi ho provato ad affrontare, di petto (per non  limitarmi a fotografare la situazione). A questo proposito le vorrei chiedere qualche secondo per indicare i miei argomenti  poco convincenti: forse mi sono sbagliato o forse potrei convincerla :-)

Posso solo assicurare che sono pronto a mettere in discussione qualsiasi mia posizione ... anche la critica alla CGIL!

 

  Ho trovato molto interessante il post, così come alcuni interventi. Per quel poco di esperienza maturata posso dire di condividere in pieno l'idea guida: i sussidi a R&S, così come sono impostati e gestiti sono un danno a questa attività.  Se una ricerca è basata su una idea innovativa, la pretesa di imbrigliarla in uno schema burocratico e nelle relative conseguenti bardature, è come sabotarla. Forse, il giudizio sarebbe differente se ci si limitasse  solamente ad incentivare e sussidiare solamente lo "sviluppo"; quella parte della ricerca che, utilizzando un ritrovato,  accompagna fino al mercato i prodotti che ne derivano.  Giustamente nel post e negli interventi si dice che  l'incentivo dovrebbe essere in una normativa tesa ad agevolare la ricerca, ed eventualmente nel conferire premi per i risultati della attività. 

     E' molto difficile che uno stato invasivo come il nostro rinunzi alla prerogativa di erogare "sussidi": ma è più che giusto porre la questione.  

Che sussidi pubblici siano stati elargiti in modo poco trasparente è noto a chi ha lavorato nel settore della R&S. Che siano stati dati "a pioggia" è altrettanto noto; che ci siano gravissimi problemi di puntualità nella gestione degli stessi (presentazione, approvazione, rendicontazione, erogazione, ecc..) è vero ed è, forse, uno degli aspetti più negativi nella gestione dei fondi. Ciò non di meno pensare di abrogarli del tutto è impensabile: in tutti i paesi, e nella UE, meccanismi di aiuto alla R&S esistono. Toglierli in Italia sarebbe semplicemente un atto di masochismo. Il problema è la loro gestione e il loro indirizzamento. Nel tempo sono anche state assunte decisioni che vanno nella giusta direzione: non più finanziamenti alla singola impresa ma a raggruppamenti (quanto meno come effetto di premialità nella selezione), limiti inferiori di spesa (per ammortizzare i costi di gestione e controllo). Certamente si può fare molto di più, definendo perimetri di intervento più dettagliati: p.es. R&S intra muros attraverso il solo credito di imposta, favorendo il contributo alle aggregazioni di PMI e GI, ponendo vincoli più stringenti sulla dimensione del progetto e sulla valutazione attesa del ritorno del progetto. Non dimentichiamo che il contributo è stato inteso quale "contributo al rischio". Pertanto sarebbero da favorire progetti con una prospettiva di innovazione elevata (e a ciò, di norma, corrisponde un elevato rischio), mentre per progetti a minor tasso di innovazione sarebbero da riservare fondi di finanziamento agevolato (fondi rotativi, per intenderci). Tale approccio garantirebbe anche una maggiore aderenza del progetto finanziato alla realtà: se ho preso soldi a prestito (e quindi li devo restituire) il progetto presentato deve essere un progetto reale nel quale credo e sul quale sono disposto a scommettere, ovvero non invento un progetto perchè ci sono soldi a fondo perduto, tanto per essere chiari. Il problema delle garanzie è un'altro aspetto rilevante che deve essere consiserato e che non è il caso di esaminare in questa sede.

Post interessante, direi che sono d'accordo più o meno su tutto, ma attenzione:  patologie che frenano l'R&D esistono anche nelle aziende private, italiane e non, indipendentemente dai contributi legati alla legislazione.

Per quanto ne so (spigolando tra la mia esperienza personale, quella di certi conoscenti e quel che si legge in giro) direi che vi sono almeno i fattori di seguito elencati.

 

1) le aziende di grandi dimensioni diventano spontaneamente degli incubi burocratici non diversi dalle aziende statali, con identici meccanismi (in particolare le dinamiche interne assumono importanza prevalente rispetto al confronto con la concorrenza e coi clienti)

2) le aziende che hanno raggiunto posizioni da "leader di mercato" finiscono per essere dominate dal desiderio di conservare le posizioni ottenute coi "vecchi metodi" e coi "vecchi prodotti" (Nokia & Kodak first come to mind)

3) le aziende quotate in borsa diventano facilmente schiave di logiche puramente finanziarie e di breve termine, il che mal si concilia con tempi e rischi dell'R&D

4) quando la dirigenza invecchia, domina la paura del nuovo e gli "innovatori" sono visti come delle minacce piuttosto che come delle risorse; inoltre gli innovatori sono solitamente giovani, ed per dirla brutalmente, i giovani ai vecchi piacciono solo se sono i loro nipotini

5) per fare innovazione non bastano gli inventori (che abbiamo) ci vuole una dose di temeraria autostima intellettuale da parte degli imprenditori... dico una bestemmia se dico che in fondo questo un po' ci manca, che siamo - come dire - troppo figli della cultura cattolica per riuscire veramente bene in questo?

Qui il punto di vista di Zhang Gang, delegato generale del Ccpit (China Council for the Promotion of International Trade) di Milano. Se si chiamasse Brambilla direbbe qualcosa di diverso?

Non sono d'accordo sulla seguente informazione

"Un bravo imprenditore pubblico responsabile (...) non può e non deve (usando soldi non suoi) inseguire idee fantasiose avute la notte o portate sul suo tavolo da un neolaureato con la faccia spiritata."

 

Se un neolaureato con la faccia spiritata arriva dal presedente dell'ENI con un nuovo metodo per prospezioni petrolifere, Scaroni (o chi per lui) DEVE valutarlo e prenderlo in considerazione.

I problemi invece sono due, a mio parere:

1) "neolaureati spiritati" non ci sono piu` all'ENI

2) Scaroni (o chi per lui) non prende proprio in considerazione idee simili...