Poesia italiana contemporanea: Francesco Tomada

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Non è facile parlare delle poesie di un amico, e si rischia di apparire troppo intenti a carpire la captatio benevolentiae del lettore nei confronti dei versi che si andranno a presentare, ma nel caso di Francesco Tomada, per quanto io possa scrivere con immenso affetto queste poche righe, sarà l’onestà dei suoi versi a parlare da sola, rendendo vano e superfluo, qualunque mio sforzo introduttivo.

Gorizia 1917 - Villa Moresca

 

Nei suoi due libri “L’infanzia vista da qui” e “A ogni cosa il suo nome”, ci sono poesie che, seppur rilette a distanza di tempo, provocano la stessa intima spaccatura, facendo vivere o, meglio,  rivivere emozioni, assenze, silenzi, vuoti, lutti, che nel momento stesso in cui Francesco poggia nero su bianco, sembrano smettere di appartenere solo a lui, per transitare nei ricordi ed in quelle emozioni di tutti, spesso soffocate dalla corazza degli anni e della disattenzione per la storia.

 

[…]
volevo capire quel poco che posso
della colpa e del dolore
ma sono un uomo troppo piccolo
e questa pianura è troppo vasta e vuota
è terra distesa a sottolineare ciò che manca
è neve caduta a coprire ciò che resta
così dovrebbe essere il silenzio
qualcosa che si vede si tocca e
congela per sempre un angolo del cuore
[…]

 

da “L’infanzia vista da qui”

 

Uno stato di attonito sbigottimento si delinea nei contrasti tra cose e misure: immensamente grande/troppo piccolo. Scorrendo le parole di Francesco, si entra in un tunnel dimensionale che denuda fragilità e precarietà delle cose e di noi stessi, sempre in cerca di risposte anch’esse troppo grandi o solo troppo piccole, minuscole, come la meschinità di quella sconcertante banalità del male che, appartenendoci, ci “misura” in relazione a ruoli e cose, decretando il nostro fallimento umano e terreno.

 

tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima
il nome sulle etichette il fango secco sulle suole
solo una cosa è andata avanti
- non posso proprio chiamarlo vivere –

c’è una stanza intera piena di capelli
sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora
che nella vecchiaia
non li hanno mai raggiunti

 

La sospensione del tempo che aspetta se stesso, si incide nel “sopravvivere” delle cose, degli oggetti alla tragica parentesi d’esistenza cui appartennero, fissando “ciò che è stato” negli occhi di chi transita in un luogo tragico e d’indefinito.

La famiglia, la sua terra di confine, gli affetti spezzati, le tracce insanabili delle atrocità di una guerra infinita e cucita sulla pelle di un’umanità che ha declinato se stessa al procedere per inerzia, le piccole cose intime e quotidiane contrapposte ad i “finti grandi cambiamenti” ed agli avvenimenti di cronaca e storia, sono così fortemente presenti e pulsanti in questa poesia, da non lasciare indifferenti per la nuda e delicata fragilità ed onestà con cui si manifestano.

(nc)

Brevi cenni biografici:

Francesco Tomada nasce a Gorizia nel 1966.

Ha vinto il Premio Nazionale “Beppe Manfredi” nel 2007 come migliore opera prima.

Pubblicazioni:

“L’infanzia vista da qui” – ed.: Sottomondo, dicembre 2005 – ristampa marzo 2006;

“A ogni cosa il suo nome” – ed.:  Le Voci della Luna, 2008.

Alcune sue opere sono presenti nell’antologia “Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est” – ed.: Fara, 2008.

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Gorizia - notte di natale del 1917

 

da “L’infanzia vista da qui”

 

L’ allargamento dell’Unione Europea

Ci sono caprioli che percorrono di notte

i sentieri jugoslavi di pattuglia

per evitare i rovi

come acrobati sul ciglio del confine

voi dite “non esiste più il confine”

ma io lo vedo ancora

è una traccia senza erba fra le spine

sono i cippi conficcati nella terra

perché fra tutti gli animali

l’uomo è il solo

che segna il territorio con le pietre

 

*

Auschwitz, 3 marzo (a Daniel)

Anch’io ho camminato lungo i binari

dove fermavano i treni dei deportati

volevo capire quel poco che posso

della colpa e del dolore

ma sono un uomo troppo piccolo

e questa pianura è troppo vasta e vuota

è terra distesa a sottolineare ciò che manca

è neve caduta a coprire ciò che resta

così dovrebbe essere il silenzio

qualcosa che si vede si tocca e

congela per sempre un angolo del cuore

ad Auschwitz una volta almeno si dovrebbe

andare tutti, rimanere muti muti muti

scegliere un nome a caso fra i sopravvissuti

io ho scelto Rose che allora era bambina

e poi chiedere scusa di essere arrivati troppo tardi

di esser nati troppo tardi

forse di esser nati

*

Hanno arato i campi stamattina

e nel sole freddo dell’inverno

il dorso delle zolle brilla lucido

come un diamante estratto dal profondo

io credevo che il dentro della terra fosse buio:

non capivo dove i semi prendessero il coraggio

e i crochi

il colore della loro fioritura

*

Astronomia privata

Ho cinque nei sul braccio

sinistro e già da bambino

li univo in una forma

di incudine

come una costellazione

in negativo

sul cielo roseo della pelle

che delimita lo spazio alla vista

ma non lo rinchiude

e non sai dove prosegue

l’infinito

se dentro o fuori o semplicemente

ti attraversa

*

Impercezione

Dormi e il tuo corpo si fa sottile

come un quadrifoglio tra le pagine

e non è carta ma stoffa di lenzuola

e non è libro ma tu portaci fortuna

in questa escoriazione fino al vivo

che per paura di essere banali

solo di rado chiamiamo amore

*

A mia madre

Guardo la casa dove vivi sola

la stessa dove anch’io sono nato

e ho vissuto

dici che più niente ti lega a questa terra

che verrai ad abitare più vicina a me

non si sa mai, un’influenza

o soltanto un mobile da spostare

intanto hai rinnovato le stanze

cambiato la cucina lucidato i pavimenti

dipinto la ringhiera dello stesso colore bruciato

che ha sempre avuto

è come se prima di andare

tu mettessi in ordine i ricordi

e ho paura di pensare che hai più di settant’anni

e senza dirmi niente per non farmi preoccupare

ti stai preparando a qualcosa di più grande

di un trasloco

*

(a Stefania, finalmente)

Eri troppo minuta per essere donna e sorella maggiore

come sembrava impossibile che tu fossi madre

come sembrava impossibile morire di parto

nell’anno duemila di Dio

pesavi di meno di questo cognome che oggi

io porto da solo che se si potesse prenderlo

in braccio e sollevarlo come facevo con te

sarei un uomo diverso e avrei un sorriso

più facile da regalare ai miei figli

*

Senzavino

Mio nonno diceva che mangiare

senza vino in tavola

gli ricordava il tempo della guerra

mia nonna gli sopravvisse a lungo

quando anche lei morì

trovammo milleduecento bottiglie vuote

allineate come soldati lungo il muro

dietro alla legnaia

dopo pranzo negli ultimi anni lei si sedeva sul divano

con un sorriso strano che allora non capivo

pensavo che fosse per qualcosa alla televisione

invece

aveva approfittato della pace

*

So come muoiono le farfalle

come un uomo disteso di schiena su di un prato

guardano tutto il cielo che hanno

attraversato e poi

allargano le ali sopra l’erba

per allontanare la fatica

e pensano per sempre di volare

*

(notturno, due note per un ritorno)

Dal ventre di mia madre mi trassero a fatica, avevo una mano sugli occhi come a coprirmi dalla luce e non passavo, non passavo. Mio zio si fermava ogni giorno davanti alla culla, poi mi guardava la testa e diceva: ”Non prenderà mai una forma normale”. Aveva ragione, ho ancora i lineamenti non regolari, ma stanotte c’è una luna comprensiva che mi segue verso casa e la sua luce lieve cambia i miei difetti in ombre.

Un capriolo è uscito dai campi, è rimasto nel fascio dei fari con le pupille brillanti come diamanti a mezz’aria. Ho frenato, mi sono fermato, dopo un secondo lunghissimo è andato via. Come le bestie abbagliate quando aspettano la morte, così io chiedo ci prenda la vita: di schianto e noi lì ad aspettarla ad occhi serrati, con quel coraggio che io non ho avuto neppure nascendo.

*

da “A ogni cosa il suo nome”

 

Il negativo e l’immagine

Quando i bambini di qui fanno la guerra

bastano quattro cuscini sul letto per costruire una base

tutti hanno pistole o fucili con il tappo colorato in rosso

alcuni perfino bombe di gommapiuma

allora mi chiedo se i bambini di Beirut giocano alla pace

e come ci riescono

perché non ci sono case giardini genitori di plastica

e morire per finta è facile

ma vivere per finta non si può

*

Il museo della guerra di Karlovac è

una caserma bombardata che puzza di urina

nel cortile ci sono cannoni e mezzi corazzati

quelli nemici semidistrutti

quelli croati nuovi e lucidi

come se la battaglia dovesse ricominciare domani

nel mezzo quello che resta di un Mig

i ragazzini lo guardano entusiasti

gli corrono attorno

ma io vorrei dirgli che la coda di un aereo abbattuto

non è come quella di una lucertola

che si stacca senza dolore

se la stringi tra le mani

sulla fusoliera c’è una stella rossa

vorrei dirgli che anche in volo

non ha mai brillato come quelle vere

dal suo cielo di lamiera

*

Nell’armadio

Tutti i biglietti che lascio nelle tasche

delle giacche ai cambi di stagione

sono indirizzi numeri di telefono

e dirsi ecco dov’erano finiti

sono persone da aggiungere alle tante

che ho cercato nei posti sbagliati

proprio quando ne avevo bisogno

proprio mentre le stavo perdendo

*

Anonimi si nasce

I tuoi occhi hanno il colore di terra bagnata

se io fossi contadino direi buona da coltivare

ma da contadino mi sentivo solamente

quel fare grossolano e inadeguato delle mani

quando ho messo in te il mio seme

il mio gesto voleva essere di amore

ma somigliava più a un atto primitivo

un urlo lanciato con il ventre

mentre tu trasformavi in un embrione

il mio sentirmi vivo

*

1920

C’è questa foto del millenovecentoventi

dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo

una granata italiana l’aveva colpita

proprio la casa proprio la camera

dove poi abbiamo concepito i figli

ma di quei momenti nostri non ci sono immagini

e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore

e anche io ti ho posseduta così si dice

ma in realtà non ho posseduto niente

sei come questa terra dove per lasciare un segno

è inutile combattere bisogna appartenere

diventare umili e abitare con pazienza

come fa il colore su una rosa

*

Topolò, valli del Natisone, pt. I

(un secolo fa nel paese abitavano quasi quattrocento persone, oggi poco più di trenta)

Amo le cose che si annunciano

con un odore e un silenzio, come la neve

oggi una donna anziana mi raccontava

una volta ne cadeva così tanta

che non sapevamo dove metterla

avrei voluto chiederle che cosa facevano del silenzio

perché quello non si scioglie in primavera

rimane impigliato come certe nubi sul fondo delle valli

lo sento anche adesso

è strano pensare di sentire il silenzio

pensare che un solo silenzio rende anonime ed uguali centinaia di voci

quelle di tutti gli emigranti che sono andati via

*

Topolò, valli del Natisone, pt. II

Nel novembre del ‘43 i tedeschi fucilarono cinque partigiani nei boschi oltre le case.

La loro tomba è nel cimitero, sotto il monumento che li ricorda.

Un’incisione sulla lapide ne riporta i nomi, tutti meno uno, partigiano italiano ignoto.

Invece sapevano chi era, ma non stava bene che un carabiniere si fosse unito alle brigate comuniste.

Preghiamo l’eterno riposo per affidare i morti alla terra, ma dalla terra non impariamo la sepoltura del rancore.

Il partigiano italiano ignoto viene tradito di nuovo tutte le volte che qualcuno legge il suo non-nome.

Allora prendiamo un pennarello nero indelebile e sulla pietra scriviamo in maiuscolo,

scriviamo in tanti, ciascuno con la sua calligrafia e con l’orgoglio

di chi per settant’anni ha dovuto firmarsi con la X

ARCANGELO FABIANI

ARCANGELO FABIANI

ARCANGELO FABIANI

*

Domenica mattina ha traslocato la famiglia di bosniaci

che abitava qui di fronte

hanno ammassato su un furgone scoperto

tutte le loro cose

reti di letti mobili e giocattoli dei figli

la gente all’uscita di messa li guardava

senza capire come si potesse

spostare una casa intera in un solo viaggio

hanno salutato sorridendo come sempre

poi sono saliti

hanno messo in moto e sono andati via

l’ultima immagine che resta delle loro vite

è una scritta a pennarello nero sullo scatolone

caricato in fondo

FRAGILE

*

Preval

A volte capita che le farfalle

scorrano sul parabrezza prese nel flusso del vento

senza neppure toccare il vetro

e dietro alla macchina ritornino a volare come prima

non possono neanche gridare per lo spavento

sono così delicate che

si dovrebbe sollevarle con la mano

anzi, anzi

di mestiere voglio fare il lanciatore di farfalle

e alla fine di un giorno di lavoro

non dover contare le banconote in cassa

o controllare i voti scritti sul registro

ma guardare in alto un cielo

tutto pieno d’ali

*

(sono queste le righe che cercavo per Rose)

Cosa c’è nel museo di Auschwitz

ci sono scarpe abbastanza da calzarne i piedi

di una intera generazione

occhiali per vedere tutti i panorami d’Europa

valigie per milioni

di possibili ritorni a casa

tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima

il nome sulle etichette il fango secco sulle suole

solo una cosa è andata avanti

- non posso proprio chiamarlo vivere –

c’è una stanza intera piena di capelli

sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora

che nella vecchiaia

non li hanno mai raggiunti

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