Signoraggio, svalutazioni e sovranità monetaria

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La grave situazione economica dell'Italia sta portando molti a individuare nell'euro, e nel trasferimento della sovranità monetaria da Roma alla Banca Centrale Europea, una causa degli attuali problemi. Da diverse parti politiche (Grillo, Casapound, Lega, Forconi...) si sente auspicare che il paese si riappropri della propria sovranità.  Purtroppo  il dettaglio di questa proposta viene raramente articolato con precisione: si dice che  rinunciando alla propria moneta abbiamo (i) perso il "signoraggio", (ii) perso la possibilità di monetizzare il debito pubblico (ripagarlo stampando moneta) e (iii) perso la capacità  di svalutare.  A questo proposito vorrei fare  alcune sintetiche considerazioni: senza entrare in una valutazione circa la bontà della  monetizzazione o della  svalutazione, mi limiterò  a discutere  se  davvero il signoraggio sia stato perduto e se davvero la partecipazione all'euro renda impossibile monetizzare e/o svalutare.  A fini divulgativi i temi non saranno affrontati con rigore accademico, ma rimandero'  chi fosse interessato a qualche approfondimento. Il mio modesto obiettivo è  fare un po' di chiarezza, sperando  che possa servire  ai sostenitori delle diverse tesi per organizzare i propri argomenti in modo più informato e comprensibile. 

Il Signoraggio

Il signoraggio è il  reddito derivante dall'attività di stampare moneta.  Ne esistono diverse definizioni:  quella che si impara a scuola è che se in un anno lo stato  stampa  nuove banconote pari a un ammontare  dH,  il valore reale del signoraggio  e'  s = dH/P   (dove P è il livello dei prezzi al momento della stampa), che lo stato può utilizzare per esempio per   finanziare  spesa  pubblica. E'  vero: il privilegio di stampare moneta genera reddito. Una seconda definizione di signoraggio considera che la moneta che lo stato stampa  viene immessa nel sistema scambiandola con titoli che pagano un interesse R.   Quindi se H indica le passivita' a vista della banca centrale, il  circolante  ad esempio (trascuriamo la riserva obbligatoria per semplicita'),  il valore reale del signoraggio è   s = H R / P.  Le due definizioni sono molto simili: se il tasso di interesse R  e'  pari al tasso di crescita  della moneta (cioè se R = dH/H), le due grandezze coincidono. Nei dati le due grandezze sono generalmente vicine.   

Un giovane lettore potrebbe sospettare che partecipando all'euro l'Italia abbia quindi perso il proprio signoraggio (in quanto non si stampano più lire). Possiamo rassicurarlo che non è cosi. Oltre il 90 per cento del signoraggio prodotto nell'area dell'euro viene redistribuito ai vari paesi partecipanti in misura proporzionale alle loro "capital keys" (i conferimenti alla BCE); in soldoni in misura proporzionale al loro PIL; la Banca d'Italia, fatti gli accantonamenti a riserva, trasferisce quindi il signoraggio  ricevuto  (denominato ``reddito monetario'' nel bilancio, e gli altri eventuali profitti dopo le imposte) al Tesoro (non, come sostengono alcuni ai suoi azionisti).  Da questo punto di vista e'  interessante notare che la forte domanda di euro dal momento della sua creazione ha portato a tutti, Italia compresa, guadagni da signoraggio che con la lira era difficile avere (chi, nel mondo,  domandava lire come riserva di valore?)  in questo senso l'euro ha ereditato il ruolo del Marco divenendo ancora più appetibile (la circolazione di banconote in euro ha registrato crescita a 2 cifre per quasi un decennio dalla sua nascita).  Non e'  vero pertanto che l'Italia (o altri stati  dell'area)  abbia trasferito a Francoforte il diritto su questa fonte di reddito.  Certo si potrebbe discutere di altri aspetti del signoraggio, come la sua ripartizione tra Tesoro e Banca centrale: visto che il reddito retrocesso al tesoro e'  legato al profitto netto delle banche centrali, queste possono avere un incentivo ad accantonare molte riserve e/o spendere molto (per esempio costruendo sedi faraoniche o assumendo più personale del necessario) piuttosto  che a massimizzare il trasferimento al Tesoro. Forse in una certa misura questo avviene, così come avviene in molti centri di spesa pubblica, ma poteva avvenire anche prima e c'entra poco con l'euro. 

Due fatti vanno però registrati:  i trasferimenti di Bankitalia al tesoro, deliberati dal Consiglio superiore e documentati nella relazione annuale di BI, non sembrano essere cambiati molto con l'euro. I dati reperibili online (capitolo sul Bilancio della relazione annuale di Banca d'Italia, anni vari)  mostrano un trasferimento medio  intorno a  600 milioni  di euro l'anno  nel periodo 1997-2001 (anno di scomparsa della lira) contro un trasferimento medio pari a 370 milioni nei dieci anni successivi. Una riduzione c'e', quindi, ma queste medie riflettono forti oscillazioni annuali  legate alle condizioni del ciclo economico: negli ultimi anni per esempio  le abbondanti iniezioni di liquidità  hanno generato trasferimenti al tesoro molto sopra le media, rispettivamente per  700 e 1.500 milioni di euro nel 2011 e 2012.   Il secondo fatto e' che  il signoraggio e'  poca cosa nel quadro macroeconomico: in rapporto al PIL, meno dell'1 per cento. Niente, insomma, con cui sperare di ripagare il debito pubblico o le pensioni, a differenza di quanto alcune parti politiche suggeriscono ai cittadini dai talk-show e dalle piazze.  La stima per  l'area  dell'euro è presto fatta:  il valore della banconote in circolazione nel 2013  è intorno a 930 miliardi  di euro,  circa il 10% del PIL dell'area.  Se assumiamo che la BCE ricavi un interesse del 5% (direi per eccesso) sui titoli che ha in portafoglio come contropartita di questa passività, il signoraggio  è pari allo 0,5%  del PIL.   Se il tasso di interesse sui titoli è più basso (come verosimile), esso è piu piccolo. È interessante notare che  valori intorno a questo ordine di grandezza si osservano nelle maggiori economie sviluppate: uno studio di Neumann per gli Stati Uniti indica per il 1990 un signoraggio pari allo 0,4 % del PIL. Hochreiter, Rovelli e Winckler calcolano  che nel 1993 il signoraggio era  lo 0,8% del PIL in Germania,  l'1% in Austria.    In sostanza, i guadagni da signoraggio sono contenuti  in economie, come quelle sopra citate, dove l'inflazione è bassa.   Mi pare utile avere in mente questi numeri quando si discute di sovranità monetaria: non e'  certo con il signoraggio (perduto o ritrovato)   che si possono aggiustare squilibri fiscali come quelli Italiani.  A meno di non volere imbarcare il paese in una iperinflazione, ipotesi degna di considerazione senza bisogno che le si cambi il nome.

Monetizzazione del debito

Per osservare livelli più elevati di signoraggio bisogna spostarsi in economie ad elevata inflazione:  Hochreiter e coautori  riportano nel 1993  un signoraggio pari all'1% del PIL nella repubblica Ceca, al  4%  in Ungheria e al 30%  in Romania, a fronte di tassi di inflazione del 20%,  22% e 256%.  Nessuna  grande sorpresa: la relazione tra crescita monetaria e inflazione e'  tenue quando l'inflazione è bassa (si veda la figura  2 nel paper di Teles e Uhlig);   ma ci sono poche previsioni economiche robuste come quella che dice che se il tasso di crescita monetaria diventa a doppia cifra  allora l'inflazione lo segue:  quando si stampa molta moneta   (per qualunque motivo)  questa finisce per alimentare  la crescita dei prezzi (si veda la Figura 1 del paper di Teles e Uhlig, oppure l'analisi di 4 famosi casi storici di Sargent, o ci si informi su cosa è successo in Zimbawe di recente).    Il debito pubblico italiano e'  intorno a 1,2 volte  il valore del PIL italiano: una sua monetizzazione (possibile una volta che il paese uscisse dall'euro)  implicherebbe un  aumento della base monetaria di circa 12 volte (assumendo un circolante pari a circa il 10% del PIL, un valore storicamente corretto e vicino al livello attuale), ovvero un tasso di crescita della moneta del 1100 (mille e cento) per cento.  Il risultato dell'iperinflazione che ne seguirebbe sarebbe, come altre volte nella storia, di ridurre consistemente il valore reale del debito (pubblico e non), facendo fallire il sistema bancario e impoverendo così tutti i "creditori" dello stesso (famiglie e imprese). Per non parlare di cosa succederebbe ai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati, ad esempio). Le  perdite per i creditori derivanti dalla monetizzazione possono apparire un concetto astratto (a molti, incluso il piu' simpatico di Topolinia, sfugge il concetto). Che siano invece concrete e dolorose lo si capisce osservando che la monetizzazione del debito è equivalente a un parziale default: se lo Stato mi deve 100 euro e mi ripaga stampando moneta in una misura tale da aumentare, per esempio, del doppio il livello dei prezzi, mi ritroverò in mano un potere d’acquisto di 50 euro. Di fatto (ovvero in termini reali, forse non giuridici) questo e' un default: e' lo stesso che sentirsi dire dallo Stato: dei 100 euro che ti devo, te ne do solo 50 (a prezzi invariati).  Va infine ricordato che circa il 70%   dei titoli del  debito pubblico italiano e' detenuto da residenti  italiani:   famiglie (circa il 13% direttamente), banche e altri intermediari  (e quindi indirettamente dalle famiglie che ivi depositano; se la banca investe i depositi delle famiglie in titoli che fanno default, i depositi delle famiglie scompaiono.....). Solo una parte minore, stimabile intorno al 30% e ridottasi molto negli ultimi anni proprio in seguito ai timori di un default e' detenuta all'estero e sarebbe (per cosi dire) "trascurabile" per le prospettive italiane successive a un default. Quindi, pur non potendo monetizzare il debito, si potrebbe ottenere un risultato  analogo "ristrutturandolo'' (propongo un premio per chi ha inventato questo eufemismo): lo  stato  dichiara che ne ripaga solo una parte. Astraendo dai mille cavilli giuridici che sorgerebbero in questo secondo caso  (in cui lo stato rinnega una promessa su un debito nominale), l'analogia  dovrebbe essere chiara.  Coloro che desiderano monetizzare il debito pubblico possono perseguire il medesimo fine sostenendo il default sul debito.  Ovviamente costoro devono anche formulare una proposta su come gestire l'inevitabile crisi finanziaria che ne seguirebbe: che si monetizzi o che si "ristrutturi", se falliscono le banche chi rimborsa i depositi ai cittadini e chi finanzia le imprese? le esperienze storiche indicano in questi casi recessioni e disoccupazione in stile "grande depressione". 

Le svalutazioni  competitive

La  fissazione irrevocabile dei tassi di cambio  ha rimosso l' aggiustamento del cambio nominale dallo  strumentario di politica economica.   Per molti, incluso  Milton Friedman, questo è un  errore.  Per  altri una scelta irrilevante, perche' ritengono gli effetti delle svalutazioni siano nulli (succede con prezzi flessibili) o al massimo temporanei o perche' le svalutazioni del cambio possono essere replicate con altri strumenti, come discutiamo sotto. Ma partiamo definendo un po' di che si tratta: quando i prezzi si aggiustano lentamente  una svalutazione del cambio nominale beneficia gli esportatori a spese degli importatori:  vendiamo più mattonelle in Germania  ma le BMW e la benzina costano di più. Se  vendo mattonelle  mi piace, altrimenti un po' meno.    A me pare utile tenere a mente alcune cose: (1)  la svalutazione crea inevitabilmente effetti distributivi:   aiuta l'export a spese dei consumi degli altri cittadini (per i quali aumentano i  consumi  legati all'import).  Si può discutere di quanto aumenti l'import:   per svalutazioni grandi c'e' molta  evidenza che i prezzi al dettaglio dei beni importati, pur aumentando notevolmente meno della svalutazione del cambio nominale,  pur sempre aumentano (si veda la figura 1 del paper di Burnstein, Eichenbaum e Rebelo). Inoltre, c'e' un effetto diretto sul benessere perche' la sostituzione dei beni di importazione (piu' cari) con quelli di produzione interna (piu' economici) previene maggiore inflazione ma lascia il consumatore con un paniere di beni peggiore, dal suo punto di vista. Ma non e'  questo il punto qui (leggete il prossimo paragrafo).  (2)  per funzionare, una svalutazione deve essere unilaterale:  se Italia e Spagna fanno a gara a vendersi mattonelle contro Jamon, potrebbero finire entrambe a cambio invariato ma con alta inflazione; la prevenzione di queste guerre del cambio  (ex-post inefficaci)  fu uno dei motivi  a sostegno del coordinamento monetario in Europa.    (3)  anche quando è unilaterale la svalutazione difficilmente ha effetti duraturi: i prezzi interni si aggiustano al cambio svalutato e  c'e'  bisogno di una nuova svalutazione  per rimanere competitivi (facendo  aumentare nuovamente il prezzo al consumo delle importazioni).

Una valutazione complessiva dei pro e contro della svalutazione (l'aumento  dell'export, il rincaro  degli import, la risposta dei paesi esteri a una svalutazione)  è un lavoro complesso.  Ma se proprio si ritiene che una svalutazione sia necessaria alla nostra economia   cé' una buona notizia:  si può  ancora  fare.   Tre giovani e bravi economisti Fahri, Gopinath e Itskhoki hanno recentemente mostrato  formalmente  un  risultato piuttosto intuitivo: esistono misure fiscali che generano effetti reali analoghi a quelli di una svalutazione  (su export, import, consumi e benessere, leggere il paper per i dettagli). Semplificando un po', mostrano che si possono manipolare le aliquote fiscali, mantenendo invariato il gettito fiscale, in modo da replicare gli effetti di una svalutazione del cambio: una riduzione generalizzata  della imposizione sulle imprese (l'eliminazione dell'IRAP per esempio, o la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro) riduce i loro costi rendendo i prodotti meno cari (e quindi più competitivi);  si deve pero' compensare la riduzione del gettito fiscale  con un aumento delle imposte indirette (l'IVA per esempio), che non grava sull'export  (si veda anche l'articolo divulgativo di Keen and de Mooi su Vox).   Questa politica replica le conseguenze reali di una svalutazione, in particolare riproduce (1): aiuta l'export, riducendo i prezzi dei beni commerciati,  a scapito dei consumi italiani soggetti a più IVA. Altri economisti  hanno esplorato quantitativamente, per mezzo di modelli econometrici, l'efficacia  delle  "svalutazioni fiscali":   gli effetti trovati sono simili (anche se non identici)  a quelli di una svalutazione del cambio. Certo da un punto di vista politico la svalutazione fiscale è poco attraente: chi la decide è costretto a riconoscere che vuole tassare tutti i cittadini (aumentare l'IVA) per sostenere l'export. Una svalutazione del cambio produce gli stessi effetti, ma un politico ha gioco facile a imputarla al maltempo o agli speculatori finanziari.  Il punto da tenere a mente è che se quello che interessa sono gli effetti della svalutazione (non come la si ottiene), sembrano essere disponibili politiche fiscali che producono effetti molto simili. La mia modesta opinione e' che queste politiche non offrano una risposta duratura alla crisi che il paese attraversa da un paio di decenni. Abbassare il prezzo del proprio lavoro (ovvero aumentare le ore di lavoro necessarie ad acquistare una BMW) e' una scelta guidata dalla disperazione, e non promette niente di buono per il futuro. Ma se proprio si desidera dare una boccata d'ossigeno al paziente moribondo  sarebbe piu' semplice concentrarsi su una svalutazione fiscale piuttosto che invocare l'uscita dall'euro.    

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Commenti

Ci sono 109 commenti

 

la svalutazione crea inevitabilmente effetti distributivi:   aiuta l'export a spese dei consumi degli altri cittadini (per i quali aumentano i  consumi  legati all'import)

 

e al contrario la rivalutazione (che è quello che in termini reali sta facendo l'Italia) aiuta i consumi a spese dell'export. Allora dove sta il giusto mezzo fra svalutazione e rivalutazione? Lo deve decidere il mercato, cosa che è impossibile fintanto che la nostra moneta resterà agganciata a quella tedesca.

 

 

si deve pero' compensare la riduzione del gettito fiscale  con un aumento delle imposte indirette (l'IVA per esempio), che non grava sull'export

 

ma che grava sui più poveri

 

 

Abbassare il prezzo del proprio lavoro (ovvero aumentare le ore di lavoro necessarie ad acquistare una BMW) e' una scelta guidata dalla disperazione, e non promette niente di buono per il futuro

 

Ma è quello che sta avvenendo oggi in Italia dentro l'Euro!

Non ho cercato di stabilire quale sia il "giusto mezzo" tra svalutazione e rivalutazione. Qui l'obiettivo molto piu modesto era solo fare due conti.  Non e'  affatto impossibile  svalutare o rivalutare  a cambio fisso (succede da 150 anni tra lombardia e sicilia). Magari e' piu lento (per questo lo strumento fiscale aiuterebbe) , ma altrimenti avviene (lentemente) attraverso l'aggiustamento tra  prezzi (salari) relativi italiani e tedeschi, come gia si osserva. Questi aggiustamenti sono normalmente lenti, e per questo alcuni invocano la leva del cambio nominale.  Quello che notavo e' che non e' l'unica maniera possibile:  se si vuole "svalutare in fretta" si possono ancora manipolare le aliquote (almeno entro certi limiti). Tutto qua. Che sia raccomandabile o meno, ognuno fara' la sua scelta. 

 

L'IVA grava  su chi consuma, lo stesso si dica per l'accresciuto prezzo degli import, o l'inflazione.      Sono tutte politiche di tassazione "regressive".  

 

Sull'ultimo punto mi pare che confonda il prezzo (p) con la spesa (prezzo per quantita: p*q).  Sto semplicemente usando la definizion  di cambio reale, o ragione  di scambio. Non cé'  nessuna intenzione di dire che sia auspicabile  o meno (ovviamente ho la mia idea, ma non entra in questo ragionamento).   Se lei svaluta il cambio nominale, a prezzi dati  cio implica che 1 ora del suo lavoro  comprera meno beni esteri. Fine.   Cosa succedera al sua spesa  (p*q) e al suo  consumo (q)  dipendera da vari fattori (come le ore lavorate, le sue preferenze rispetto ai beni sostituti etc etc, etc).  Per tenere insieme tutte queste forze   ci sono i modelli  economici, a mente e' quasi impossibile (per me almeno).   

 

 

  

Una volta il signoraggio era brutto perchè aveva creato il debito arricchito i privati e affamato il popolo. Ora strepitano perchè ce l'hanno tolto? (ovviamente non è vero come dimostra anche l'ottimo post) . Sono dei fenomeni.

Ah. Un'inflazione elevata oltre mettere a terra i percettori di reddito fisso, abbatte il reddito da signoraggio.

 

@UQ

Come la svalutazione. grava sui più poveri.

 

Che siano invece concrete e dolorose lo si capisce osservando che la monetizzazione del debito è equivalente a un parziale default: se lo Stato mi deve 100 euro e mi ripaga stampando moneta in una misura tale da aumentare, per esempio, del doppio il livello dei prezzi, mi ritroverò in mano un potere d’acquisto di 50 euro. Di fatto (ovvero in termini reali, forse non giuridici) questo e' un default: e' lo stesso che sentirsi dire dallo Stato: dei 100 euro che ti devo, te ne do solo 50 (a prezzi invariati).

 

I sostenitori dell'"uscita" dall'Euro non considerano che "entrata" e "uscita" non sono simmetriche. Al momento della creazione dell'Euro le valute preesistenti sono infatti scomparse e tutto il debito pubblico espresso in quelle valute è stato necessariamente convertito in Euro. Se domani l'Italia "uscisse" dall'Euro questo continuerebbe ad esistere, ed i detentori di debiti espressi in Euro domanderebbero a buon diritto il rimborso in valore facciale in Euro. E se io ho un titolo dove c'è scritto che lo Stato Italiano mi pagherà 100 Euro e questo mi ripaga dandomi qualcos'altro (100 Lire Tornesi?) che vale meno di 100 Euro si tratta di un default, anche in termini legali, oltre che sostanziali. Quindi se il "piano" è di fare default, tanto vale farlo direttamente in Euro.

Più praticabile mi sembra l'ipotesi che ad "uscire" dall'Euro fosse la Germania, magare assieme ad un gruppo di paesi meno sgarrupati di noi; se la nuova moneta adottata si rivalutasse verso l'Euro questi paesi potrebbero agevolmente far fronte al lor debito, mentre i paesi rimasti nell'Euro "residuale" vedrebbero la loro valuta svalutarsi come apparentemente desiderano.

Se la Repubblica Italiana uscisse dall'UEM, in base all'art. 1277, comma secondo, del codice civile dovrebbe pagare i propri debiti nella nuova moneta legale ragguagliata per valore alla prima: probabilmente, però, adotterebbe una norma di salvaguardia che deroghi a quella regola. Il debito detenuto all'estero, però, dovrebbe essere rimborsato in euro, senza sconti.

Ipotizzando lo scenario del ritorno alla lira e della svalutazione, i tassi di interesse sui mutui a tasso variabile che andamento avrebbero?

Ovviamente in aumento ma con che tipo di reazione? Seguirebbero di pari passo la svalutazione, svaluto il 5%, aumenta il tasso del 5% o risulterebbero "moltiplicati", svaluto il 5% ma il tasso arriva al 7%?

O la cosa non è prevedibile?

 

la risposta da manuale che e' che  la risposta dei tassi diinteresse nominali  dipenderebbe  da cosa  ci si aspetta succedera all'inflazione  con la Neolira (chiamiamola cosi).  

nel manuale e' possibile ipotizzare che il livello dei prezzi faccia un salto in alto (una svalutazione una-tantum) e poi rimanga costante (zero inflazione da li in poi), In questo caso i tassi sarebbero bassi. Lei crede che andrebbe cosi?  Io no.  Io mi aspetterei una bella fiammata di inflazione almeno per un po' di anni. Ovviamente nessun politico   dichiarerebbe  che il programma e' di continuare a monetizzare per un po',  ma con tutte le spese da finanziare, e la possibilita di farlo nel modo piu antico del mondo... lei che dice?.   

 

Alcune osservazioni:

La premessa mi sembra sbagliata. Il vero tema politico oggi è che l’Italia non solo ha perso la sovranità monetaria ma, soprattutto, quella fiscale (vedi trattato di Maastricht, Fiscal Compact e pareggio di bilancio in costituzione). Oggi le critiche all’euro nascono più dalla connessione (necessaria per come è costruito l’euro) tra politica monetaria e politica fiscale e non dalle semplici conseguenze della scelta di un regime di cambi fissi.

Se condivido le considerazioni sul signoraggio e la monetizzazione del debito, mi convince meno la parte relativa alle svalutazioni competitive.

Le svalutazioni infatti non hanno come obiettivo quello di favorire l’export a spese dei consumatori: l’obiettivo è quello di favorire l’export e orientare i consumi verso le produzioni nazionali a discapito delle importazioni. Lo scopo è scoraggiare l’acquisto da parte di un residente italiano di una BMW e indirizzarlo verso l’acquisto di una FIAT, non di fare comprare meno auto ai consumatori italiani. Meno IRAP (o meno contributi sul lavoro) in cambio di più IVA non è la stessa cosa perché alcuni soggetti, ad esempio, i pensionati non riuscirebbero ad avere una compensazione dalle maggiori imposte sui consumi. Più in generale pensare di realizzare una svalutazione competitiva tramite misure fiscali ha l’inconveniente di produrre significativi effetti collaterali: deprime i consumi interni e, di conseguenza, penalizza i settori economici che producono principalmente per il mercato interno. Questo è proprio quello che è avvenuto con l’austerity (siamo rientrati dal disavanzo commerciale grazie alla riduzione dei consumi).

 

Le svalutazioni infatti non hanno come obiettivo quello di favorire l’export a spese dei consumatori: l’obiettivo è quello di favorire l’export e orientare i consumi verso le produzioni nazionali a discapito delle importazioni. Lo scopo è scoraggiare l’acquisto da parte di un residente italiano di una BMW e indirizzarlo verso l’acquisto di una FIAT

 

Per notare che questa frase manchi di coerenza interna non serve aver letto Burnstein, Eichenbaum e Rebelo, basta aver letto Quattoruote.

Vediamo: tu auspichi che gli italiani siano costretti dalla svalutazione a comprare le FIAT ? Detto in altre parole significa che auspichi che gli italiani non possano più permettersi di comprare le BMW e siano costretti ad orientarsi sulle FIAT.

Questo non è penalizzare i consumatori?

Inoltre immaginiamo gli stimoli a migliorare il prodotto che avrebbe la FIAT in una situazione del genere! Con un mercato italiano "costretto" a comprare da loro! Probabilmente rispolvereranno la politica degli anni 70-80 di curare maggiormente i prodotti per il mercato estero e rifilare quello più "andante" al mercato sicuro (al tempo lo Stato e le concessionarie monomarca)

Questo non è penalizzare i consumatori?

Si può decidere, posto che la svalutazione sia una medicina amara ma che guarisce il malato (per me, non lo è), che questa "penalizzazione" sia un male necessario ma è innegabile che esista.

Le svalutazioni riducono il potere d'acquisto di tutti cittadini e allungano la vita alle aziende fallimentari e mantenute dallo Stato come la Fiat.

 

La premessa mi sembra sbagliata. Il vero tema politico oggi è che l’Italia non solo ha perso la sovranità monetaria ma, soprattutto, quella fiscale (vedi trattato di Maastricht, Fiscal Compact e pareggio di bilancio in costituzione).

 

L'Italia ha perso la propria sovranità fiscale quando gli investitori stranieri (ma anche una parte di quelli italiani) hanno smesso di acquistare il debito pubblico. La conseguenza è stata che l'Italia ha dovuto chiedere l'aiuto degli altri partner europei che hanno dettato le loro condizioni. Tale aiuto è poi arrivato per mezzo della BCE (che oggi rappresenta il maggior detentore di titoli italiani). Naturalmente possiamo discutere se le condizioni richieste e le politiche che ne sono derivate siano state appropriate (probabilmente no), ma la verità è che di solito decide chi tiene il coltello dalla parte del manico.

 

Lo scopo è scoraggiare l’acquisto da parte di un residente italiano di una BMW e indirizzarlo verso l’acquisto di una FIAT, non di fare comprare meno auto ai consumatori italiani

 

Astraiamo dal caso italiano: in Turchia non c'erano manifatture di telefonini, il governo ha deciso di tassarli in maniera punitiva, tra l'altro non c'è modo di aggirarla, perché dopo poche settimane di uso i telefoni importati che non hanno pagato la tassa vengono disattivati, ne ho visto alcuni che per riaccenderli bisogna portarli all'estero. Il risultato: l'anno scorso ho regalato uno smartphone a mio suocero che mi è costato il doppio di quanto era costato l'anno prima a mio zio in Italia. Questo tra l'altro punisce i consumatori più deboli, perché la tassazione è fortemente regressiva, per cui chi ha meno soldi da spendere su smartphone entry level generalmente paga il doppio di quanto dovrebbe, mentre chi compra gli iPhone si trova a pagare di più ma non il doppio. Quindi una eventuale industria turca di telefonini, che al momento ancora non c'è, la stanno facendo pagare da anni alle fasce più deboli della popolazione.

Il caso dei cellulari in Turchia è da manuale, vedi pag. 6 e successive di http://www.gsma.com/publicpolicy/wp-content/uploads/2012/05/Mobile_telephony_taxation_Turkey_report_eng.pdf

Gentile Professore,

 

mi scusi se approfitto della situazione per farle una domanda non esattamente in linea con il problema dell'articolo.

 

Lei parla della relazione fra crescita monetaria ed inflazione, in particolare quando la prima è robusta. La Bank of Japan, proprio con l'obbiettivo di aumentare il tasso di inflazione in Giappone, ha deciso di raddoppiare la base monetaria fra il 2013 ed il 2015. Tuttavia, ha deciso non di "stampare più moneta" (il tasso di crescita delle banconote non aumenterà particolarmente) ma di aumentare i current deposits (non so quale sia la traduzione più corretta in italiano) (per i dati, si veda l'annuncio della BOJ di Aprile www.boj.or.jp/en/announcements/release_2013/k130404a.pdf ). Ci sono studi che mettono in relazione l'aumento dell'inflazione a seconda di quale parte delle liabilities di una banca centrale venga aumentata?

 

Inoltre, il Giappone aveva già provato un esperimento di quantitative easing nel 2001, aumentando in maniera sostanziale la base monetaria, ma non era riuscito a far aumentare l'inflazione significativamente. Lei come spiega questo discostarsi dall'evidenza (in effetti robusta in molti altri episodi) della relazione fra crescita dei prezzi e della base monetaria? Questa domanda potrebbe essere riferita anche agli Stati Uniti, visto che dal 2008 più eventi di easing quantitativo non hanno fatto aumentare significativamente l'inflazione.

 

Grazie in anticipo per un'eventuale risposta,

Federico

Questa domanda e'  molto interessante (almeno per chi si occupa di teoria monetaria). Non c'e'  qui lo spazio per una discussione esaustiva, ma provo ad accennare una risposta.  Il legame tra le diverse passivita della banca centrale (circolante, riserve libere, riserva obbligatoria, altro)  e la moneta (per esempio la deinfizione M1) dipende dal "moltiplicatore"  monetario. Questa grandezza risulta da una scelta delle banche (per esempio su quanto essere leveraged)  e non e'  costante nel tempo. Con QE per esempio si e'  osservata una forte espansione di base monetaria assieme a una contrazione del moltiplicatore (l'effetto su M1  e'  stato parecchio contenuto).   

Se le interessa capire come funziona una economia normale, in tempi normali, questi dettagli sono importanti. Ma se le interessa capire cosa succederebbe se per 7 anni  (la durata media del debito)  l' Italia rimorsasse il proprio debito stampando moneta, con un tasso di crescita della base monetaria che a occhio sarebbe intorno al 100% all' anno,   allora credo che questi aspetti diventino secondari. Non importa se rimborsa il debito con riserve, o circolante, o vaglia cambiari.....   la moneta crescerebbe tanto e i prezzi seguirebbero. (quindi, l'affermazione di volere aumentare la base monetaria senza stampare moneta mi pare poco chiara;   si puo gia fare (usando le riserve delle banche anzche il circolante); ma stiamo giocando con le parole;  tutte queste passivita sono " moneta". 

 

Sul legame tra base monetaria e inflazione lei  cita il Giappone.  Spesso si sente dire che e'  difficile creare inflazione stampando moneta, e il giappone ne e'  l' esempio. Non sono d' accordo.  Qualunque analisi coerente del legame inflazione-crescita della moneta le dira' che  per avere inflazione deve avere aumenti ATTESI (ovvero futuri)  e sostenuti della crescita monetaria.  Se lei fa una grande espansione oggi ma i mercati credono (o perche lei lo annuncia, o perche la conoscono, non importa)  che domani ritirera' la  liquidita  dal mercato, l'inflazione non cambia.  Il giappone illustra benissimo questa storia:  nel  2001  la base monetaria e'  cresciuta molto (arrivando sopra il   40% del pil  da circa il 10%), ma nei due anni successivi tutta questa liquidta e'  stat riassorbita e la base monetaria e'  tornata sotto il 10 % del pil  (si guardi le figure sul NBER WP di Ito e Mishkin, 2006) ....... NON SI FA cosi per fare inflazione , eh no!   impariamo dall' argentina o dallo zimbawe. Assumiamo uno dei loro banchieri centrali, stampiamo a tutta manetta annunciando che continueremo a farlo (non come fanno --grazie a dio-- Fed e BCE che dicono  che la liquidita sara monitorata e ritirata dal mercato quando le condizioni sarano normali). Raddoppiamo gli  stipendi dei dipendenti pubblici pagandoli  stampando banconote. Diciamo che lo faremo per almeno 5 anni. Vogliamo vedere se i prezzi non crescono? 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao Federico,

Il motivo per cui il modello del professore non riesce a spiegare come mai, nonostante l'enorme iniezione di liquidità da parte delle banche centrali nell'eurozona e negli Usa (che hanno quasi triplicato la base monetaria), non si sia verificata inflazione ma anzi questa risulta calante da anni negli Usa, mentre l'eurozona è addrittura a un passo dalla deflazione - esattamente come era successo in Giappone -, è che lui - come la maggior degli economisti mainstream - è legato a un'idea di moneta e di credito bancario (quella, appunto, del "moltiplicatore" e della "riserva frazionaria") che purtroppo esiste solo nella mente dei monetaristi. Per un'introduzione più approfondita al concetto di moneta "endogena" consiglio di leggere questo interessante paper di Keynes Blog. Ti si chiariranno molte cose!

Un saluto,

Thomas

Faccio alcune considerazioni sulla svalutazione:

1) Per quanto riguarda le ragioni di scambio in presenza di PTM (prezzi fissati nella valuta del mercato locale) a seguito di un deprezzamento del tasso di cambio aumenterà il prezzo in valuta nazionale delle esportazioni lasciando invariati i prezzi delle importazioni (questo viene definito miglioramento delle ragioni di scambio). Con PTM oltre all'effetto sulle ragioni di scambio abbiamo che: la redistribuzione del reddito avviene a favore del paese domestico a causa della variazione dei profitti e ci sono deviazioni dalla legge del prezzo unico nel breve periodo. Il ragionamento cambia se siamo in presenza di LCP o PCP. Lei faceva riferimento alla definizione classica delle ragioni di scambio? O a quella che differenzia l'effetto del prezzo relativo dei beni non commerciabili da quello del rapporto tra prezzi alle importazioni e prezzi alle esportazioni? Gli aggiustamenti sono diversi almeno nel breve periodo;

2) in merito ai beni NT quando il prezzo dei beni NT aumenta relativamente al prezzo dei beni T il RER si apprezza (il rapporto diminuisce); quando aumenta la domanda nel settore NT, ciò è dovuto al mancato aumento aumento della produttività?

3) il Pass-Through del tasso di cambo varia (il grado) in base alla presenza di LCP,PCP, PTM. Inoltre varia a seconda se viene misurato sui prezzi al consumo o sui prezzi all'ingrosso.  Con LCP il PT sui prezzi al consumo è basso nel breve periodo a causa di rigidità nominali sul mercato di destinazione dei beni (lo dice Engel se non erro); altri (Aurora Ascione, Corsetti) affermano che sul grado di PT (in presenza di LCP) misurato sui prezzi al dettaglio incidono anche i servizi distributivi. In presenza di PCP invece il PT è pari a zero (Aurora Ascione, Corsetti) misurato sui prezzi all'ingrosso (ed il tasso di cambio ha una funzione riallocativa). Con il PTM i prezzi delle esportazioni vengono fissati nella valuta del mercato locale, a livelli diversi nei mercati di sbocco, facendoli varirare poco. In presenza di PTM i mercati sono segmentati c'è potere di mercato nella fissazione dei prezzi. Aumenta la variabilità del tasso di cambio e c'è scarsa riallocazione delle risorse. Il PT è incompleto. In questo terzo punto mi voglio riallacciare al discorso dei cambi fissi perchè alcuni economisti affermano che la teoria del PCP ritiene preferibile il regime di cambi flessibili mentre la teroia del LCP ritiene preferibile il regime di cambi fissi (perchè il regime di cambi flessibili genererebbe devizioni dalla legge del prezzo unico e non svolgerebbe un ruolo riallocativo delle risorse).

Queste sono le tre cose che volevo dire. Mi interessa molto capire il perchè del mancato aumento della produttività nel settore NT o più in generale da cosa dipende la produttività nel settore NT.

Dopo aver per decenni ignorato ogni allerta sul problema monetario, sulla creazione, cioè, DAL NULLA della moneta in uso ieri (la lira) e oggi (l'euro).. ora Vi ritrovate a dover, in maniera piuttosto imbarazzante mi par di capire, SMINUIRE (ancora!) il problema REALE: il signoraggio. Leggo decine di articoli che mi fanno davvero sorridere, da una parte, e pena, dall'altra. Ancora oggi si cerca di SVIARE IL COLPO, dirigere l'attenzione del Lettore verso lidi ALTRI, che non siano il SIGNORAGGIO. Ma, ormai, l'Onda è arrivata. Saprete nuotare, spero (ma anche no).

Accidenti! E io che stoltamente mi preoccupavo per la perdita di competitività delle aziende italiane, per le "infiltrazioni" mafiose, per il numero spropositato di dipendenti parastatali in alcune regioni, per l'inefficienza del sistema scolastico, per un sistema giudiziario (e carcerario) inefficiente ed allo sbando.

Io sul "signoraggio" vedo un problema, che non è quello indicato da Pascucci: la sciagurata rivalutazione delle quote azionarie di Bankitalia, porterà a conferire alle banche azioniste i proventi del signoraggio. Oggi si tratta di una cifra irrilevante, dato lo scarso valore delle quote; dopo la rivalutazione i conferimenti saranno consistenti e diventeranno un aiuto di Stato alle banche, proibito dalle regole comunitarie. Come pasticcio, niente male.

Sono d'accordo, la rivalutazione è la classica porcata. 

Sul signoraggio... beh chi era quello a Milano che diceva che ci uccidevano con l'onda?

Nessun aiuto di stato alle banche,solo una presa d'atto che la quota nominale del capitale sociale ormai è di fatto superata,essendo il capitale reale è molto piu' alto,viste le riserve della banca d'Italia.Infatti,comunque,in caso di vendita,non è che una quota sarebbe stata pagata al valore nominale indicato nel bilancio attuale di banca d'Italia.Sul fatto che ora le banche detentrici delle quote,riceveranno piu' utili di prima,questo è un dato di fatto,ma non sono certo 300-400 milioni all'anno (che sarebbe la quota massima che potrebbero ricevere,ma non è obbligatorio) che risolvono i problemi dell'Italia o che creano problemi.E non credo neanche che si configurino come aiuti di stato.

a me par di capire che più di signoraggio, stampante e svalutazione, l'obiezione che va per la maggiore sia che Italia e Germania non siano parte di un'unica area valutaria ottimale. Io generalmente rispondo facendo notare che probabilmente nemmeno Lombardia e Sicilia lo sarebbero, e che se quella è la ragione, non avrebbe senso tornare ad una valuta condivisa tra Sicilia e Lombardia. Un'interessante obiezione mi è stata fatta da chi propone invece che di uscire dall'Euro di introdurre per la Sicilia una valuta complementare, convertibile con l'Euro ma non in maniera fissa, da usare per raccogliere i tributi locali e per pagare gli stipendi della PPAA ed in generale tutta la spesa pubblica siciliana.

Avere delle monete alternative per ogni comunità potrebbe portare dei vantaggi per la stabilità finanziaria locale. La domanda che dovrebbero però porsi costoro è: come aumentare la produttività? La moneta in sé non può farlo, questo dovrebbero capire.

non capisco come la svalutazione fiscale possa dare gli stessi effetti della svalutazione del cambio.ci sono alcuni aspetti molto diversi che andrebbero quantificati:1)la svalutazione del cambio genera un aumento di prezzo delle merci importate e in misura decisamente minore (a seconda dell'incidenza del prezzo di materie prime)su quelle italiane, mentre un aumento dell'iva aumenta tutto indistintamente.quindi la svalutazione del cambio favorisce le imprese italiane anche in rapporto ai consumi interni2)l'aumento di prezzo di merci importate puo' essere mitigato da una diminuzione della tassazione dato che in italia e' molto elevata.penso ad esempio al caso della benzina su cui la tassazione e' superiore al 50%;lo stato potrebbe  rinunciare all'incremento di gettito dovuto al prezzo aumentato riducendo corrispondentemente la pressione fiscale3)aumento del turismo con le svalutazioni del cambio(e non fiscali)4)aumento ricchezza disponibile (e quindi spendibile in consumi)per i risparmiatori che detengono attivita' finanziarie in valuta estera con le svalutazioni del cambio(e non fiscali)

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Macroeconomia e teoria monetaria

di Alejandro Nadal

A CURA DEL SERVIZIO TRADUZIONI PRIMIT.IT (ogni copia è permessa con un link all’originale: goo.gl/05vaDa)

 

Abbiamo ricevuto molte richieste di spiegazioni più dettagliate in materia di operazioni bancarie. Questa manifestazione di interesse è positiva: un progetto politico di opposizione al neoliberismo non è in grado di offrire alternative senza una conoscenza approfondita del funzionamento di una economia monetaria nel capitalismo contemporaneo. La teoria economica convenzionale sostiene che le banche svolgono una semplice funzione di intermediazione. Ricevere i depositi dei risparmiatori e pagare loro un tasso di interesse. Fornire tali risorse agli operatori economici che vogliono investire in una impresa produttiva o anticipare una scelta di spesa. I guadagni delle banche provengono dai differenziali dei tassi di interesse. Secondo questo racconto, per impedire abusi le autorità monetarie impongono requisiti alle banche, come il mantenimento di riserve prudenziali e indici di capitalizzazione elevati. Secondo gli standard di macroeconomia la banca centrale emette banconote e monete metalliche: è la base monetaria o “moneta ad alto potenziale” [moneta di banca centrale o moneta legale o high powered money – ndT]. Come si spiega, allora, che la base monetaria sia una percentuale molto piccola (di solito non più del 7%), della massa monetaria totale?

Si dice che la massa monetaria totale è un multiplo della base monetaria perché le banche prestano una parte dei depositi ricevuti, mantenendo una frazione degli stessi come riserva [la “riserva frazionaria” – ndT]. E normalmente i prestiti concessi da una banca sono depositati in altre banche che seguitano, a loro volta, a realizzare nuovi prestiti mantenendo una quota di depositi in riserva. In questa serie di operazioni agisce un moltiplicatore della somma inizialmente versata (in termini tecnici, il moltiplicatore monetario è il reciproco del rapporto tra base monetaria e l'offerta di moneta totale). Per questo la base monetaria è una parte molto piccola della massa monetaria totale. Tutto questo è una favola che ha poco a che fare con la realtà.

Fortunatamente oggi abbiamo una chiara radiografia di ciò che realmente accade nel sistema bancario. La prima cosa da considerare è che le banche non hanno bisogno di depositi per fare prestiti. La causalità è invertita: quando la banca concede un credito, fornisce un saldo positivo nel conto del mutuatario, come se questi avesse fatto un deposito pari all'importo del credito stesso. Così gli autori post-keynesiani dimostrano che “i prestiti creano i depositi”. Al diffondersi del sistema bancario, i titoli emessi da banche commerciali private hanno ottenuto il riconoscimento come mezzo di pagamento. Oggi la maggior parte delle transazioni in un'economia capitalistica si effettua tramite assegni e saldi elettronici nei conti delle banche private. Quindi, prelievi e depositi sono un flusso costante di transazioni interbancarie e, per ciò, la posizione di liquidità di una banca non dipende dai risparmi ricevuti nella sua attività di raccolta bancaria. I prelievi da parte dei suoi clienti sono compensati con i pagamenti dei clienti di altre banche. Le operazioni delle banche non sono vincolate dai depositi.

Per dirla in altro modo, un prestito inizia la sua vita presentandosi come un deposito agli occhi del mutuatario. Dire che le banche offrono prestiti è come dire che le banche offrono depositi. E quando “le garanzie” che “coprono” tali depositi sono accettate in tutte le transazioni monetarie, le banche stanno effettivamente creando denaro. Perché il denaro così creato non cresce all'infinito? Perché il denaro creato da una banca al concedere del credito si estingue quando tale credito [il prestito – ndT] viene pagato.

Così funziona il circuito monetario. Il denaro che le banche creano è una promessa di pagamento accettata come moneta per tutti i tipi di transazioni. Ma coloro che ricevono credito sono obbligati a rimborsarlo e quindi devono operare nell'economia non bancaria (nel settore reale) per raccogliere i mezzi di pagamento necessari (in contanti o in titoli bancari accettabili dalla banca che ha emesso il credito). Qual è il ruolo della banca centrale? La priorità della banca centrale è quella di mantenere la liquidità nel sistema bancario e mantenere la stabilità finanziaria. Per questo si adatta alla domanda di riserve che le rivolge il sistema bancario. Così, le variazioni della base monetaria non sono ciò che determina l'offerta di moneta. Al contrario, le variazioni dell’offerta di moneta impongono cambiamenti nella base monetaria. Le banche centrali non controllano l'offerta di moneta. Ciò significa che le variazioni dell'offerta di moneta non sono determinati in maniera esogena dalle operazioni di banca centrale (attraverso le sue operazioni di mercato aperto). Non importa quanto ristrette siano le norme in materia di riserve, le banche private, quando incontrano un progetto redditizio e con garanzie adeguate, concederanno sempre tutti i prestiti che l’economia richiede. Poi chiederanno le riserve alle banche centrali e questo organismo non potrà negargliele. Da questa analisi, le cui origini si trovano nel lavoro di Keynes e molti altri economisti, si traggono gravi implicazioni politiche.

 

A CURA DEL SERVIZIO TRADUZIONI PRIMIT.IT (ogni copia è permessa con un link all’originale: goo.gl/05vaDa)

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Basta prendere sul serio le stupidaggini paleomarxiste di Nadal

ciptagarelli.jimdo.com/2012/02/26/crisi-e-lotta-di-classe/

la moneta bancaria non ha potere liberatorio e non è legale? e adesso ci dice che " Il denaro che le banche creano è una promessa di pagamento accettata come moneta per tutti i tipi di transazioni": non le sembra di contraddirsi?

..ma io mi preoccupo più della caduta del sinallagma  e relativa manleva che di costituenti sintattici.. sempre per due come fosse antani, chiaramente!

la sintassi è essenziale per la comprensione delle cose. In ogni caso, non mi pare che abbia risposto al mio quesito, posto che nei suoi diversi interventi non emerge un significato costante del sostantivo "moneta" né dell'aggettivo "legale", per tacere del significato che - nel suo pensiero - ha l'insieme dei due vocaboli quando sono accoppiati. Ci illumini, La prego, poi si potrà proseguire l'interessante disputatio.

Ho letto con grande interesse quello che ha scritto. Sono particolarmente interessato a questi temi, non solo perchè ,ormai, "inflazionatissimi", ma anche perchè fanno parte di quella parte dell'economia "difficile da seguire", quindi è sempre bene leggere, nero su bianco, una spiegazione chiara e argomentata. Soprattutto leggendo l'ultima parte,però, mi rendo conto delle difficoltà di applicare una politica fiscale che tenda verso la strada della svalutazione. Posto che, a mio avviso(pertanto facilmente smentibile), l'Italia dovrebbe agevolarsi soprattutto nelle importazioni che non nelle esportazioni(visto che comunque la forza del made in italy da una parte e la capacità d'innovare dall'altra, trainano abbastanza bene l'export), pur realizzando gli adeguati tagli e conseguenti riduzioni fiscali, temo che questo non basterà a farci vincere la guerra sui costi con i paesi emergenti nell'area euro e che quindi la moneta unica continuerà ad essere più benevola con quest'ultimi che non con noi. Mi spiego meglio, nonostante tutte le spese che potremmo tagliare a copertura di altrattante riduzioni d'imposte, avvicinarci,dal punto di vista fiscale, ad un paese,come ad esempio, la Polonia, e quindi diventare altrettanto competitivi, significherebbe rivedere buona parte del nostro stato sociale, altrimenti, con il mercato unico, sarà sempre più conveniente andare ad investire verso questi paesi, o no?Quindi mi chiedevo, finchè non si creerà un'unione politica dell'UE e non si introdurrà una fiscalità condivisa, è possibile ipotizzare una crescità più o meno bilanciata per ciascuno dei paesi che compongono l'intera area, o saremo costretti ad aspettare che i più poveri convergano con le nostre economie prima di veder funzionare l'euro correttamente?

Mi scuso anticipatamente per le castronerie che posso aver scritto, la mia è una semplice riflessione, i cui "fatti" sono suffragati da una semplice visione superficiale della situazione europea. Mi piacerebbe comunque, nel caso, avere una spiegazione più approfondita e soprattutto, quale può essere,secondo lei, una possibile via d'uscita italiana e come potrebbe difendersi in futuro all'interno dell'area euro.

Guarda, dal punto i vista della competitività la moneta in se è neutrale, quello che conta è la produttività. La Germania (l'Olanda, gli scandinavi,...) ha uno stato sociale milgiore del nostro e tasse simili, ma l' output per addetto è più alto e non ha tutti 'sti problemi a competere con la Polonia: Electrolux ha chiuso pure li, ma loro compensano facendo più tante auto e macchinari.

Supponi per un momento di passare dall' euro alla lira e svalutare del 30%. Se rivaluti del 30% pensioni e salari in pratica tutto resta come prima, anzi perdi un po' di competitività in export e ne guadagli un po' sul mercato interno per via dei costi di conversione e rischi di cambio.

Il guadagno di competitività ce l'hai svalutando e non adeguando i salari (o adeguandoli in parte).

Siccome il taglio del 30% si applica a tutti, è meno drammatico di uno concordato col datore di lavoro: pure il parrucchiere e l'avvocato e l'affitto di casa costano il 30% in meno. Il problema è sui tradable: se la manodopera contribuisce al costo di un auto Fiat per il 20%, Fiat avrà un abbattimento dei costi del 6% ad auto. Se questo si traduca o meno in una riduzione di prezzo dipende dall' elasticità della domanda interna ed esterna: se basta scendere del 3% per piazzare lo stesso numeo di vetture incrementando le esportazioni, Fiat guadagnerà un 3% in più ad auto, se non basterà scendere del 6% per mantenere le quote di produzione Fiat potrebbe decidere di ridurre i suoi margini, o di chiudere stabilimenti.

In ogni caso per l' italiano medio la Fiat sarà un 24% più cara, la Volkswagen un 30%.

Svalutare può essere il modo meno doloroso di adeguare il tenore di ivta degli italiani alla loro produttività, ma di questo si tratta, una generale riduzione del tenore di vita.

Con o senza euro, se vogliamo spendere più dei polacchi dobbiamo produrre più di loro, fine.

Con l'euro nel bene e nel male siamo costretti a rigar dritto dal punto di vista monetario e fiscale, con la lira saremmo più liberi, libertà che pagheremmo come costo del debito. Non è ben chiaro se il gioco valga la candela. Quello che è chiaro è che nel passaggio alla lira si rischia una bank run che potrebbe avere conseguenze tragiche, stile grande depressione.

Interessanti i dubbi che hai sollevato Giancarlo. Anch'io sempre sperando di non scrivere castronerie (eventualmente fatemelo notare) evidenzierei che probabilmente e non so con quale velocità, i salari e le fiscalità di paesi come la Polonia tenderanno a salire e questo accorpato probabilmente ad una diminuzione del peso fiscale in Italia potrebbe diminuire il  divario tra i due paesi. Poi in quanto tempo si attuerà e se la differenza rimarrà ancora elevata...

A proposito dei pro e contro della svalutazione sarebbe interessante valutare quello che accade nel mondo. A tal proposito in Giappone nonostante la svalutazione il deficit commerciale prosegue da 18 mesi con varie punte record.

www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-14/giappone-e-record-il-deficit-partite-correnti-072405.shtml

Ricordo la celebre battuta di Duisemberg a Tremonti, che non rammento perché di certo la ricorderete anche voi. In base a questo articolo sembrerebbe però che le rendite da signoraggio finiscano nelle casse delle banche nazionali, senza distinzione significativa tra moneta di conio, emessa dalle banche nazionali, e moneta cartacea emessa dalla BCE. Duisemberg era disinformato?

Solo parte del reddito da signoraggio ricavato dalla banca centrale con l'emissione di banconote e moneta elettronica va al ministero del Tesoro, probabilmente così intendeva. Mentre quello da conio è gestito completamente dal Tesoro (a parte le limitazioni alla produzione e circolazione delle monete metalliche stabilite comunque dalla BCE).

Leggo nell'articolo "il signoraggio è pari [indicativamente] allo 0,5%  del PIL", in Italia questo corrisponde per un PIL molto approssimativamentre di 1500 miliardi di Euro a 7.5 miliardi di Euro (una cifra che ricorda alcuni eventi recenti).  Leggo poi che Bankitalia ha dato allo Stato come media pluriennale da 370 a 600 milioni di Euro all'anno. Nell'articolo si da' l'impressione che Bankitalia trasferisca allo Stato il signoraggio, per esempio leggo

la Banca d'Italia, fatti gli accantonamenti a riserva, trasferisce quindi il signoraggio  ricevuto  (denominato ``reddito monetario'' nel bilancio, e gli altri eventuali profitti dopo le imposte) al Tesoro

Se con "signoraggio" si intende reddito annuale legato al signoraggio, allora Bankitalia non l'ha retrocesso allo Stato se non in minima parte. In altri termini, quale e' la relazione tra i numeri che vengono attribuiti al "signoraggio" e il "reddito monetario" di Bankitalia?

 

 in Italia questo corrisponde per un PIL molto approssimativamentre di 1500 miliardi di Euro a 7.5 miliardi di Euro (una cifra che ricorda alcuni eventi recenti).

 

In realtà era solo un esempio, il signoraggio è molto meno. La frase completa:

"Se assumiamo che la BCE ricavi un interesse del 5% (direi per eccesso) sui titoli che ha in portafoglio come contropartita di questa passività, il signoraggio  è pari allo 0,5%  del PIL."


 

Se con "signoraggio" si intende reddito annuale legato al signoraggio, allora Bankitalia non l'ha retrocesso allo Stato se non in minima parte. In altri termini, quale e' la relazione tra i numeri che vengono attribuiti al "signoraggio" e il "reddito monetario" di Bankitalia?

 

No, la quota maggiore di reddito da signoraggio va al Tesoro, oltre alle imposte sugli altri redditi conseguiti dalla banca centrale. Puoi leggere i dati nella relazione annuale di Bankitalia. Il "reddito monetario" dovrebbe corrispondere al signoraggio credo, o forse alla sola quota destinata al Tesoro.

"Per il 2012 si registrano interessi attivi netti pari a 2.289 milioni di euro (1.999 milioni nel 2011). Tale importo include interessi per 633 milioni di euro (856 milioni nel 2011) generati dalla quota della BCE sul totale delle banconote in euro in circolazione"

"Alla BCE è stata attribuita una quota pari all’8 per cento del valore totale dei biglietti in euro in circolazione, "

Considera che la BdI partecipa al capitale della BCE per il 12,3108% su un totale del 69,9783% - 0,2821% dell'Eurozona meno la Lettonia (che nel 2012 era fuori dall'Euro).

Et voilà: hai il valore del signoraggio a livello Eurozona (7 913 milioni di euro se non ci sono errori), poi declinabile a livello di BdI (1 286 milioni di euro).

Qui: noisefromamerika.org/c/11932/100238 Ho scritto la ripartizione dell'utile 2012 della BdI. La BdI non solo trasferisce l'utile allo Stato italiano, ma lo fa solo dopo aver pagato le imposte sull'utile al medesimo Stato.

Anche io l'avevo capita così. Ti chiedo allora quale sia la quota parte del reddito da signoraggio che viene retrocessa al Tesoro dalla BCE, e chi si cucca la parte rimanente. Leggendo questo articolo sembrerebbe che tutto o quasi tutto il reddito da signoraggio prodotto dalla banca centrale sia redistribuito ai paesi membri. E' davvero così?

Io intendevo Bankitalia, che versa una quota al Tesoro.
La BCE versa alle rispettive banche centrali nazionali delle quote dal reddito di signoraggio e altri proventi, in base alla percentuale di partecipazione delle medesime nella BCE.