Il Signoraggio
Il signoraggio è il reddito derivante dall'attività di stampare moneta. Ne esistono diverse definizioni: quella che si impara a scuola è che se in un anno lo stato stampa nuove banconote pari a un ammontare dH, il valore reale del signoraggio e' s = dH/P (dove P è il livello dei prezzi al momento della stampa), che lo stato può utilizzare per esempio per finanziare spesa pubblica. E' vero: il privilegio di stampare moneta genera reddito. Una seconda definizione di signoraggio considera che la moneta che lo stato stampa viene immessa nel sistema scambiandola con titoli che pagano un interesse R. Quindi se H indica le passivita' a vista della banca centrale, il circolante ad esempio (trascuriamo la riserva obbligatoria per semplicita'), il valore reale del signoraggio è s = H R / P. Le due definizioni sono molto simili: se il tasso di interesse R e' pari al tasso di crescita della moneta (cioè se R = dH/H), le due grandezze coincidono. Nei dati le due grandezze sono generalmente vicine.
Un giovane lettore potrebbe sospettare che partecipando all'euro l'Italia abbia quindi perso il proprio signoraggio (in quanto non si stampano più lire). Possiamo rassicurarlo che non è cosi. Oltre il 90 per cento del signoraggio prodotto nell'area dell'euro viene redistribuito ai vari paesi partecipanti in misura proporzionale alle loro "capital keys" (i conferimenti alla BCE); in soldoni in misura proporzionale al loro PIL; la Banca d'Italia, fatti gli accantonamenti a riserva, trasferisce quindi il signoraggio ricevuto (denominato ``reddito monetario'' nel bilancio, e gli altri eventuali profitti dopo le imposte) al Tesoro (non, come sostengono alcuni ai suoi azionisti). Da questo punto di vista e' interessante notare che la forte domanda di euro dal momento della sua creazione ha portato a tutti, Italia compresa, guadagni da signoraggio che con la lira era difficile avere (chi, nel mondo, domandava lire come riserva di valore?) in questo senso l'euro ha ereditato il ruolo del Marco divenendo ancora più appetibile (la circolazione di banconote in euro ha registrato crescita a 2 cifre per quasi un decennio dalla sua nascita). Non e' vero pertanto che l'Italia (o altri stati dell'area) abbia trasferito a Francoforte il diritto su questa fonte di reddito. Certo si potrebbe discutere di altri aspetti del signoraggio, come la sua ripartizione tra Tesoro e Banca centrale: visto che il reddito retrocesso al tesoro e' legato al profitto netto delle banche centrali, queste possono avere un incentivo ad accantonare molte riserve e/o spendere molto (per esempio costruendo sedi faraoniche o assumendo più personale del necessario) piuttosto che a massimizzare il trasferimento al Tesoro. Forse in una certa misura questo avviene, così come avviene in molti centri di spesa pubblica, ma poteva avvenire anche prima e c'entra poco con l'euro.
Due fatti vanno però registrati: i trasferimenti di Bankitalia al tesoro, deliberati dal Consiglio superiore e documentati nella relazione annuale di BI, non sembrano essere cambiati molto con l'euro. I dati reperibili online (capitolo sul Bilancio della relazione annuale di Banca d'Italia, anni vari) mostrano un trasferimento medio intorno a 600 milioni di euro l'anno nel periodo 1997-2001 (anno di scomparsa della lira) contro un trasferimento medio pari a 370 milioni nei dieci anni successivi. Una riduzione c'e', quindi, ma queste medie riflettono forti oscillazioni annuali legate alle condizioni del ciclo economico: negli ultimi anni per esempio le abbondanti iniezioni di liquidità hanno generato trasferimenti al tesoro molto sopra le media, rispettivamente per 700 e 1.500 milioni di euro nel 2011 e 2012. Il secondo fatto e' che il signoraggio e' poca cosa nel quadro macroeconomico: in rapporto al PIL, meno dell'1 per cento. Niente, insomma, con cui sperare di ripagare il debito pubblico o le pensioni, a differenza di quanto alcune parti politiche suggeriscono ai cittadini dai talk-show e dalle piazze. La stima per l'area dell'euro è presto fatta: il valore della banconote in circolazione nel 2013 è intorno a 930 miliardi di euro, circa il 10% del PIL dell'area. Se assumiamo che la BCE ricavi un interesse del 5% (direi per eccesso) sui titoli che ha in portafoglio come contropartita di questa passività, il signoraggio è pari allo 0,5% del PIL. Se il tasso di interesse sui titoli è più basso (come verosimile), esso è piu piccolo. È interessante notare che valori intorno a questo ordine di grandezza si osservano nelle maggiori economie sviluppate: uno studio di Neumann per gli Stati Uniti indica per il 1990 un signoraggio pari allo 0,4 % del PIL. Hochreiter, Rovelli e Winckler calcolano che nel 1993 il signoraggio era lo 0,8% del PIL in Germania, l'1% in Austria. In sostanza, i guadagni da signoraggio sono contenuti in economie, come quelle sopra citate, dove l'inflazione è bassa. Mi pare utile avere in mente questi numeri quando si discute di sovranità monetaria: non e' certo con il signoraggio (perduto o ritrovato) che si possono aggiustare squilibri fiscali come quelli Italiani. A meno di non volere imbarcare il paese in una iperinflazione, ipotesi degna di considerazione senza bisogno che le si cambi il nome.
Monetizzazione del debito
Per osservare livelli più elevati di signoraggio bisogna spostarsi in economie ad elevata inflazione: Hochreiter e coautori riportano nel 1993 un signoraggio pari all'1% del PIL nella repubblica Ceca, al 4% in Ungheria e al 30% in Romania, a fronte di tassi di inflazione del 20%, 22% e 256%. Nessuna grande sorpresa: la relazione tra crescita monetaria e inflazione e' tenue quando l'inflazione è bassa (si veda la figura 2 nel paper di Teles e Uhlig); ma ci sono poche previsioni economiche robuste come quella che dice che se il tasso di crescita monetaria diventa a doppia cifra allora l'inflazione lo segue: quando si stampa molta moneta (per qualunque motivo) questa finisce per alimentare la crescita dei prezzi (si veda la Figura 1 del paper di Teles e Uhlig, oppure l'analisi di 4 famosi casi storici di Sargent, o ci si informi su cosa è successo in Zimbawe di recente). Il debito pubblico italiano e' intorno a 1,2 volte il valore del PIL italiano: una sua monetizzazione (possibile una volta che il paese uscisse dall'euro) implicherebbe un aumento della base monetaria di circa 12 volte (assumendo un circolante pari a circa il 10% del PIL, un valore storicamente corretto e vicino al livello attuale), ovvero un tasso di crescita della moneta del 1100 (mille e cento) per cento. Il risultato dell'iperinflazione che ne seguirebbe sarebbe, come altre volte nella storia, di ridurre consistemente il valore reale del debito (pubblico e non), facendo fallire il sistema bancario e impoverendo così tutti i "creditori" dello stesso (famiglie e imprese). Per non parlare di cosa succederebbe ai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati, ad esempio). Le perdite per i creditori derivanti dalla monetizzazione possono apparire un concetto astratto (a molti, incluso il piu' simpatico di Topolinia, sfugge il concetto). Che siano invece concrete e dolorose lo si capisce osservando che la monetizzazione del debito è equivalente a un parziale default: se lo Stato mi deve 100 euro e mi ripaga stampando moneta in una misura tale da aumentare, per esempio, del doppio il livello dei prezzi, mi ritroverò in mano un potere d’acquisto di 50 euro. Di fatto (ovvero in termini reali, forse non giuridici) questo e' un default: e' lo stesso che sentirsi dire dallo Stato: dei 100 euro che ti devo, te ne do solo 50 (a prezzi invariati). Va infine ricordato che circa il 70% dei titoli del debito pubblico italiano e' detenuto da residenti italiani: famiglie (circa il 13% direttamente), banche e altri intermediari (e quindi indirettamente dalle famiglie che ivi depositano; se la banca investe i depositi delle famiglie in titoli che fanno default, i depositi delle famiglie scompaiono.....). Solo una parte minore, stimabile intorno al 30% e ridottasi molto negli ultimi anni proprio in seguito ai timori di un default e' detenuta all'estero e sarebbe (per cosi dire) "trascurabile" per le prospettive italiane successive a un default. Quindi, pur non potendo monetizzare il debito, si potrebbe ottenere un risultato analogo "ristrutturandolo'' (propongo un premio per chi ha inventato questo eufemismo): lo stato dichiara che ne ripaga solo una parte. Astraendo dai mille cavilli giuridici che sorgerebbero in questo secondo caso (in cui lo stato rinnega una promessa su un debito nominale), l'analogia dovrebbe essere chiara. Coloro che desiderano monetizzare il debito pubblico possono perseguire il medesimo fine sostenendo il default sul debito. Ovviamente costoro devono anche formulare una proposta su come gestire l'inevitabile crisi finanziaria che ne seguirebbe: che si monetizzi o che si "ristrutturi", se falliscono le banche chi rimborsa i depositi ai cittadini e chi finanzia le imprese? le esperienze storiche indicano in questi casi recessioni e disoccupazione in stile "grande depressione".
Le svalutazioni competitive
La fissazione irrevocabile dei tassi di cambio ha rimosso l' aggiustamento del cambio nominale dallo strumentario di politica economica. Per molti, incluso Milton Friedman, questo è un errore. Per altri una scelta irrilevante, perche' ritengono gli effetti delle svalutazioni siano nulli (succede con prezzi flessibili) o al massimo temporanei o perche' le svalutazioni del cambio possono essere replicate con altri strumenti, come discutiamo sotto. Ma partiamo definendo un po' di che si tratta: quando i prezzi si aggiustano lentamente una svalutazione del cambio nominale beneficia gli esportatori a spese degli importatori: vendiamo più mattonelle in Germania ma le BMW e la benzina costano di più. Se vendo mattonelle mi piace, altrimenti un po' meno. A me pare utile tenere a mente alcune cose: (1) la svalutazione crea inevitabilmente effetti distributivi: aiuta l'export a spese dei consumi degli altri cittadini (per i quali aumentano i consumi legati all'import). Si può discutere di quanto aumenti l'import: per svalutazioni grandi c'e' molta evidenza che i prezzi al dettaglio dei beni importati, pur aumentando notevolmente meno della svalutazione del cambio nominale, pur sempre aumentano (si veda la figura 1 del paper di Burnstein, Eichenbaum e Rebelo). Inoltre, c'e' un effetto diretto sul benessere perche' la sostituzione dei beni di importazione (piu' cari) con quelli di produzione interna (piu' economici) previene maggiore inflazione ma lascia il consumatore con un paniere di beni peggiore, dal suo punto di vista. Ma non e' questo il punto qui (leggete il prossimo paragrafo). (2) per funzionare, una svalutazione deve essere unilaterale: se Italia e Spagna fanno a gara a vendersi mattonelle contro Jamon, potrebbero finire entrambe a cambio invariato ma con alta inflazione; la prevenzione di queste guerre del cambio (ex-post inefficaci) fu uno dei motivi a sostegno del coordinamento monetario in Europa. (3) anche quando è unilaterale la svalutazione difficilmente ha effetti duraturi: i prezzi interni si aggiustano al cambio svalutato e c'e' bisogno di una nuova svalutazione per rimanere competitivi (facendo aumentare nuovamente il prezzo al consumo delle importazioni).
Una valutazione complessiva dei pro e contro della svalutazione (l'aumento dell'export, il rincaro degli import, la risposta dei paesi esteri a una svalutazione) è un lavoro complesso. Ma se proprio si ritiene che una svalutazione sia necessaria alla nostra economia cé' una buona notizia: si può ancora fare. Tre giovani e bravi economisti Fahri, Gopinath e Itskhoki hanno recentemente mostrato formalmente un risultato piuttosto intuitivo: esistono misure fiscali che generano effetti reali analoghi a quelli di una svalutazione (su export, import, consumi e benessere, leggere il paper per i dettagli). Semplificando un po', mostrano che si possono manipolare le aliquote fiscali, mantenendo invariato il gettito fiscale, in modo da replicare gli effetti di una svalutazione del cambio: una riduzione generalizzata della imposizione sulle imprese (l'eliminazione dell'IRAP per esempio, o la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro) riduce i loro costi rendendo i prodotti meno cari (e quindi più competitivi); si deve pero' compensare la riduzione del gettito fiscale con un aumento delle imposte indirette (l'IVA per esempio), che non grava sull'export (si veda anche l'articolo divulgativo di Keen and de Mooi su Vox). Questa politica replica le conseguenze reali di una svalutazione, in particolare riproduce (1): aiuta l'export, riducendo i prezzi dei beni commerciati, a scapito dei consumi italiani soggetti a più IVA. Altri economisti hanno esplorato quantitativamente, per mezzo di modelli econometrici, l'efficacia delle "svalutazioni fiscali": gli effetti trovati sono simili (anche se non identici) a quelli di una svalutazione del cambio. Certo da un punto di vista politico la svalutazione fiscale è poco attraente: chi la decide è costretto a riconoscere che vuole tassare tutti i cittadini (aumentare l'IVA) per sostenere l'export. Una svalutazione del cambio produce gli stessi effetti, ma un politico ha gioco facile a imputarla al maltempo o agli speculatori finanziari. Il punto da tenere a mente è che se quello che interessa sono gli effetti della svalutazione (non come la si ottiene), sembrano essere disponibili politiche fiscali che producono effetti molto simili. La mia modesta opinione e' che queste politiche non offrano una risposta duratura alla crisi che il paese attraversa da un paio di decenni. Abbassare il prezzo del proprio lavoro (ovvero aumentare le ore di lavoro necessarie ad acquistare una BMW) e' una scelta guidata dalla disperazione, e non promette niente di buono per il futuro. Ma se proprio si desidera dare una boccata d'ossigeno al paziente moribondo sarebbe piu' semplice concentrarsi su una svalutazione fiscale piuttosto che invocare l'uscita dall'euro.
e al contrario la rivalutazione (che è quello che in termini reali sta facendo l'Italia) aiuta i consumi a spese dell'export. Allora dove sta il giusto mezzo fra svalutazione e rivalutazione? Lo deve decidere il mercato, cosa che è impossibile fintanto che la nostra moneta resterà agganciata a quella tedesca.
ma che grava sui più poveri
Ma è quello che sta avvenendo oggi in Italia dentro l'Euro!
Non ho cercato di stabilire quale sia il "giusto mezzo" tra svalutazione e rivalutazione. Qui l'obiettivo molto piu modesto era solo fare due conti. Non e' affatto impossibile svalutare o rivalutare a cambio fisso (succede da 150 anni tra lombardia e sicilia). Magari e' piu lento (per questo lo strumento fiscale aiuterebbe) , ma altrimenti avviene (lentemente) attraverso l'aggiustamento tra prezzi (salari) relativi italiani e tedeschi, come gia si osserva. Questi aggiustamenti sono normalmente lenti, e per questo alcuni invocano la leva del cambio nominale. Quello che notavo e' che non e' l'unica maniera possibile: se si vuole "svalutare in fretta" si possono ancora manipolare le aliquote (almeno entro certi limiti). Tutto qua. Che sia raccomandabile o meno, ognuno fara' la sua scelta.
L'IVA grava su chi consuma, lo stesso si dica per l'accresciuto prezzo degli import, o l'inflazione. Sono tutte politiche di tassazione "regressive".
Sull'ultimo punto mi pare che confonda il prezzo (p) con la spesa (prezzo per quantita: p*q). Sto semplicemente usando la definizion di cambio reale, o ragione di scambio. Non cé' nessuna intenzione di dire che sia auspicabile o meno (ovviamente ho la mia idea, ma non entra in questo ragionamento). Se lei svaluta il cambio nominale, a prezzi dati cio implica che 1 ora del suo lavoro comprera meno beni esteri. Fine. Cosa succedera al sua spesa (p*q) e al suo consumo (q) dipendera da vari fattori (come le ore lavorate, le sue preferenze rispetto ai beni sostituti etc etc, etc). Per tenere insieme tutte queste forze ci sono i modelli economici, a mente e' quasi impossibile (per me almeno).