È bene chiarire che, ancora oggi, nei corsi universitari di economia internazionale, il criterio fondamentale che viene insegnato, per valutare le aree monetarie ritenute “ottime”, è quello stabilito da Friedman (1953) e Mundell (1961). Secondo questa dottrina, il principale costo di un’unione monetaria consiste nella perdita di autonomia nel fissare una politica monetaria indipendente. Il modello macroeconomico che sottende a quest’idea è quello definito, genericamente, come modello "keynesian-monetarista", che presuppone l’esistenza di rigidità nominali: alcune variabili nominali, come prezzi o salari, non sono in grado di aggiustarsi immediatamente (o per lo meno, in tempi relativamente brevi) a shock esterni o a variazioni di domanda e/o offerta. Di conseguenza, quando cambiano i fondamentali del sistema economico (a seguito di variazioni di produttività in questo o in quel settore, o modificazioni della domanda o dell'offerta di questo o quel bene, eccetera), non riescono a prodursi in tempi sufficientemente brevi quelle variazioni dei prezzi relativi che sarebbero invece necessarie per ottenere, di nuovo, un'allocazione efficiente delle risorse.
In particolare, Friedman (1953) argomenta come, in presenza di rigidità nominali, il regime di cambi flessibili sia vantaggioso, poiché l’aggiustamento dei tassi di cambio può sostituire la (mancata) flessibilità dei prezzi.[1] Si consideri un’economia in cui i prezzi dei beni vengono fissati prima che venga reso noto, o sia osservabile, il valore di alcune variabili, come la produttività delle imprese. Una volta fissati, questi prezzi restano invariati (almeno per un po’ di tempo) anche nel caso in cui l’economia venga colpita da uno shock aggregato - per esempio, uno shock alla produttività totale dei fattori, che colpisce in egual misura tutti gli operatori economici, tanto gli esportatori quanto gli importatori o coloro che producono per il solo mercato interno.
In un’unione monetaria, o anche solo in un semplice regime di cambi fissi, il sistema di prezzi relativi non risponde a questa nuova informazione, e le scelte di produzione delle imprese risultano, di conseguenza, non ottimali, date le nuove condizioni del sistema economico.[2]
Con cambi flessibili, invece, l’autorità monetaria può indurre una variazione del tasso di cambio e può quindi modificare i prezzi relativi dei produttori nazionali rispetto a quelli di tutti gli altri produttori stranieri, garantendo un maggiore rispetto del criterio di efficienza.[3]
Seguendo questa logica, il principale costo di un’unione monetaria è rappresentato dal fatto che, a seguito dell’adesione all’unione, l’autorità monetaria nazionale perda la possibilità di rispondere agli specifici shock a cui è soggetto il proprio Paese. La domanda che sorge in questo caso è però la seguente: perché il confine ottimo dovrebbe essere proprio quello della nazione? Se ripetessimo il ragionamento su diversa scala, potremmo infatti concludere che sia ottimale avere monete regionali, piuttosto che provinciali, comunali e così via. Quello che frena il processo di proliferazione delle monete è la presenza di costi di transazione associati all’utilizzo di valute diverse. Esiste quindi un trade-off tra avere flessibilità (e utilizzare la politica monetaria per rispondere a shock idiosincratici) e costi di transazione.
In questo senso, Mundell (1961) afferma che:
- se, in riferimento ad un gruppo di nazioni, il loro ciclo economico risulta molto correlato, allora un regime di cambi fissi tra questi Paesi avrà un costo modesto, non essendovi particolare necessità di indurre variazioni nei prezzi relativi; in tal caso, riducendo i costi di transazione, può risultare ottimale formare un’unione monetaria;
- al contrario, se gli shock risultano non correlati e peraltro molto volatili, i costi di un’unione monetaria possono eccedere i benefici, rendendo preferibile adottare un sistema di cambi flessibili.[4]
Negli ultimi anni, la ricerca economica ha riscoperto il tema delle unioni monetarie. In particolare, un recente articolo di Chari, Dovis e Kehoe (2013, CDK) ha messo in discussione il criterio tradizionale, sopra descritto, argomentando come la perdita di sovranità monetaria possa rappresentare, sotto certe condizioni, non il principale costo, ma il principale vantaggio derivante dall’adesione ad un’unione monetaria. Tale predizione vale esclusivamente per Paesi affetti da problemi di credibilità, il che aiuta certamente a spiegare come l’adesione all’Euro, in riferimento al periodo pre-crisi, abbia permesso a diversi Paesi europei (in particolare a quelli, storicamente, affetti da maggiori problemi di credibilità, come l’Italia) di avere tassi di interesse nominali particolarmente bassi e tassi di inflazione estremamente contenuti.
Per meglio comprendere la tesi sviluppata in CDK, occorre chiarire, innanzitutto, perché la politica monetaria sia soggetta a problemi di credibilità. Il tema è stato ampiamente analizzato in letteratura, a partire dal fondamentale contributo di Kydland e Prescott (1977) sull’incoerenza temporale (time inconsistency). Per illustrare il punto possiamo considerare due esempi.
Il primo è legato agli effetti dell’inflazione sul valore reale del debito emesso dai governi. Ex-ante, per il governo è ideale promettere tassi di inflazione molto bassi: l’inflazione ha dei costi, ma sostanzialmente nessun beneficio, dato che la futura svalutazione del debito (per mezzo dell’ inflazione) è compensata dal tasso di interesse nominale più elevato che verrà richiesto dai creditori. Ex-post, invece, una volta fissato il tasso d’interesse nominale, il governo ha incentivo a creare inflazione (ovvero a generare surprise inflation), così da ridurre il costo di servizio del debito.[5]
Un secondo esempio è quello proposto dal paper di CDK.[6] Assumiamo che, per effetto dell’apertura commerciale, il mercato dei beni tradeable (quelli importabili/esportabili) sia concorrenziale, al contrario di quello dei beni non-tradeable, dove le imprese dispongono di potere monopolistico ed i prezzi sono caratterizzati da rigidità nominali. Una volta che le imprese del settore non-tradeable fissano i prezzi dei loro prodotti, il governo avrà allora incentivo a creare maggiore inflazione, al fine di correggere le distorsioni di mercato create dai markup applicati dai quelle stesse imprese (che alterano i prezzi relativi dei beni, “gonfiando” i prezzi dei beni non-tradeable rispetto a quelli, concorrenziali, dei beni tradeable).
Tuttavia, se le imprese anticipano il comportamento dell’autorità monetaria, esse avranno, a loro volta, un forte incentivo a sfruttare ancor di più il loro potere monopolistico, fissando prezzi ancora più elevati e generando così ulteriore inflazione, fino al punto in cui l’autorità monetaria non avrà più incentivo ad alimentare la spirale inflazionistica, ritenendone eccessivi i costi. In altre parole, la risposta delle imprese renderà vano il tentativo dell’autorità monetaria di correggere le distorsioni monopolistiche del mercato; la condotta dell’autorità monetaria finirà per produrre, come unico risultato, quello di minare la stabilità del quadro macroeconomico, con un’inflazione più alta e volatile, e quindi più dannosa per l’intera economia.
Il problema dell’incoerenza temporale nelle decisioni di policy, illustrato da questi due esempi, è pervasivo. In linea teorica, il rimedio più semplice al problema di credibilità dell’autorità monetaria consisterebbe nell’adozione di una sistema di cambi fissi, magari con l’introduzione di un currency peg, che vincoli la quantità di moneta circolante nel paese alla disponibilità di riserve valutarie denominate nella valuta rispetto alla quale si dichiara la parità. Tuttavia, questa scelta è facilmente reversibile, almeno da un punto di visto tecnico (anche se non priva di pesanti conseguenze economiche, come mostrano vari episodi nella storia economica recente).
Un rimedio più efficace è certamente quello di rinunciare alla propria valuta nazionale, il che può avvenire, fondamentalmente, in due modi.
Il primo è che il Paese con problemi di credibilità rinunci alla propria valuta nazionale e adotti la moneta di un Paese terzo, che non ha problemi di credibilità. In questo scenario, comunemente noto come “dollarizzazione”, il Paese che rinuncia alla propria valuta sceglie di rinunciare contestualmente alla politica monetaria, accettando in toto quella decisa dall’autorità monetaria del Paese a cui si “lega”.[7] [8]
Il secondo metodo (quello scelto, di fatto, in seno all’Unione Europea) è rappresentato dall’adesione a un’unione monetaria vera e propria, in cui due o più stati sovrani decidono di rinunciare alle proprie valute nazionali per adottare una valuta comune di nuovo conio, il cui governo è demandato ad un’istituzione sovranazionale, che non persegue, quindi, l’interesse di un singolo stato.[9] Per certi aspetti, questo è un rimedio ancora più drastico ed efficace al problema di credibilità, poiché non solo implica la rinuncia ad una valuta nazionale, come in una “dollarizzazione”, ma pone anche problemi tecnici di difficile soluzione sulle modalità e sulla fattibilità di un’eventuale uscita dall’unione monetaria.
Tornando al lavoro di CDK, questo ha come elemento di maggiore originalità proprio quello di chiarire come un’unione monetaria possa incrementare la credibilità dei Paesi membri, allorché le decisioni assunte sulla conduzione della policy vengono prese collegialmente. Il meccanismo di base è semplice. In un’unione monetaria, il fatto di avere a disposizione un unico strumento di policy è certamente una restrizione che, tuttavia, rende meno vantaggioso deviare, ex-post, rispetto alla politica annunciata, allorché i paesi aderenti sono soggetti a shock diversi. Gli incentivi a deviare sono minori proprio perché non si può scegliere una politica specifica per ogni singolo paese.[10]
Per fare un esempio, si pensi al caso del debito pubblico: nel decidere se generare più o meno inflazione, in presenza di shock fiscali differenti (e/o diversi livelli di debito pubblico) l’autorità monetaria dell’unione dovrà tenere in conto le preferenze dei diversi stati membri. Per quelli con finanze pubbliche in cattivo stato, come la Grecia e l’Italia, i costi di creare inflazione saranno inferiori ai benefici (riduzione del valore reale del debito). Per stati con finanze pubbliche in condizione decente, come la Germania e l’Olanda, i costi di creare inflazione saranno superiori ai benefici (riduzione del valore reale del debito). La BCE si troverà quindi a dover mediare tra questi incentivi; rispetto alla banca centrale del singolo paese, sarà quindi in grado di mantenere un livello di inflazione più costante e soprattutto inferiore per i paesi con maggiori problema di credibilità. È bene sottolineare che entrambe queste caratteristiche dello strumento di politica monetaria sono da considerarsi positive, secondo la dottrina economica prevalente.
La teoria sviluppata da CDK ribalta, quindi, il criterio tradizionale di Mundell (1961): sono proprio paesi eterogenei e con cicli economici non sincronizzati a giovarsi maggiormente dalla partecipazione ad un’unione monetaria. Se tutti i membri dell’unione avessero lo stesso ciclo economico (o lo stesso stato delle finanze pubbliche), allora il problema di credibilità per l’autorità monetaria dell’unione sarebbe esattamente lo stesso di quello dei singoli paesi, ognuno con una politica monetaria indipendente. È proprio il disaccordo sulla politica da seguire che consente di non assecondare le “tentazioni” inflazionistiche che alcuni paesi possono avere ex-post, riducendo così le aspettative inflazionistiche (ex-ante) di investitori, imprese e famiglie.
È chiaro come questo ragionamento possa applicarsi al caso di nazioni che sono ex-ante omogenee (e, quindi, hanno tutte la stessa probabilità di palesare problemi di credibilità), ma risulti difficilmente applicabile ad un contesto – quale quello dell’Eurozona – in cui i paesi sono notoriamente eterogenei, quanto a credibilità nella conduzione della policy. Il modello CDK può quindi spiegare quali siano i vantaggi dell’unione monetaria per i paesi con problemi di credibilità, ma non chiarisce perché paesi virtuosi e con pochi problemi di credibilità (in media) possano comunque trovare conveniente aderire alla stessa unione monetaria a cui partecipano paesi meno virtuosi. Detto altrimenti, quali sarebbero stati o sono i vantaggi per la Germania nella adesione all’euro?
Nel modello di CDK (e, più in generale, nei modelli macroeconomici esistenti in letteratura), la differente credibilità delle autorità monetarie dei singoli stati può derivare unicamente da una diversa esposizione agli shock idiosincratici, ma non da un grado diverso di coerenza temporale. Nei modelli, l’autorità monetaria può essere di tipo commited o non-commited (ovvero, coerente o non coerente nel tempo), il che determina il criterio fondamentale per determinare l’area valutaria ottima: rispettivamente, quello di Mundell (1961) o quello di CDK.[11] Tuttavia, il fatto che l’autorità monetaria sia di un tipo piuttosto che dell’altro è una caratteristica “trasversale”, che accumuna tutti i paesi candidati a formare l’unione. Se l’autorità fosse committed in alcuni paesi e non-commited in altri, avremmo allora vigenti due criteri diametralmente opposti e inconciliabili, che farebbero cadere ogni possibilità, e ogni vantaggio, di formare un’unione monetaria.[12]
Nei modelli, la diversa credibilità dei vari paesi può quindi essere formalizzata solo attraverso una diversa volatilità degli shock idiosincratici che colpiscono ciascuna nazione. L’autorità tedesca, per dire, avrebbe quindi maggiore credibilità di quella italiana solo perché avrebbe minori tentazioni inflazionistiche (per correggere le distorsioni di mercato o ridurre il valore reale del debito), assumendo che gli shock negativi che colpiscono la Germania siano meno probabili di quelli che interessano l’economia italiana. Anche in questo caso, però, non si potrebbe escludere che si verifichi comunque uno stato della natura (ovvero, una combinazione di shock idiosincratici) tale per cui sia il paese con maggiore “credibilità” ad avere maggiori tentazioni inflazionistiche. Partecipare ad un’unione monetaria con i paesi del Sud Europa diventerebbe quindi, per la Germania come per altri paesi “virtuosi”, una sorta di assicurazione contro il suo possibile, per quanto meno probabile, bad state.
Occorre inoltre rilevare che il modello qui descritto non tiene in conto il tradizionale vantaggio di aderire ad un’unione monetaria, rappresentato dai minori costi di transazione associati alla moneta unica, a cui possono aggiungersi ulteriori benefici, non direttamente esplicitati da CDK, ma riconducibili alla generica categoria dei “benefici dello scambio”. Un paese altamente produttivo e fiscalmente-monetariamente credibile ha infatti tutto l’interesse a creare incentivi affinché i paesi vicini si uniformino a queste condizioni, per quanto questo possa avere, per il paese in oggetto, un costo anche non trascurabile. Se i suoi vicini riuscissero a colmare i gap di produttività e/o credibilità, il aese virtuoso avrebbe infatti:
(i) la possibilità di scambiare le proprie merci con altre merci, di produzione estera, a maggiore valore aggiunto, con enormi guadagni in termini di benessere;
(ii) la possibilità di investire in asset finanziari esteri maggiormente affidabili, ovvero non esposti al continuo rischio di default, con ovvi benefici in termini di diversificazione del portafogli;
(iii) la possibilità di fare mutual insurance, contro qualsiasi shock idiosincratico negativo, con benefici tanto maggiori, quanto più la controparte risulta altrettanto virtuosa.
La precisa quantificazione di tali vantaggi è comunque oggetto di dibattito, non essendoci evidenza empirica in tal senso. Tuttavia, i recenti fatti in Europa hanno sicuramente rivitalizzato la ricerca economica sulle aree valutarie ottimali e sul sistema di cambio più idoneo, a seconda delle circostanze. La ricerca economica seria procede a piccoli passi e si pone domande difficili, non ha soluzioni immediate per tutto. Ma, come questo esempio spiega, la rigorosa analisi dei problemi permette di comprendere sia ciò che sappiamo spiegare sia, soprattutto, ciò che ancora non sappiamo spiegare. E questo è utile.
Note
[1] Recentemente vi è stato un revival di questo meccanismo: si vedano, in proposito, una serie di paper di Schmidht-Grohoe e Uribe, oppure di Farhi e Werning.
[2] Se lo shock è positivo, gli operatori finiranno per vendere meno rispetto a quanto sarebbe possibile, e soprattutto efficiente: il prezzo fissato a-priori risulterà infatti maggiore di quello che potrebbero fissare ora, qualora internalizzassero la loro “sorprendente alta” produttività nella decisione di pricing. Se lo shock fosse invece negativo, le quantità vendute risulterebbero eccessive rispetto a quelle ottimali, per effetto di prezzi troppo bassi rispetto a quanto vorrebbe il criterio di efficienza e i produttori accumulerebbero gravi perdite.
[3] Tale effetto richiede che valga la legge del prezzo unico. Un’ampia evidenza empirica suggerisce, tuttavia, che la legge del prezzo unico non trovi particolare riscontro nei dati. Inoltre, anche l’effetto dei movimenti del tasso di cambio nominale sui prezzi relativi risulta molto limitato nei dati, stando alla sterminata letteratura sul pass-through dei tassi di cambio. Queste osservazioni mettono in dubbio la rilevanza empirica della tradizionale teoria delle area monetarie ottimale (si veda, in proposito, Devereux e Engel, 2003).
[4] Una parte di letteratura empirica ha provato a rendere operativo tale criterio; si veda, ad esempio, lo studio di Alesina, Barro e Tenreyro (2003).
[5] Si noti come svalutare il debito pubblico mediante inflazione sia equivalente a fare default sul debito. Se questo fosse l’obiettivo del governo, perché allora non procedere direttamente ad una ristrutturazione del debito? Non è detto, infatti, che un default esplicito abbia costi reputazionali superiori ad un default implicito (mediante inflazione/svalutazione). Usare la leva dell’inflazione può risultare tuttavia più facile, dal momento che non richiede di trattare con i creditori e non configura un’esplicita violazione dei vincoli contrattuali. Ciò nonostante, non è difficile immaginare che l’inflazione possa generare effetti collaterali tali da far propendere per una soluzione più diretta, come una ristrutturazione esplicita.
[6] Per quanto il primo meccanismo possa risultare più rilevante, la sua modellizzazione risulta ben più complicata da un punto di vista tecnico ed è attualmente oggetto di ricerca da parte di CDK.
[7] In ambito economico, questo processo è comunemente definito “dollarizzazione”, in quanto, storicamente, gli esempi più rilevanti hanno riguardato Paesi (quali l’Ecuador, dal 2000 in avanti) che hanno deciso di sostituire la valuta nazionale con il dollaro statunitense. Una scelta di questo tipo è stata fatta recentemente dal Montenegro che, passando all’euro, ha di fatto declinato la dollarizzazione in “eurizzazione”.
[8] L’espediente della dollarizzazione come possibile rimedio ai problemi di credibilità è stato analizzato in vari paper, tra cui Alesina e Barro (2002), che formalizza quanto originariamente proposto da Friedman (1971). L’assunzione su cui si regge la loro analisi è che la politica monetaria del Paese credibile (quello al quale si “lega” il Paese non credibile) non sia influenzata dal fatto che la sua valuta venga adottata anche da un’altra nazione. Per questo motivo, la loro analisi non fornisce indicazioni utili ad affrontare il tema delle unioni monetarie, quantomeno in presenza di istituzioni collegiali proposte al governo della moneta unica.
[9] La BCE è stata disegnata sul modello del Federal Reserve System: le singole regional banks dei Paesi aderenti all’Euro sono rappresentate nel consiglio direttivo della banca, che fissa la politica monetaria della BCE e fissa i tassi di interesse di riferimento. Il consiglio esecutivo (board), responsabile della gestione quotidiana della BCE, si compone invece di sei membri (tra cui il Presidente) nominati dai leader di governo dell'area Euro. Nonostante ciò, è opinione comune che sia la Germania a dettare legge all’interno della BCE. I più recenti eventi, con le dimissioni di Jurgen Stark e la divergenza di opinioni tra Draghi ed il presidente della Bundesbank, Weidmann, sembrano comunque corroborare il fatto che le scelte nella BCE siano effettivamente collegiali, per quanto ogni Paese abbia, ovviamente, un peso specifico diverso dal punto di vista politico.
[10] Come Fernando Alvarez ha avuto modo far notare ad uno degli autori di questo articolo, un argomento simile fu formulato nei Federalist Paper da James Madison per sostenere ampi poteri al governo federale (centrale): si veda in particolare Federalist n. 10, http://thomas.loc.gov/home/histdox/fed_10.html.
[11] Se le autorità monetarie sono committed, si ottiene il tradizionale criterio di Mundell-Fleming, per cui l’unione monetaria è preferibile quanto maggiore è la correlazione tra gli shock idiosincratici dei vari Paesi (dato che questo riduce il vantaggio di essere indipendenti nella conduzione della policy). Se le autorità monetarie non sono committed, vale invece il principio contrario, stabilito da CDK, per cui l’unione monetaria diventa tanto più benefica, quanto minore è la correlazione tra gli shock.
[12] In questo caso, l’unica opzione percorribile per il Paese con autorità monetaria non commited sarebbe quella di procedere ad una sorta di “dollarizzazione”, adottando la valuta del Paese con autorità commited. Almeno in linea di principio, un rimedio al problema di credibilità, alternativo all’introduzione dell’Euro, avrebbe potuto essere rappresentato proprio dalla scelta dei Paesi dell’Europa meridionale di adottare la valuta di un Paese solido e credibile, quale la Germania, sostituendo lire, pesetas o dracme con il marco tedesco. È chiaro che questo scenario non potesse essere considerato “fattibile” da un punto di vista politico, dal momento che avrebbe implicato la totale rinuncia alla possibilità non solo di determinare, ma anche di condizionare la politica monetaria, accettando in toto quella scelta dalla Bundesbank (ottima, in linea teorica, per l’interesse nazionale tedesco ma assolutamente slegata dalle condizioni e dalle necessità degli altri Paesi).
Riferimenti Bibliografici
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Devereux, M., e C. Engel (2003): “Monetary policy in the open economy revisited: Price setting and exchange-rate flexibility”, Review of Economic Studies, Vol. 70 (4), pp. 765-783.
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Schmitt-Grohé, S., and M. Uribe (2013): “Downward nominal wage rigidity, currency pegs, and involuntary unemployment”, mimeo.
Bell'articolo, che rende abbastanza comprensibili a ingoranti come me cose così complesse.
Non so se sia voluto, mi pare però che ci sia una argomentazione che non venga presa in considerazione nè da CDK ne dagli autori nel dare una risposta alla domanda:
ed è il vantaggio, politico ed economico, della costruzione di uno stato federale europeo. La moneta unica è un passaggio, ragionevolmente irreversibile, di questo percorso, ed io credo sia il vantaggio principale per tutti. Allora, siccome giustamente non ha senso una moneta padana, nè milanese nè del Giambellino, forse è il momento di interiorizzare che non hanno neppure senso monete nazionali europee.
Che l'euro possa essere stato un primo passo verso la creazione di uno stato federale europeo e' una lettura condivisa da parecchi. Pero' on ho mai capito bene quali possano essere i vantaggi di devolvere maggiori poteri ad un governo europeo. Come accennato in una nota, la stessa logica che applichiamo alle politiche monetarie puo' essere applicata alle politiche fiscali (in presenza di time inconsistency problem). Ma il problema merita di essere studiato (e probabilmente lo e', solo che ne so poco).