La sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni

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Una recente sentenza della Corte Costituzionale ha annullato retroattivamente la norma (contenuta nella riforma Fornero) che limitava la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici all’inflazione programmata per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS. Questa decisione ha riaperto un dibattito intorno alla natura politica delle sentenze della Consulta e, più in generale, intorno agli effettivi vincoli che il sistema giuridico e istituzionale italiano implicitamente impone ad ogni tentativo di riforma delle dinamiche della spesa pubblica.

Vale la pena esaminare in dettaglio i contenuti e le motivazioni di questa sentenza, soprattutto per evitare una rappresentazione manichea che vorrebbe Governo  e Corte Costituzionale contrapposti, il primo impegnato a riformare il paese e contenere la spesa pubblica, l'altra pronta a demolire i pur modesti risultati di questo impegno sulla base di ragionamenti giuridici formalisti e privi di razionalità economica.

La sentenza nasce dall'unione di diverse questioni di legittimità sollevate da diversi giudici (si tratta in particolare del Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, della sezione giurisdizionali per la Regione Emilia–Romagna e per la Regione Liguria della Corte dei conti) i quali, trovandosi a giudicare circa richieste di condanna dell’INPS alla corresponsione dei ratei di pensione maturati e non percepiti nel biennio 2012-2013, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma in oggetto, hanno ritenuto necessario rimettere alla Corte Costituzionale la decisione sui profili di incostituzionalità eccepiti. Poiché “i giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti”, la Corte ha deciso innanzitutto di riunirli e di pronunciarsi in merito con un’unica sentenza. Tutti i giudici rimettenti avevano ritenuto che l'illegittimita' costituzionale del blocco della perequazione contenuto nella riforma Fornero, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, avrebbe contrastato il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati [per i giuristi:  il comma 25 dell’art. 24 sarebbe stato costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione.

I giudici, inoltre, avevano ipotizzato che la norma censurata avrebbe violato anche gli artt. 2, 23 e 53 della Costituzione, poiché, nel caso di specie, “indipendentemente dal nomen iuris utilizzato”, ossia al di là della forma in cui il provvedimento era stato formulato, la misura di azzeramento della rivalutazione automatica avrebbe configurato una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Imponendo alle parti di concorrere alla spesa pubblica in una misura non ancorata alla loro effettiva capacità contributiva, la norma avrebbe dunque violato il principio di eguaglianza. (Questo e' lo stesso meccanismo che la Corte ha utilizzato nell'ottobre 2012 per pronunciarsi contro i tagli agli stipendi dei magistratii e dei dipendenti pubblici in generale; ne abbiamo discusso qui e qui  settore pubblico). Uno solo dei giudici rimettenti aveva richiesto la censura della norma anche con riferimento all’art. 117, primo comma della Costituzione, in relazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e richiamando, infine, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 

Che cosa ha deciso la Corte rispetto alle questioni sollevate? Riassumiamolo brevemente e con chiarezza. Con la sentenza n.70/2015 la Corte Costituzionale ha stabilito che:

1. La norma riguardante il blocco della perequazione non ha carattere tributario, poiché essa non contempla quegli elementi che la Corte, con giurisprudenza costante, ha chiarito essere indefettibili alla fattispecie tributaria. Affinché un obbligo normativo possa essere considerato un tributo “la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto contrattuale; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese”. Un tributo consiste essenzialmente in un “prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva” (sentenza n. 102 del 2008); e, poiché il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico e poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa, la norma non possiede i requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte e non può pertanto essere censurata per una violazione del principio di uguaglianza o dei principi di progressività e capacità contributiva. 

2. La questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art.117 della Costituzione ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è infondata perché il giudice che l’ha sollevata non ha fornito alcuna motivazione adeguata in proposito, limitandosi a evocare dei parametri costituzionali “senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione”.

3. La norma configura invece una violazione dei principi sanciti agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione. La Corte ricostruisce la logica alla base del provvedimento che ha introdotto il meccanismo di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, dando attuazione al disposto dell’art.36 della Costituzione (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”) e dell’art.38, secondo comma (“I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”) ed evidenzia come l’adeguatezza del trattamento pensionistico a garantire dignità di vita e protezione del cittadino non più in grado di provvedere a sé con il lavoro non può prescindere da un meccanismo che tuteli tale trattamento dall’erosione causata dalle dinamiche inflattive. Quindi la Corte ricostruisce la successione dei provvedimenti che nel corso del tempo hanno implementato e poi modificato tale meccanismo, soffermandosi in particolare su quelle norme che in tempi recenti hanno stabilito alcune temporanee sospensioni o riduzioni della perequazione automatica. Queste norme sono state tutte oggetto di un vaglio di costituzionalità e la Corte sottolinea come in ogni singolo caso essa si sia espressa rigettando le questioni di incostituzionalità e riconducendo la legittimità dei provvedimenti alla naturale discrezionalità di cui il legislatore gode nello stabilire i mezzi e le forme del contenimento della spesa pubblica. In particolare, la sentenza richiama il precedente del giudizio espresso con sentenza n. 316 del 2010 circa l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007. In quel caso, il legislatore aveva stabilito di azzerare per la sola annualità 2008 la rivalutazione dei trattamenti pensionistici particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Tale misura era stata valutata dalla Corte come ragionevole e conforme al dettato costituzionale perché rispettosa del principio di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni e perché “finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008”. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva espresso un monito al legislatore affinché tenesse conto nei provvedimenti futuri del fatto che una sospensione a tempo indeterminato ovvero una frequente reiterazione del blocco della perequazione avrebbe prodotto effetti cumulativi in conflitto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, poiché anche trattamenti di importo elevato avrebbero potuto finire col non essere sufficientemente difesi dall’inflazione. La motivazione con cui la Corte ha censurato la norma del governo Monti è dunque da ricercarsi nell’aver ignorato questo monito e nell’aver reiterato una misura una tantum di blocco della perequazione senza tenere conto del suo conflitto con gli obblighi posti dagli artt.36 e 38 della Costituzione e addirittura senza fornirne un’adeguata motivazione. Nel caso della norma in oggetto, infatti, il legislatore si sarebbe limitato a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza lasciare emergere dal disegno complessivo della riforma la necessità della “prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), la Corte osserva, “non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”.

Sulla base di queste ragioni, dunque, a differenza che nei casi analoghi precedenti, la Corte ha stabilito l’incostituzionalità della norma con gli effetti sugli equilibri della finanza pubblica che tutti abbiamo ora davanti agli occhi.

A ben leggere la vicenda, la Corte, richiamando esplicitamente la lunga giurisprudenza con la quale ha dato costante sostegno agli interventi di contenimento della spesa pubblica fatti a danno delle pensioni, ha voluto sottolineare con questa sentenza come la specifica norma oggetto di censura abbia segnato il superamento di quei limiti di ragionevolezza che devono sostenere ogni produzione legislativa che voglia essere conforme alla Costituzione.

Ma il concetto di ragionevolezza è per sua natura assai sfumato e sottoposto ad ampi margini di discrezionalità interpretativa. Questa discrezionalità conferisce alle decisioni della Corte una natura intrinsecamente politica. Non e' quindi completamente astruso l'argomento di ritiene di poter utilizzare la natura politica delle decisioni per accusare la Corte di svolgere un’opera di rallentamento dell’azione riformatrice. Piu' in generale le sentenze dell’alta corte, anche quando non implicano valutazioni di ragionevolezza, hanno sempre una natura politica. Ce l’hanno perché la Corte è un organo elettivo e dunque per essenza la sua natura è politica. Ma ce l’hanno soprattutto perché lo spazio nel quale la norma viene interpretata e coniugata in riferimento alle concrete necessità del momento storico, alle concrete tensioni e sensibilità che emergono nella società in ciascun momento storico, è per definizione uno spazio politico.

In principio, cautela e' dovuta in questi giudizi per il fatto che l’aggettivo ‘politico’ designa in questo contesto la necessità inaggirabile del fatto che in ogni sistema giuridico in quanto tale (nei sistemi di civil law come quello italiano ed ancor più in quelli di common law come quello americano) l’attività normativa viva di una naturale elasticità che la renda adeguata ai dati della fattualità storica. La natura politica delle sentenze costituzionali non implica dunque, dal punto di vista concettuale, né la loro arbitrarietà né la loro subordinazione strumentale a forzature interessate del dettato costituzionale.

Detto questo, pero', guardando agli aspetti meramente numerici della cosa, resta il fatto che con due diverse sentenze la Corte ha deciso che il blocco della perequazione automatica delle pensioni superiori ad otto volte il minimo per il solo anno 2008 (un anno che ha visto un’inflazione misurata dall’ISTAT con l’indice IPCA al 3,5%) fosse ragionevole mentre il blocco della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il minimo per le annualità 2012 e 2013 (anni per i quali l’inflazione rilevata è stata rispettivamente del 3,0% e del 1,2%) non lo sia. 

E quindi si può lecitamente chiedere: sulla base di quali argomenti quantitativi è stata fissata questa soglia di ragionevolezza? Sulla base di quali considerazioni statistiche si è ritenuto di misurare il danno sociale arrecato dalle due distinte misure?

E si potrebbe forse spingere questo ragionamento fino ad esigere dalla Corte che, in materia di valutazione di provvedimenti economici sotto il profilo della ragionevolezza, le decisioni siano assunte sulla base di argomentazioni ben fondate nella teoria e di valutazioni che tengano conto anche del costo sulla finanza pubblica della mancata adozione dei provvedimenti oggetto di censura e delle stesse pronunce di incostituzionalità. Questo significherebbe pero' accrescere enormemente il senso politico delle sentenze costituzionali, azzerando di fatto la differenza di ruolo e di prospettiva tra Legislatore e Consulta, la cui dialettica invece garantisce al sistema stabilità ed
equilibrio. La questione si presenta quantomeno complessa.

La rappresentazione manichea che vorrebbe la politica impegnata a riformare il sistema ed in questo ostacolata da organi costituzionali arroccati a difesa dello status quo con motivazioni formaliste e prive di congruenza economica, per quanto ovviamente semplicistica e anche populista, potrebbe apparire supportata dal confronto tra la sentenza in oggetto e varie altre sentenze passate riguardanti aumenti invece che tagli alla spesa pubblica. La corte è intervenuta infatti molteplici volte sulle norme che disciplinano la finanza pubblica; un ottimo quadro riepilogativo della giusrisprudenza in materia e' rinvenibile quiAd esempio, con la sentenza n.1/1966 (e successivamente con numerose altre pronunce), la Corte, interpretando estensivamente la previsione dell’art.81 (nella formulazione vigente all’epoca) ha stabilito:

i) la legittimità costituzionale delle leggi di spesa prive di copertura degli oneri futuri;

ii) che l’obbligo del legislatore ad indicare i mezzi con cui fronteggiare nuove e maggiori spese non comporta, per le spese che impegnano più esercizi finanziari, la necessità che queste siano indicate nel bilancio di previsione negli esatti termini e nell’esatto importo con la corrispondente puntuale copertura, in quanto è possibile, in questi casi, effettuare il riscontro nei bilanci dei vari esercizi finanziari;

iii) che è consentita la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l'inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l'accertamento formale di nuove entrate, l'emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate.

Come è noto, questi pronunciamenti sono stati considerati come un’autorizzazione de facto al parlamento ad aggirare il dettato dell’art.81 e a prevedere spese coperte soltanto da entrate future (la cui incertezza oggettiva la stessa Corte ha peraltro riconosciuto) e quindi come la legittimazione all’aumento indeterminato del debito pubblico.
Un punto politico assai importante è per me il seguente: pronunciamenti analoghi saranno possibili anche rispetto al nuovo art.81 introdotto con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1. Sebbene tale articolo, prevedendo il cosiddetto “pareggio di bilancio”, abbia superato la giurisprudenza in materia di indebitamento delle sentenze sopra richiamate, sono convinto che sia ancora possibile che futuri provvedimenti assunti nel quadro dei principi del nuovo art.81 possano essere vanificati da sentenze della Corte che, poggiandosi sull’elasticità del dettato, diano fondamento costituzionale ad una sua interpretazione non letterale e stringente.

Al netto di ogni considerazione politica, ci sono senza dubbio varie lezioni che si possono trarre da questa sentenza, proprio nell'interesse di chi intende promuovere e difendere significative modifiche delle dinamiche della spesa pubblica:

1. Nel giudizio della Corte vi è un’implicita censura del degrado a cui la tecnica legislativa sembra essere sottoposta da molti anni ormai. Può sembrare una questione marginale riservata a burocrati ed addetti ai lavori ma non lo è affatto. Il problema dell’oscurità, della farraginosità, dello scadente apparato tecnico argomentativo con cui vengono elaborate le norme è un grande tema per i veri riformatori: l’effettiva capacità di implementare qualsiasi riforma e qualsiasi intervento governativo, condiziona la qualità della democrazia, cioè la qualità del rapporto fondamentale tra cittadini e stato, che è mediato dalla norma. Ogni funzionario pubblico impegnato a dare concreta attuazione alle leggi e ad utilizzare gli strumenti attraverso cui governo dopo governo da diversi anni si decide di “riformare” la macchina amministrativa e della spesa pubblica (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle più recenti innovazioni in materia di fatturazione elettronica, certificazione dei crediti, dichiarazione dei redditi precompilata, riassetto delle competenze delle province, digitalizzazione dell’attività amministrativa ecc…) può testimoniare a favore della scadente qualità dei testi normativi, che di fatto spesso, con l’intenzione di “semplificare” il sistema, ne accrescono esageratamente la complicatezza e il disordine (di buone intenzioni, si sa, è lastricata la via che conduce all’inferno…).

2. La sentenza afferma con chiarezza che il blocco della perequazione automatica è un intervento che non ha natura tributaria e quindi non può incorrere nel pericolo di una
violazione del principio di uguaglianza. È un’affermazione importante, che può suggerire molto ai tecnici preposti ad escogitare soluzioni al problema del contenimento della spesa pubblica tali che non risultino incostituzionali ad un successivo vaglio.

3. La sentenza, coordinatamente alla precedente giurisprudenza della Corte, rivela con chiarezza che il tipo di irragionevolezza che può determinarne la sostanziale
incostituzionalità degli interventi normativi è fortemente connessa alla loro mancanza di progressività ed al loro carattere estemporaneo. Il monito espresso nel 2010 dalla Corte invitava chiaramente il governo a non reiterare misure una tantum i cui effetti cumulativi avrebbero di fatto contraddetto le prescrizioni degli artt.36 e 38 della Costituzione. Si può leggere questo monito - oggi rafforzato dalla sentenza 70/2015 - come un limpido invito a non incidere nella sfera dei diritti soggettivi con misure estemporanee, dettate da generiche necessità di quadratura contabile, ma a sviluppare una visione chiara organica e coerente della materia previdenziale, nella quale le esigenze (anch’esse costituzionalmente tutelate) di contenimento e buona gestione della finanza pubblica siano ben coordinate con i diritti sanciti dagli artt.36 e 38. Anche qui c’è tanta materia per le strutture tecniche preposte alla concreta elaborazione delle riforme ma c’è soprattutto un’importante indicazione metodologica data al legislatore e dunque alla politica: l’indicazione della necessità di fare interventi sistemici che riformino la situazione esistente tenendo conto dell’effettiva complessità delle relazioni che sussistono tra tutte le componenti e le dinamiche del sistema.

Ma la lezione politica principale da trarre da questa vicenda è che solo una chiara inequivocabile e forte espressione della volontà politica alla base delle norme può difenderle da interventi di censura. Questa chiarezza di intenti deve esprimersi innanzitutto attraverso la qualità del processo legislativo. Il rigore del procedimento legislativo, deve rendere la volontà del legislatore chiara inequivocabile e ben fondata nei principi dell’ordinamento. Solo subordinatamente a questa necessità la politica potrebbe valutare anche l’opportunità di una modifica costituzionale che vincoli la Corte ad interpretazioni del testo costituzionale di tipo più originalist (per usare una formula tipica del dibattito giuridico americano) e riduca dunque il margine di discrezionalità della sua attività interpretativa.

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Commenti

Ci sono 35 commenti

Come si può dedurre dagli art. 3 e 36, primo comma e 38 secondo comma, che un blocco della rivalutazioni di pensioni superiori a tre volte il minimo sia incostituzionale?

Scusate, se non rivalutando queste pensioni, esse non assicurano più un'esistenza libera e dignitosa, non garantiscono più mezzi adeguati eccetera eccetera, a maggior ragione non sono in grado di farlo le minime, quelle tre volte inferiori, che quindi dovrebbero essere immediatamente triplicate.

Quegli articoli della Costituzione sono dettati per la protezione dei più deboli, che può essere attuata da istituti come la paga oraria minima o la pensione minima.

Quella di volerli applicare alle pensioni di benestanti oppure addirittura a quelle d'oro è semplicemente, come giustamente è stato detto, una pagina vergognosa della corte costituzionale, che si può riassumere in questo semplice modo: abbiamo la possibilità di prenderci questi soldi e ce li prendiamo

E' auspicabile una riduzione di prerogative discrezionali della Corte Costituzionale? E poi cosa rimane alla democrazia per bilanciare il potere del governo, il Papa o il viaggio a Lourdes?

Resta tuttavia lo sbigottimento di fronte all'apparente follia del pronunciamento. Cos'è: il fuoco amico? Se di pronunciamento politico si deve supporre, la sua relativa finalità generale sfugge al ragionamento, e vengono in mente solo scenari da film di spionaggio, dove l'agente 007 opera per un fine forse buono o forse cattivo ma sconosciuto al resto del popolo perché implica i rapporti tra le superpotenze e anche gli ufo se possibile. Che ne so: gliel'ha ordinato la Merkel che ha deciso di sbarazzarsi dell'Italia, con la benedizione di Obama? E cosa di meno se no, rispetto alla sfrenata fantasia? Oppure invece si tratta di una deformazione professionale del giurista che, ignaro del mondo e preso nella rete della sua disciplina, cavilla sulle parole in modo forbito ma sconsiderato? È espressione forse della pochezza italica in generale, che di fronte ad un filo di ripresa e all'altrettanta leggerezza del governo sull'esistenza dei tesoretti, corre ad accaparrarsi il primato della generosità prossima ventura? Vogliono mettere in difficoltà il governo sotto elezioni facendo brillare una bomba atomica! Renzi sotto sotto è d'accordo! Ed ecco che si torna al film di 007.

Boh?!

Sembrano tutti matti comunque! E, loro malgrado, ce li dobbiamo pure tenere, però.

Sono un pensionato (non certo un super-pensionato!) che verrebbe avvantaggiato dalla sentenza, ma mi trovo d'accordo con quanto scrive Pigi. Certo : è sempre meglio ricevere un po' di più, ma questa misura retroattiva, costringerà comunque a prendere provvedimenti economici per coprire il "Buco" .... provvedimenti che danneggeranno tutti, anche chi sta peggio di me. A questo punto, penso che, invece di far retorica sulla solidarietà, sarebbe ora che coloro che possono siano disponibili a qualche piccolo sacrificio per il bene comune.... con qualche decina di euro in più o in meno al mese, sopravvivo lo stesso .... e se questo può servire ad uscire dalla crisi mi sta bene. La sentenza mi sembra stupida e nociva: diverso sarebbe stato se avessero deciso l'abolizione della norma dal 2016 senza retroattività. O no?

Ho letto i commenti dei più autorevoli economisti e costituzionalisti ma nessuno ha notato una frase molto semplice della sentenza: “Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo” e di seguito "con l’aggravante che “non solo la sospensione ha una durata biennale: essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”.

Cui segue:

La tecnicalità della perequazione, ricorda ancor la Corte, dipende “dalle scelte discrezionali del legislatore”, ma sempre in aderenza con i principi costituzionali. Tanto è vero che “questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”.

Chi leggesse la normativa della Fornero sulla perequazione in parallelo a questa censura capirebbe subito che chi era a 1400 euro al mese non ha subito alcuna decurtazione mentre chi era a 1500 euro e al primo anno di pensione avrà nella sua riserva matematica una decurtazione di 17000 euro.

La Corte Costituzionale ha semplicemente detto che i tecnici hanno fatto una legge da politici ossia per non coinvolgere tutti i pensionati, anche quelli di importo inferiore con piccoli sacrifici in proporzione al loro reddito e così via via fino agli importi superiori, hanno inventato un meccanismo che ha decurtato del 4%, indifferentemente dall'importo della pensione tutti i percettori che avevano un rateo superiore a 1500 euro.

Nessuna progressività, nessuna proporzionalità, solo discrezionalità della politica e non dei tecnici per non colpire troppo le pensioni alte e quelle basse ma raccogliere il massimo dalla classe media.

Il governo ha voluto raccogliere il massimo dalla classe media. E allora?

Secondo la corte costituzionale la classe media comprende anche loro, cioè retribuzioni superiori a 200.000 euro annui. Alla faccia della "classe media".

Ma poi, forse che nella Costituzione c'è qualcosa che impedisca di disegnare aliquote che, nel rispetto della progressività, massimizzino il prelievo per le fasce medie, o per meglio dire, medio-alte, dei redditi? Si tratta di scelte politiche, come gli ottanta euro mensili riservati a fasce di lavoratori a basso reddito, o il famoso milione di lire di pensione minima di Berlusconi. Scelte politiche di cui i governi rispondono alle elezioni.

Mentre i componenti della corte costituzionale, non rispondendo agli elettori, in questo e in casi simili, hanno solo pensato alle loro tasche.

in realtà l'assenza di progressività non fu motivo per dichiarare l'incostituzionalità del precedente blocco dei trattamenti superiori ad otto volte il minimo. il centro della motivazione è nella reiterazione di provvedimenti estemporanei, scarsamente motivati nel dettaglio e dei cui effetti cumulativi non si tiene sufficientemente conto.

Complimenti per l' articolo che tratta l' argomento, a mio avviso, molto bene ed in modo oggettivo, mi rendo perfettamente conto che se ci fosse maggiore attenzione da parte del legislatore nella stesura del quadro normativo e dei dettagli legislativi, questo metterebbe al riparo molte leggi d i giudizi della corte, banalizzo, si poteva ottenere probabilmente una legge perfettamente costituzionale con i medesimi effetti pratici, utilizzando una tecnica legislativa migliore, inoltre, concordo con l' articolo, non saremo mai in grado di eliminare la componente politica dalle decisioni della corte. Quando si chiede di valutare in principio di ragionevolezza si sta tutto sommato chiedendo un giudizio politico, ovviamente non possiamo pensare che la corte debba dimostrare la propria ragionevolezza portandoci numeri e dati, sarebbe alquanto bizzarro... Appurato ciò mi chiedo se possiamo gestire la componente politica in modo migliore, attraverso una modalità differente per la nomina dei membri o quant'altro, oppure la gestione della semplice attesa, questa è una legge del 2012, mi chiedo, se avessimo fatto valutare la legge nel 2012 avremmo ottenuto un risultato differente? comprendo che sia alquanto utopico cercare di modificare certe cose è forse  come pensare di cambiare l' articolo 1...

1. Oltre al caso del 2008, la Corte Cost. non eccepì l’incostituzionalità (perché non ne fu investita?) del mancato adeguamento all’inflazione recato dalla legge finanziaria 1998:

SCALA MOBILE. La Finanziaria 1998 (legge n 449/1997), varata dal governo Prodi, aveva stabilito che per i 3 anni successivi (e cioè per il 1999, 2000 e 2001), il coefficiente di aggiornamento della quota eccedente l' ammontare pari a 5 volte il minimo e sino a 8 volte fosse ridotto al 30% dell' indice d' inflazione. Mentre nessun aumento sarebbe stato applicato sulla fascia di trattamento annuo superiore a 8 volte il minimo. Grazie alla Finanziaria 2001, il «raffreddamento» della cosiddetta perequazione automatica cessa con il 2000 (un anno prima), con alcune varianti rispetto al passato. In pratica dal 2001 gli aggiornamenti avranno il seguente andamento: 100% del tasso d' inflazione sull' importo mensile sino a 3 volte il trattamento minimo (attualmente 2.164.800 lire); 90% sulla quota mensile compresa tra il triplo e 5 volte il trattamento minimo (tra 2.164.800 e 3.608.000); 75% sulla quota mensile che supera 3.608.000 lire.  http://archiviostorico.corriere.it/2000/ottobre/09/Pensioni_fiato_alle_minime_ce_0_0010091402.shtml

2. L’art. 81 Cost. non parla di “pareggio di bilancio”, ma di “equilibrio” e tenendo conto del ciclo economico, il che ne rende già di per sé strutturalmente flessibile l’applicazione.

“Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. (cfr. https://www.senato.it/1025?sezione=127&articolo_numero_articolo=81 ).

3. Non me ne intendo molto, ma mi chiedo come si possa inferire dagli artt. 36 e 38 della Cost. la natura di “retribuzione differita” delle pensioni. Per quanto riguarda la classificazione dei redditi pensionistici, io avevo letto alcuni che sostengono il contrario (da ultimo, ieri al GR3, l’ha affermato il prof. Tiziano Treu), ma secondo la Corte Cost. essi “hanno natura di retribuzione differita”:

“Nel caso di specie, peraltro, il giudizio di irragionevolezza dell’intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro”. www.inps.it/messaggizip/messaggio%20numero%2011243%20del%2011-07-2013_allegato%20n%201.pdf

La Corte dei Conti (che ovviamente è posta più in basso nella gerarchia dell’interpretazione ed applicazione delle leggi rispetto alla Corte Cost.), ad esempio, in questo caso non è d’accordo con la Corte Cost.:

Critiche all'affermazione "La pensione è una retribuzione differita"

Sovente si sente l'affermazione che la pensione sarebbe una retribuzione differita,[10] che deriva quindi dal contratto di lavoro e che dovrebbe essere agganciata alle retribuzioni correnti. Tale orientamento è stato ribaltato dalla più recente sentenza della Corte dei Conti 951 2012[11] che afferma "non può essere applicato alla pensione sulla base della sua pretesa natura di retribuzione differita, poiché la pensione, pur presupponendo la avvenuta percezione della retribuzione, di cui rappresenta in termini contabili l’erogazione di un accantonamento, in termini giuridici e sociali rappresenta un istituto del tutto diverso, sostenuto ed improntato a principi di mutua assistenza piuttosto che a quelli di garanzia della sinallagmaticità tra prestazione lavorativa e retribuzione, da cui deriva la garanzia della proporzionalità tra le due poste economiche." La stessa sentenza ribadisce che non esiste una correlazione tra stipendio e pensione e che comunque la perequazione delle pensioni deve essere attuata nel "ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti (…), compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa". La stessa sentenza evidenzia che sopravvenuti mutamenti economici possono rendere non immediatamente attuabile la dichiarazione di principio dei Presidenti del Consiglio e dei Ministri degli affari sociali della Comunità Europea del 6.12.1993 circa il mantenimento del potere d'acquisto delle pensioni.

it.wikipedia.org/wiki/Pensione

Conclusione. Ne emerge, anche in questo caso, che l’interpretazione delle leggi ha una componente di discrezionalità, tra Autorità diverse o anche – come è successo in passato alla Corte Cost. – quando essa promana dalla stessa Autorità, in tempi diversi.

sì, è così. però è un fatto connaturato al nostro ordinamento e più in generale allo stato di diritto moderno. interpretazioni diverse della norma date da giudici diversi ed evoluzione delle interpretazioni rendono il diritto vivo. dal mio punto di vista l'unico modo di evitare che l'interpretazione sia percepita come troppo discrezionale è scrivere norme chiare, rigorose e ben coordinate tra loro. la nuova formulazione dell'art.81 senz'altro non ha queste caratterisitiche perché non credo che dietro di essa ci sia mai stata una netta e sincera volontà politica di porre vincoli costituzionali alla spesa pubblica.

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 la Corte osserva, “non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”.

 il centro della motivazione è nella reiterazione di provvedimenti estemporanei, scarsamente motivati nel dettaglio e dei cui effetti cumulativi non si tiene sufficientemente conto.

 

Ho letto che l'avvocatura dello stato non ha presentato un documento del governo dove si motivavano le necessità di urgenza del privvedimento, dal punto di vista del bilancio dell Stato. Come è possibile una cosa del genere?

bella domanda

Certo che con un pacchetto di norme che si chiama "Salva Italia" è abbastanza ironica la questione...

www.corriere.it/editoriali/15_maggio_12/pensioni-sentenza-corte-costituzionale-07de0a40-f869-11e4-ba21-895cc63d9dac.shtml

le considerazioni del prof. Cassese confermano che la recente sentenza 70/2015 apre questioni teoriche più ampie di quelle relative alla sola decisione sulle pensioni e pongono la necessità di una riflessione sul ruolo e la natura della Corte Costituzionale in una democrazia moderna. materia complessa sulla quale non è facile né auspicabile avere opinioni nette.

A mio parere, molti problemi sono dovuti all'attuale composizione, esperti in diritto con un'alta quota riservata ai ruoli della magistratura, il che li porta a diventare i custodi di quelle categorie.

Chi si stupisce perché il blocco delle rivalutazioni sia incostituzionale per alcuni e non per altri, ha un semplice metro, valido quasi sempre:  se quel blocco riguarda qualcuno di loro, è incostituzionale, altrimenti è legittimo.

La Costituzione italiana si legge in dieci minuti. E' scritta in italiano corrente, in modo da essere comprensibile quasi a tutti. Perché riservare ad una ristretta categoria la sua interpretazione?

Il modo più semplice per avere una Corte costituzionale imparziale, è quello di renderla aperta alle diverse professionalità di cui è composta la società italiana, togliendo ogni quota di provenienza della magistratura: se ci sono magistrati degni di essere nominati, si nominano, altrimenti no. Quindi, lasciare le nomine alla competenza esclusiva del Parlamento, e togliere ogni requisito sull'esperienza in campo giuridico.

Basta modificare l'art. 135 della Costituzione, con la decadenza e immediata nomina dei nuovi componenti, e tutto si risolve.

Poca fatica, grande risultato. Ma ci vogliono le palle.

 

Nel 2013 i professori universitari ricorsero contro il blocco totale delle retribuzioni che, dal 2010, sta interessando tutti i lavoratori del pubblico impiego tranne i magistrati. La consulta bocciò il  ricorso con una sentenza in cui, tra l'altro, si legge:

 

In proposito, va in primo luogo rilevato che l’urgenza e l’ampiezza della manovra economica contenuta nel d.l. n. 78 del 2010, in cui si inscrivono le norme censurate, ha interessato l’intero comparto del pubblico impiego: la sua stessa struttura non rendeva, dunque, possibile una frantumazione delle misure previste. D’altro canto, considerato che la materia attiene a scelte di politica economica e sociale, che non spetta a questa Corte valutare (sentenza n. 119 del 2012) se non nei limiti della evidente irragionevolezza, non emergono elementi che possano indurre ad una tale conclusione.

Va infatti osservato che il sacrificio imposto al personale docente, se pure particolarmente gravoso per quello più giovane, appare, in quanto temporaneo, congruente con la necessità di risparmi consistenti ed immediati.

Del resto, nel senso della non irragionevolezza di un analogo blocco degli incrementi retributivi, si è già pronunciata questa Corte, con la sentenza n. 245 del 1997, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, del d.l. n. 384 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 438 del 1992, questione prospettata negli stessi termini dall’allora rimettente.

 

Ora, con gli stessi argomenti posti dal ricorso, che la Consult bocciò, la Consulta sblocca le pensioni. Come conseguenza,  abbiamo i pensionati con le retribuzioni rivalutate e tutti i lavoratori del pubblico impiego con le retribuzioni bloccate al centesimo dal 2010 e fino a tutto il 2018 (per adesso)  e le liquidazioni confiscate e date a rate senza interessi.

Ora il buon senso direbbe che il blocco  delle retribuzioni dei dipendenti pubblici era illegale, ma il suo sblocco affosserebbe definitivamente il paese. Un paese in cui tutti piangono e ridono solo i pensionati, un paese che sta facendo nuovi progetti per il passato.

Il problema è che qualunque sentenza della c.c. basato sul principio di "ragionevolezza" è opinabile. Prima di tutto perché tale principio non si ispira ad alcuna norma costituzionale. In pratica, è un principio che non esiste. E poi, perché "opinabile" lo è per definizione.

Se si potesse ricorrere alla CC sul principio di "ragionevolezza", quale percentuale di quel milione di articoli del ns. sistema giuridico sarebbe soggetto al suo vaglio? Compresi gli articoli costituzionali in contraddizione reciproca, o che chiunque può benissimo considerare "irragionevoli"? Compresa questa stessa sentenza: chi ha detto che la stessa progressività retributiva è "ragionevole", visto che non può che essere arbitraria?

In realtà, il ns. sistema giuridico non è vincolato neanche alla ragionevolezza inopinabile dell'antico riferimento romano "nemo ad impossibilia tenetur".

Es.1: legge sull'immigrazione. Entrata solo con permesso di soggiorno, concesso solo a chi ha già un contratto di lavoro e di affitto. E' possibile, senza essere mai entrati prima clandestinamente?

Es.2: reddito imponibile: non sono deducibili le spese per la salute propria (solo detratte al 19%) e dei familiari realmente a carico (ex: salario completo lordo badante genitore invalido) né per il loro mantenimento (neanche se espresso da sentenza di separazione). Sono quindi soggetti ad imposte e contributi calcolati in modo fittizio anche redditi netti realmente pari a zero o meno.  E' ragionevole? Non è neanche possibile adempiervi. E vogliamo parlare dell'IRAP?

Es.3- Un cittadino è tenuto ad adempiere prescrizioni individuali dell'autorità pubblica di cui non è mai venuto a conoscenza (giacenza di raccomandata).  E' ragionevole? E' semplicemente impossibile.

E mi fermo qui, per quanto riguarda l'impossibilia. Immaginiamoci la lista della semplice "irragionevolezza". Maddài. Parliamo di niente. La ns. Costituzione non vale un fico secco. Figuriamoci le sentenze della Corte. E la ragione principale è una sola: l'art. 2 garantisce i "diritti inviolabili dell'uomo", ma si scorda di elencarli. Pare per veto di Togliatti (che già aveva in mente di farne a polpette un paio negli articoli successivi). Ed ora, eccoci qua. Con un puro nulla come riferimento. La Costituzione "flessibile". Bella invenzione, vero?

L'articolo e' molto complesso e merita un commento più ragionato che mi auguro di avere il tempo di scrivere. Vorrei solo puntualizzare il significato vero della sentenza, di la' dal contenuto e dalle conseguenze. In primo luogo,la Corte non era affatto ignara delle conseguenze (il solo pensarlo e' offensivo) ma ha compiuto una scelta tra una visione autoritaria dei rapporti etico sociali e una democratica. Ha innanzi tutto riassunto la sua annosa giurisprudenza, dalla quale emerge (e per questo lo ha fatto dando suggerimenti preziosi a un Legislatore meno disattento) che il blocco dell'adeguamento e' perfettamente legittimo a condizione che: non sia permanente, sia progressivo, sia effettivamente necessario per la copertura di spese pubbliche. Quest'ultimo punto è dirimente. L'adeguamento pensionistico , per la Corte, è un diritto costituzionale (ex articoli 36 e 38 Cost), quindi non è comprimibile per sempre, ma lo è temporaneamente purché il Legislatore fornisca una motivazione tecnicamente convincente dalla quale si ricavi che negare un diritto di tale rilevanza è strettamente necessario per coprire spese, o comunque esigenze finanziarie, imprescindibili. Senza una tale motivazione, incidere sul patrimonio del cittadino è incostituzionale perché  è un agire autoritario, da dittatore (sia pure illuminato) incompatibile con lo stato sociale si', ma di diritto. Praticamente una rapina da Principe assoluto.  È una affermazione di principio di fondamentale valore filosofico che illumina il Legislatore sui suoi poteri ma anche sui suoi limiti. Del resto, dopo la sentenza decine di economisti, come Lei, hanno dato la dimostrazione della assoluta necessità di una tale misura, con grafici, formule e ragionamenti ineccepibili. La Ragioneria non era in grado di dire le stesse cose nella relazione tecnica e in quella illustrativa? Se lo avesse fatto, l'esito sarebbe stato opposto.  Temo che la verità sia più banale. Così come Tremonti con il prelievo sui redditi pubblici superiori ai 90.000 euro  (puntualmente caducato in Corte) anche Monti ha scelto la filosofia di: "pochi, maledetti e subito, poi qualcuno ci pensera'". Per finire, la Corte ha lasciato aperta una porta, per chi la sappia leggere, per successivi interventi, anche con un effetto retroattivo ed anzi ha affermato principi molto favorevoli per il Legislatore (ad es. che questo blocco non ha natura tributaria e quindi non soggiace all'articolo 53 Cost.). La rimando alla mia nota sulla sentenza che è in pubblicazione e di cui darò notizia. Grazie per l'attenzione.

- Che c'entrano gli art. 36 e 38 con l'adeguamento pensionistico? Attualmente, ogni finanziaria carica di imposte e contributi (per pagare le super-pensioni in oggetto)  dei redditi che sono ben al di sotto della soglia di sopravvivenza. Altro che "esistenza libera e dignitosa". Tra l'altro, si sta parlando di adeguamento pensionistico delle sole pensioni alte.

- Rapina di principe assoluto? E dove sarebbe la novità? Prima di tutto la Costituzione non considera la proprietà un diritto, ma "limitata al fine di renderla godibile a tutti". Art. 42.

- In secundis, la rapina è teorizzata dalla stessa filosofia redistributiva che prende arbitrariamente agli attuali lavoratori per distribuire ai pensionati di oggi, con criteri diversi oggi da quelli di ieri e da quelli futuri.

- Tertium, attenzione a confondere diritto e privilegio. Nella patria del privilegio distribuito per categoria, il diritto naturale e quello giuridico divergono profondamente.  Il primo apparterrebbe solo a chi ha realmente accantonato ciò che ha guadagnato producendo beni e servizi. Vogliamo chiedere al cittadino, depositario del common sense, come classifica in questo senso i vitalizi dei politici e gli stipendi multipli dei dirigenti pubblici e parapubblici?

L'unica cosa chiarissima da questa sentenza è che i giudici costituzionali difenderano sempre i loro stessi privilegi.