Simula tu che simulo anch'io

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La Cgia di Mestre e il ministro del lavoro Sacconi si sono presi a simulate in testa dibattendo a distanza sui possibili effetti di un allentamento della legislazione sulla protezione dell'occupazione in Italia. Entrambi i contendenti farebbero meglio a deporre la mazza e a riconoscere che la risposta a una domanda difficile come questa è troppo elusiva per essere brandita con tanta nonchalance nell'arena politica.

La storia la potete leggere qui. In breve, tra le riforme promesse dal governo nella lettera del 26 ottobre 2011 per evitare il baratro al quale l'Italia si avvicina con moto uniformemente accelerato da una decina d'anni c'è anche

una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato.

 

Una possibilità allo studio è la conversione della cassa integrazione in compensazione per i lavoratori a tempo indeterminato che un'impresa sarebbe libera di licenziare per motivi economici.

La Cgia di Mestre (CM) ragiona così: dal 2009 a oggi un sacco di persone sono state messe in cassa integrazione. Se questa possibilità allo studio fosse stata regola nel 2009, allora tutte queste persone sarebbero oggi disoccupate. Quindi, sommandole ai disoccupati che già ci sono oggi in Italia la disoccupazione arriverebbe all'11,1%, dall'8,2% attuale.

Il ministro Sacconi, parecchio risentito, ragiona invece così: permettendo di licenziare per motivi economici si fornisce un incentivo ad assumere. Tant'è vero che, cito,

Tutte le simulazioni relative alla maggiore flessibilità in uscita che a livello internazionale sono state realizzate danno infatti più occupazione

 

Iniziamo dalla simulazione della CM. La parte (non intenzionalmente, credo) giusta è che i lavoratori in cassa integrazione dovremmo considerarli di fatto disoccupati, anche se tecnicamente e statisticamente non lo sono. Ne avevamo già parlato qui. Tutto il resto è un disastro, come sempre accade quando si utilizza il modello superfisso. Nel modello superfisso, come il nome suggerisce e come ha sinteticamente spiegato Andrea a Salamanca, tutto è fisso: prezzi, quantità, posti di lavoro, tutto.

Nella simulazione della CM i posti di lavoro, le persone disposte a lavorare e i salari sono tutti fissi. Quindi, se permetti a tutte le impresa in difficoltà di licenziare dipendenti a tempo indeterminato che queste imprese avrebbero altrimenti messo in cassa integrazione, allora questi sfortunati dipendenti diventano disoccupati, e nient'altro succede nel mercato del lavoro. Quindi l'occupazione diminuisce e il tasso di disoccupazione aumenta. Il modello superfisso funziona così.

Il motivo per cui il ragionamento è risibile è ovvio: l'occupazione e il tasso di disoccupazione dipendono dal grado di protezione dell'occupazione. Questi dunque sarebbero stati diversi, dal 2009 a questa parte, se il governo avesse permesso alle imprese di licenziare per motivi economici senza obbligo di reintegro. In particolare, il tasso di disoccupazione non sarebbe oggi l'8,2% quindi tutta la simulazione della CM è spazzatura (e guardate che qui non c'è nulla di sofisticato, niente che richieda di capire la "critica di Lucas", qui è manuale del primo anno: se alteri una variabile esogena cambiano le variabili endogene) altro che "puro esercizio teorico" come l'hanno chiamato alla CM per mettere le mani avanti: i puri esercizi teorici si fanno in ben altro modo.

Ha ragione Sacconi, allora? Manco per niente. Ciò che è certo (o quasi) è che l'equilibrio del mercato del lavoro oggi sarebbe stato diverso se le norme allo studio fossero state in vigore nel 2009. Ma quale sarebbe stato questo equilibrio non lo sanno né la CM né Sacconi, anche se il ministro afferma che tutte le simulazioni realizzate in giro per il mondo dicono che quello che il governo ha intenzione di fare aumenterà l'occupazione. Sarebbe interessante vederle queste simulazioni ma i politici, si sa, sono poco avvezzi a citare gli studi dai quali traggono ispirazione (non dovesse succedere che qualche giornalista economico poco addomesticato che si paga i viaggi da solo o qualche dannato blogger, che li ha capiti un po' meglio questi studi, si mettano a fare domande imbarazzanti ...).

Perché la grandissima parte degli studi conosciuti e ritenuti importanti (fino ad oggi) nella professione dicono che proteggere o "sproteggere" l'occupazione ha effetti incerti su occupazione e disoccupazione. Proteggere l'occupazione riduce la "distruzione" dei posti di lavoro (cioé riduce il flusso di entrata nel gruppo dei disoccupati e quello in uscita dal gruppo degli occupati) ma riduce anche la "creazione" di nuovi posti di lavoro (cioé riduce anche il flusso di uscita dal gruppo dei disoccupati e quello in entrata nel gruppo degli occupati). Il contrario succede quando si "sprotegge" l'occupazione. L'effetto netto di queste politiche sugli stock di occupazione e disoccupazione è quindi del tutto incerto sul piano teorico.

Cosa dice l'evidenza empirica? La tabella qui sotto (tratta da The Economics of Imperfect Labor Markets, un libro di testo scritto da Tito Boeri e Jan van Ours) fornisce una risposta sintetizzando i risultati di un sottoinsieme rilevante degli studi empirici sul tema. Partiamo dall'ultima colonna: il meno significa che la protezione dell'occupazione riduce i flussi in entrata e in uscita dalla disoccupazione, come dice la teoria. Su questo l'evidenza è chiara e unanime. Nella terza colonna (effetto della protezione dell'occupazione sui flussi in entrata e in uscita dall'occupazione) cominciano a comparire i punti interrogativi (evidenza insufficiente) e quando non ci sono punti interrogativi ci sono segni contrastanti, qualcuno trova -, qualcuno trova + (evidenza contraddittoria tra studi diversi, che utilizzano dati diversi, modelli econometrici diversi, ecc.). Quando si passa alle prime due colonne (effetti sugli stock di occupazione e disoccupazione) i punti interrogativi abbondano: questo significa che la risposta alla domanda è molto elusiva: veramente molto difficile dire, con sufficiente grado di affidabilità statistica, quale potrebbe essere l'effetto su occupazione e disoccupazione.

 

epl

Viene da pensare che Sacconi abbia guardato l'ultima colonna e si sia confuso (come il suo collega al ministero dell'Economia) sul significato di flussi e stock! Più realisticamente, a Sacconi avranno certamente fatto vedere delle simulazioni che mostrano quello che lui dice. Stiracchia quel parametro lì, dai una limatina a quel parametro là e vedrai quello che vuoi vedere. Però tra questo e affermare che "Tutte le simulazioni relative alla maggiore flessibilità in uscita che a livello internazionale sono state realizzate danno infatti più occupazione" ce ne corre, e parecchio.

Deponete le clave e siate seri. Se no l'angelo anticazzate vi punirà.

P.S.: Una nota più costruttiva, un consiglio al ministro; quello che Sacconi potrebbe proporre è una sperimentazione ben disegnata in alcune province (ad esempio una al nord, una al centro, e una al sud). Questo permetterebbe di capire cosa succederebbe se il governo consentisse il licenziamento per motivi economici fornendo allo stesso tempo, ad esempio, assicurazione universale contro la disoccupazione. Molto meglio di fantomatiche simulazioni.

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Commenti

Ci sono 45 commenti

 

Una possibilità allo studio è la conversione della cassa integrazione in compensazione per i lavoratori a tempo indeterminato che un'impresa sarebbe libera di licenziare per motivi economici.

 

Non ho idea di come questa "possibilità allo studio" venga concretizzata e forse non ne hanno idea nemmeno a Roma, tuttavia ipotizzando (fantascienza) che si faccia una cosa seria mi pare che i disoccupati/cassaintegrati dovrebbero diminuire e l'occupazione aumentare.

Questo lo penso non in base a modelli ma in base a come funzionano gli ammortizzatori sociali dove sono fatti bene.

Per prima cosa ipotizzo che gli ammortizzatori sociali in compensazione che si vorrebbero istituire hanno solitamente un durata massima (che sia un anno o due non importa, non è infinita) mentre mi pare che ci siano lavoratori in cassa integrazione da vari anni, proroga dopo proroga. Tempi piu stretti implicano di muoversi rapidamente e non dormire sugli allori. Tuttavia gli ammortizzatori sociali non si limitano a fornire un reddito sostitutivo temporaneo ma operano attivamente sia per riqualificare il lavoratore e permettergli di rientrare nel mercato del lavoro da una posizione di maggiore forza, sia cercando attivamente nuovi posti di lavoro. Il risultato è che è molto meglio un lavoratore all'interno di un programma attivo di ricupero e formazione che un lavoratore allo sbando in cassa integrazione o pargheggiato in un angolo dell'azienda perché "non licenziabile".

Da notare che anche all'interno degli ammortizzatori sociali è possibile individuare misure temporanee tipo cassa integrazione, da mettere in atto quando una singola impresa è in crisi e si ritiene che sia preferibile non perdere lo stock di lavoratori. Misure del genere pero' non superano i sei mesi. Dopo è indispensabile che i lavoratori escano dal "parcheggio forzato" e vengano reintrodotti nel mondo del lavoro.

La comparazione da fare per me è la seguente:

a) da un lato il sistema attuale, per cui a parte il fallimento dell'azienda o la chiusura dell'attività (che comporta la perdita di tutti i posti di lavoro) abbiamo che per le aziende che rientrano nella tutela dell'art 18 c'è il reintegro del lavoratore (quindi un costo caricato all'azienda) oppure la cassa integrazione (idem, ma solo per le imprese industriali >50 dip e sempre con il costo caricato all'azienda). Questo si traduce in un immobilizzo di risorse e in una graduale perdita di qualifica professionale. C'è poi la cassa in deroga, pagata questa dallo stato, con la fiscalità generale. [correggetemi se nella sintesi ho scritto imprecisioni].

b) dall'altro un sistema universale per tutti i lavoratori dipendenti (pubblici e privati indipendentemente dalla dimensione  e dal settore) che attivamente si preoccupa di riqualificare i lavoratori in funzione delle richieste del mercato per reintrodurli al piu' presto nel mercato del lavoro.

Mi pare che tra a) e b) il secondo sia da preferire e se non è mai stato fatto è perché da un lato un simile sistema costa (e chi lo paga?) e dall'altri i sindacati hanno sempre preferito sostenere la difesa del "posto" di lavoro rispetto alla dinamicità della ricerca di uno nuovo. Anche qui si preferisce il "fisso" a "dinamico".

 

 

molto meglio un lavoratore all'interno di un programma attivo di r[e]cupero e formazione che un lavoratore allo sbando in cassa integrazione o pargheggiato in un angolo dell'azienda perché "non licenziabile".

Su questo non c'e' dubbio.

Mi pare che tra a) e b) il secondo sia da preferire e se non è mai stato fatto è perché da un lato un simile sistema costa (e chi lo paga?) e dall'altri i sindacati hanno sempre preferito sostenere la difesa del "posto" di lavoro rispetto alla dinamicità della ricerca di uno nuovo. Anche qui si preferisce il "fisso" a "dinamico".

Si, il punto e' soprattutto il costo di (b) (vedi la discussione di Andrea alle Giornate nFA 2011) ma anche le preferenze dei sindacati. Parlando di queste cose a un convegno a Follonica l'anno scorso mi sono sentito dire da un ex dirigente sindacale che il posto di lavoro non e' fungibile, cioe' non si puo' dire "cio' che conta non e' la stabilita' del posto ma la stabilita' del reddito". Se questa e' la premessa c'e' poco da discutere di opzione (b).

Mi pare che tra a) e b) il secondo sia da preferire e se non è mai stato fatto è perché da un lato un simile sistema costa (e chi lo paga?)

Bisogna anche mettere nell'equazione che con b) si avrebbe, almeno inizialmente, un enorme trasferimento di risorse dalle parti più sviluppate a quelle meno sviluppate del paese.

Oggi, con l'approccio clientelare quindi limitato soltanto ad una piccola parte dei possibili interessati (i famosi "forestali calabresi", gli LSU e i GESIP di Palermo, e via di questo passo, che tutti insieme sono in realtà soltanto una piccola parte degli inattivi potenzialmente attivabili nel paese) vengono trasferiti, in maniera iniqua, soltanto una piccola parte (probabilmente irrisoria al confronto) di quello che costerebbe il modello b).

Un sistema universale di ammortizzazione sociale, che per me sarebbe, anzi, meglio dire potrebbe essere, più equo e più efficiente (in un'ottica veramente "nazionale") di quello assistenziale clientelare attuale, sarebbe osteggiato all'ultimo uomo da partiti come la LN.

Ad ogni modo io non darei mai soldi in cambio di nulla. Mai. Sono favorevolissimo ad un sistema universale, che garantisca il minimo per sopravvivere (letto, pasta a pranzo e zuppa a sera), ma in cambio bisogna fare qualcosa (che oltre a cercarsi un lavoro, significa anche studiare o riqualificarsi o lavori per la comunità).

 

Mi pare che tra a) e b) il secondo sia da preferire e se non è mai stato fatto è perché da un lato un simile sistema costa (e chi lo paga?) e dall'altri i sindacati hanno sempre preferito sostenere la difesa del "posto" di lavoro rispetto alla dinamicità della ricerca di uno nuovo. Anche qui si preferisce il "fisso" a "dinamico".

 

A me sembra che il grosso scoglio a livello dell'opinione pubblica è quello della sfiducia cronica verso il governo. Nessuno dei miei amici riesce ad immaginarsi un governo che attiva un servizio di tutela e riqualificazione del lavoro. Si dà quasi per scontato che il "riformare il lavoro" in Italia si traduce semplicemente nell'abrogazione dell'articolo 18, dopodiché ognuno è lasciato a sé stesso. Insomma l'ipotesi b per molti è: io azienda ti licenzio quando voglio, dopodiché tu ti arrangi da solo. Ed ovviamente chiunque, a queste condizioni, sceglierebbe l'ipotesi a.

quanta confusione

l'articolo 18 dello SdL integra le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n. 604  disponendo il reintegro del lavoratore o lavoratori licenziati senza giusta causa: infatti la legge n. 604 ha il seguente titolo: Norme sui licenziamenti individuali.

Non è che oggi se un lavoratore ti sta antipatico lo metti in cassa integrazione.

I licenziamenti collettivi dove entrano in gioco cassa integrazione e mobilità sono invece regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223 e l'articolo 8 della manovra, sorgente dela polemica fra Sacconi e la CGIA di Mestre non influisce su questa norma: per licenziare servirà sempre la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento ma il contratto delineato dall'articolo 8 potrebbe prevedere in luogo del reintegro un risarcimento. Quindi Mestre ha fatto simulazioni sul nulla e Sacconi ha polemizzato sul nulla. Diversa la proposta Ichino che cambierebbe la legge 223 prevedendo una indennità di disoccupazione più lunga e consistente al posto della c.i.g. e corsi di aggiornamento e riqualificazione durante ladisoccupazione.

 

una sperimentazione ben disegnata in alcune province

 

Il fatto che si tratti di una sperimentazione e che sia limitata ad alcune province non altera i risultati? Ad esempio molti datori di lavoro potrebbero essere invogliati a usufruirne immediatamente per paura che la possibilità venga tolta successivamente, oppure i lavoratori potrebbero cercare maggiormente lavoro nelle province vicine dove avrebbero maggior tutela, abbassando il tasso di occupazione in quella oggetto dello studio.

Mi chiedo inlotre, in alternativa, se non siano già disponibili dati da altri paesi dove la misura è stata introdotta.

Certo, per quello ho scritto "ben disegnata": non e' facile ma qualcuno tra i ben pagati consulenti tecnici del ministro potrebbe studiare bene come fare se no cosa li paghiamo a fare?

dati da altri paesi dove la misura è stata introdotta

L'introduzione del sistema di flexicurity in Danimarca sembra aver funzionato. Ma l'Italia non e' la Danimarca.

A dir la verità nessuno degli studi riportati prevede un aumento dell'occupazione, potrebbe essere questo l'abbaglio del ministro? (sono portato a pensare che non ci sia alcun abbaglio, solo cialtroneria, ma sono prevenuto).

ps: qualcuno dovrebbe spiegare agli interessati che la CIG è un regalo ai "padroni" (sopratutto se incapaci) e una violenza ai lavoratori (l'azienda può permettersi di andare in crisi e non pagare i lavoratori senza il rischio di perderli, mentre loro sono bloccati, in un limbo in cui i soldi sono pochi e si perdono le proprie capacità)

Si sente sempre dire che lo Stato ha speso decine di miliardi in questi anni per sovvenzionare la cassa integrazione.

E' possibile sapere quanto abbiamo speso (come Italia, non quella "accantonata" all'INPS) in cassa integrazione? Questa potrebbe essere una informazione interessante.

Costa di più la cassa integrazione o il sussidio di disoccupazione?

Ecco, vorrei aggiungere la voce dell'ignoranza, la mia.

"Quindi, se permetti a tutte le impresa in difficoltà di licenziare dipendenti a tempo indeterminato che queste imprese avrebbero altrimenti messo in cassa integrazione, allora questi sfortunati dipendenti diventano disoccupati, e nient'altro succede nel mercato del lavoro". Cioè il modello superfisso non concepisce che ci sia la possibilità che da 90 i posti di lavoro tornino ad essere 100, facendo della perdita di lavoro un castigo divino irrimediabile?

Il mio dubbio poi è questo: la CIG serve ad evitare che un lavoratore perda il lavoro quando la sua azienda è in temporanea crisi ma presume di riprendersi (lanciando un nuovo modello, o riottenendo l'accesso a mercati temporaneamente chiusi).

Se invece perde lavoro strutturalmente (è in fallimento), la CIG non si applica.

In un caso come nell'altro questo strumento serve a non lasciare a terra il lavoratore, e non c'entra nulla con le sorti dell'azienda (che sia in crisi temporanea o meno).

Dal punto di vista occupazionale, quindi, la CIG non c'entra una ceppa con il tasso di disoccupazione, se non perché ne nasconde un po' sotto il tappeto.

E dunque: a che pro legare il lavoratore alla sua azienda? Mettiamo il caso, ragionando anche in termini superfissi, che una azienda licenzi invece di cassintegrare. Quando si riprenderà qualcuno dovrà riassumere, comunque: che sia quel lavoratore od un altro è statisticamente irrilevante. Ma il posto di lavoro, parrebbe, "non è fungibile".

Però con la cig un lavoratore già sul mercato del lavoro gode di un diritto di prelazione sul posto di lavoro de facto rispetto a chi viene licenziato per fallimento o altra ragione o per chi è appena arrivato (nuova forza lavoro).

All'azienda peraltro la cig costa, anche se con contributi statali, ed è difficile che questo aiuti a recuperare posizioni.

Una delle ragioni per cui Ichino ha strutturato la sua proposta così come è sta nell'idea che se aspettiamo che le aziende quasi falliscano per licenziare si fanno molti più danni che licenziando pochi lavoratori quando la situazione è ancora gestibile.

Mi sembra un approccio coerente con quanto scrivete. E così?

Nel costo di B) credo bisognerà tener conto delle strutture dove poter riqualificare chi resta senza lavoro, che non possono essere evidentememte i corsi per disoccupati delle regioni (vedi Sicilia) che non mi pare abbiano mai consentito ad alcuno di trovare un nuovo lavoro.

Ma, amio modo di vedere, il punto essenziale è la formulazione di una nuova politica economica.

Perchè o la domanda di lavoro deve essere nuova e sostitutiva di un vecchio modello che non regge più o non ci sarà.

Non può essere solo la moda, ad esempio, che può reggere la produzione e le esportazioni.

Ma lo sfruttamento dei nostri giacimenti culturali per cui trovo difficile qualificare (se non in strutture adatte) ex operai e impiegati in operatori di musei, siti archeologici, gestori di strutture alberghiere, ecc.; oppure nella prevenzione e manutenzione del territorio (come anche le notizie di oggi mostrano quanto sia necessario); o ancora le nuove opportunità offerte dalla tecnologia (a partire dalla produzione di energia).

 

Vivo da quasi 5 anni in Germania, lavoro come consulente presso una multinazionale con sede centrale in UK. Per motivi di lavoro faccio spesso spola con Londra e posso osservare che:

1) gli stipendi sono circa uguali per uguale posizione, forse leggermente meglio in Germania (dipende dal cambio del momento piu' che altro)

2) gli altri benefits/perks sono decisamente migliori in Germania. I dipendenti hanno sconti su autobus, palestre, eventi sponsorizzati. In UK praticamente nulla.

3) la sicurezza del posto e' completamente diversa. In Germania i dipendenti licenziati "per esubero" hanno diritto a 6 mesi di stipendio al 100% senza obbligo di far nulla se non cercarsi un altro lavoro. Praticamente impossibile licenziare qualcuno per scarso rendimento. In UK possono e vengono licenziati dalla sera alla mattina, senza neppure bisogno di un motivo. Differenze similari ci sono anche per permessi di maternita' e vacanza pagate.

Eppure con tutti questi vincoli la Germania ha l'economia piu' forte d'Europa... ma come fanno?

A naso direi che hanno vincoli congegnati e applicati con competenza e serietà, anche se poi l'unico "vincolo" vero di cui parli è il licenziamento individuale (il nostro art.18, che, stando a "la Stampa" c'è in quasi tutta Europa, anche se con forma diverse).

Il resto sono solo forme di fidelizzazione dei dipendenti.

Probabilmente hanno un sistema economico che non mantiene in vita con sussidi (come la CIG) aziende non competitive. In questo modo si ritrovano con un sistema produttivo concentrato nei settori a maggior valore aggiunto e la produttività è tale da permettere (e forse rendere convenienti) le spese aggiuntive.

 

In Germania (...) Praticamente impossibile licenziare qualcuno per scarso rendimento.

 

Sei sicuro? Io lavoro per un'azienda tedesca (ma sono "distaccato" in Italia) l'impressione che ho ricavato è che i colleghi tedeschi poco produttivi (o in settori poco produttivi) vengano licenziati con notevole facilità.

 

@Corrado, per carita' di patria il paragone con l'Italia non lo faccio neppure. L'operaio tedesco guadagna quasi il doppio di quello italiano, vive in un paese dove il costo della vita e' minore, i servizi molto migliori, lo stato sociale funziona.
Nello specifico, non sara' impossibile licenziare come in Italia, ma da quello che ho visto, devono dargli almeno questi 6 mesi pagati. In UK nulla. E anche il numero di giorni di festivita'/ferie e' molto alto in Germania.

Teoricamente, da quanto capisco di economia, UK che ha le leggi europee piu' market-friendly dovrebbe essere l'economia trainante d'Europa, invece e' la Germania.

@Francesco, si d'accordo ma rimane il punto di fondo: perche' i tedeschi "hanno vincoli congegnati e applicati con competenza e serietà"? Sono certo che non ci sia una differenza genetica: italiani in Germania lavorano altrettano seriamente e i tedeschi quando possono (aziende gestite male) lavorano quanto i peggiori statali italiani.

 

L'ipotesi (però non suffragata da conoscenza diratta) è che li le aziende gestite male falliscano (il che non sicgnifica che chiudano), con la conseguenza che la maggior parte delle aziende non lo sono (l'azionista che sa di poterci perdere tutto sta attento ai risultati di lungo periodo).

Poi c'è il fatto che lo stato di diritto funziona: in generale le regole sono rispettate, quando non lo sono è spontaneo "fare la spia" e le controversie sono risolte efficacemente. Il che si può riassumere col fatto che lo stato ha una solida e meritata credibilità.

Scusa, pensavo parlassi in generale non rispetto alla UK (nonostante fosse chiaro da come avevi scritto). Per il resto: benvenuto nel mio mondo :-) anch'io sono anni che cerco di capire perchè la Germania è la Germania.

 

Teoricamente, da quanto capisco di economia, UK che ha le leggi europee piu' market-friendly dovrebbe essere l'economia trainante d'Europa, invece e' la Germania.

 

In realta' in termini di PIL a parita' di potere d'acquisto UK supera la Germania, vedi ad es. La rovinosa cavalcata del PIL italiano (03 Febbraio 2010). Certo il PIL non e' tutto, un altro indice riassuntivo della salute di un Paese e' l'indice di sviluppo umano, dove immagino (ma non ho controllato ora) la Germania superi UK. Complessivamente comunque non vedo grande differenza tra Germania e UK in termini di PIL pro-capite.

Ritengo sia impossibile capire con certezza che cosa fa funzionare un Paese di 60-80 milioni di abitanti meglio di un altro, ma personalmente ritengo che le leggi, pur importanti, non sono l'unico fattore determinante sul risultato econonico finale, ci sono altri fattori molto importanti, tra cui citerei il livello di istruzione della popolazione, il buon funzionamento della giustizia (specie l'enforcemente dei contratti), il livello di fiducia nel prossimo, la coesione culturale e sociale. Storicamente credo che i tedeschi, ad esempio, siano stati piu' istruiti dell'inglese medio, e probabilmente questo vale ancora oggi.  In particolare i tedeschi hanno buone scuole superiori e una percentuale vicina al 100% di diplomati. Gli inglesi hanno storicamente una societa' piu' composita (inglesi, scozzesi, gallesi, gli inglesi stessi sono un miscuglio di britanni, anglosassoni, danesi, normanni) ma hanno avuto uno Stato unitario piu' precoce ed elites di qualita' migliore dei tedeschi, secondo me, oltre probabilmente a qualche fattore di fortuna. Tutti questi elementi concorrono al risultato finale, ritengo.

Secondo me gli inglesi hanno leggi migliori, specie dal punto di vista economico, ma una societa' piu' frammentata e diseguale che pur inquadrata in buone leggi e' meno coesa della societa' tedesca. Ritengo anche, ma non ho approfondito ora quantitativamente, che gli inglesi siano mediamente meno istruiti dei tedeschi.

Perche' l'economia produca e' essenziare che i costi di transazione siano bassi, questo puo' succedere sia perche' persone con impostazioni diverse sono instradate e costrette ad agire correttamente mediante  leggi ben fatte ed un'efficiente applicazione della giustizia (UK) sia perche' (Germania) c'e' fiducia in comportamenti predicibili e onesti da parte di persone di cultura abbastanza omogenea che sono coscienti di far parte di una societa' organizzata per il vantaggio comune.

In UK sara' probabilmente facile licenziare perche' un sistema di giustizia efficiente ed onesto punisce efficacemente i licenziamenti dovuti a discriminazione permettendo quelli dovuti a motivi economici, in Germania la riallocazione dei lavoratori in base al merito sara' rallentata da una legislazione protettiva ma in cambio una societa' (e sindacati) piu' sani, onesti e coscienti di operare per il bene di tutti piuttosto che per il vantaggio di una corporazione esercitano pressione sui lavoratori scorretti o non produttivi per ottenere il massimo da tutti.

Il libro The emerging japanese superstate mostra che negli anni '70 e '80 il Giappone e' cresciuto economicamente molto piu' degli USA pur avendo un sistema economico quasi senza competizione interna, dominato da monopoli, senza quasi alcuna meritocrazia, con impiego a vita nella stessa azienda, con legislazione non indirizzata allo sviluppo economico. La chiave di quello straordinario successo economico viene probabilmente dal livello di istruzione e coesione sociale dei giapponesi.

Secondo me comunque mentre e' possibile cambiare le leggi e farle migliori, molto piu' difficile e comunque molto piu' tempo richiede cambiare il livello dell'istruzione di massa e anche il livello di coesione sociale di uno Stato, per questo motivo ci sono piu' chances per l'Italia nell'adottare buone leggi piuttosto che pensare di arrivare al livello di coesione sociale di Germania, Giappone e Paesi scandinavi, una condizione che questi Paesi hanno conseguito come risultato di una storia secolare che l'Italia non ha.

Grazie dell'ottima risposta.

Quindi la Germania e' diciamo alla pari con UK, nonostante le sue leggi e non grazie a queste.

Di sicuro ho notato che in Germania serve un diploma per fare qualsiasi cosa, dal cameriere all'imbianchino hanno tutti fatto un corso apposito con relativo diploma.

Piccola nota riguardo al Giappone (che conosco piuttosto bene): stanno ancora pagando pesantemente lo sviluppo in quelle condizioni monopolistiche. Non sarei d'accordo nel definire le aziende giapponesi "senza quasi alcuna meritocrazia", ma meritocrazia in realta' c'e' ma solo per chi si adegua alle regole aziendali. Quindi manager capaci di gestire l'ordinario ma senza molta innovazione o fantasia.

Per 15 Amm. Del. della filiale italiana di una multinazionale straniera.

In fase di crescita aziendale per oltre 4 anni ho a malincuore dovuto rinunciare ad assumere persone con nefasti effetti sul servizio ai clienti perchè i miei capi stranieri e la società che ci aiutava a gestire il personale erano terrorizzati dal fatto di superare i 15 dipendenti con i risultanti irrigidimenti nella gestione del personale.

Poi la crescita ce lo ha imposto comunque.

Nota: nei miei 15 anni di gestione non abbiamo mai voluto o dovuto licenziare nessuno, solo assumere.

Moltiplico i tre dipendenti che Avrei voluto assumere per i 4 anni di non asssunzione per il numero di aziende italiane che si sono comportate così per le stesse ragioni e forse avremmo ottenuto un x % di disoccupazione in meno e avremmo potuto aiutare dei giovani.

Se un'azienda va male vuole dire che non sa stare sul mercato e alla fine deve licenziare comunque.

Più occupazione, anche se con meno tutele, significa più benessere ed un aiuto alle aziende in condizioni non floride perchè c'è più mercato e più richiesta.

Ho lavorato 25 anni come dirigente  e potevo essere licenziato ogni giorno (una volta mi è anche successo), ma ho avuto una vita professionale comunque molto soddisfacente.

Inoltre era un bello stimolo a far meglio sul lavoro, che forse a molti potrebbe essere utile.

Naturalmente in presenza di ammortizzatori sociali e corsi di riqualificazione.

 

Alberto le tue sono, per me, parole di estremo buon senso, ma tutto dipende dalla concezione del mondo che uno ha. Quando una concezione prevede il modello superfisso e il "padrone" è, per definizione, uno sfruttatore dei lavoratori (e il profitto è lo sterco del diavolo) ecco la tua storia diventare quella di una bieca multinazionale che sfrutta i dipendenti oltre le proprie capacità pur di non garantire loro dei diritti sacrosanti ecc ecc

A mio avviso questa visione del mondo (non per dare la colpa solo alle sinistre, sia chiaro) è la causa del pessimo sistema di ammortizzatori italiano, che mira a difendere il "posto di lavoro" invece che il lavoratore. Con il risultato di buttare soldi in aziende decotte, proteggere solo una fascia di lavoratori e non permettere la crescita professionale.

 

1. Fermo restando che il COntratto di COllaborazione COordinata e COntinuativa (oggi sostituito dal COntratto di Collaborazione a PROgetto) nasce per rispondere alle esigenze organizzative e non per far risparmiare il datore di lavoro, va comunque rilevato che, in realtà, nell'esempio proposto, a parità di retribuzione viene prestato più lavoro: infatti in questa tipologia di contratto non sono comprese ne' le ferie ne' la malattia retribuiti (e neanche la maternità, di fatto).

2. Vorrei che mi indicaste uno studio dal quale risulti in maniera ioncontrovertibile che la mancata crescita delle imprese italiane sia dovuto al "famigerato" art. 18 delle Statuto dei Lavoratori, e non alle caratteristiche dello sviluppo <!-- BODY,DIV,TABLE,THEAD,TBODY,TFOOT,TR,TH,TD,P { font-family:"Arial"; font-size:x-small } --> industriale dell'Italia (http://www.unilibro.it/find_buy/findresult/libreria/prodotto-libro/autore-piore_j_michael_sabel_charles_f_.htm), che la Legge non fa altro che riconoscere!

3. Anche nel caso della (presunta) rigidità come causa della disoccupazione (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td99/td364_99/td364) vorrei aver qualche studio che vada oltre i luoghi comuni. Mi sembra che il caso della Spagna, dove, a fronte di un mercato del lavoro più flessibile, vi è il doppio di disoccupzione, stia a dimostrare la debolezzo di queso assunto.

Grazie

3. Anche nel caso della (presunta) rigidità come causa della disoccupazione (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td99/td364_99/td364) vorrei aver qualche studio che vada oltre i luoghi comuni. Mi sembra che il caso della Spagna, dove, a fronte di un mercato del lavoro più flessibile, vi è il doppio di disoccupzione, stia a dimostrare la debolezzo di queso assunto.

Lascio discutere i punti 1. e 2. ad altri che abbiano maggior pazienza di me. 

Qui correggo solo le due affermazioni false contenute in questo punto 3.

La Spagna ha un mercato del lavoro duale ESATTAMENTE come l'Italia. Da un lato i lavoratori superprotetti, con altissimi costi di licenziamento, sindacati, estatuto de los trabajadores (sì, copiato dall'italiano) e tutta la manfrina. Dall'altro gli sfigati dei contratti a tempo, a contratto, a rottamazione, eccetera. Hanno solo iniziato leggermente prima di noi a introdurre i contratti a tempo determinato e, per compensare, stan cominciando prima di noi a riformare la mostruosità giuridica che è il loro mercato del lavoro. Mi aspetto che con Rajoy si facciano grandi passi avanti. Ma, dalla transizione prima (estatuto e tutto il resto) e dalla seconda metà degli anni '80 (introduzione contratti a tempo) all'altro giorno (prime riforme), era un mercato identico al nostro. No debate about this.

La disoccupazione in Spagna APPARE più alta. In realtà è minore. Sia perché da noi viene calcolata con i trucchi (CIG ed altri dettagli) sia perché da loro è più alta la partecipazione al mercato lavorativo. Quando guardi i numeri che contano scopri che nella fascia di età 15-64 il tasso di OCCUPAZIONE è maggiore in Spagna che in Italia. Lo è da parecchi anni, più di un decennio e lo è rimasto anche durante questa recessione. 

Sui punti 1 e 2, brevemente.

COntratto di Collaborazione a PROgetto [...]; a parità di retribuzione viene prestato più lavoro: infatti in questa tipologia di contratto non sono comprese ne' le ferie ne' la malattia retribuiti (e neanche la maternità, di fatto)

Il Co.Co.Pro. e', come dice il nome, collaborazione a un progetto: non c'e' un'orario di lavoro. Se ti danno mille euro per realizzare un certo progetto e ci metti un'ora guadagni mille euro all'ora, se ci metti mille ore guadagni un euro all'ora. Che poi le condizioni contributive, previdenziali, assistenziali etc. di questi contratti siano assolutamente inique e' un'altro discorso che ha a che vedere con l'obbrobrio di usare uno strumento improprio per rendere flessibile un mercato del lavoro altrimenti rigido.

uno studio dal quale risulti in maniera ioncontrovertibile che la mancata crescita delle imprese italiane sia dovuto al "famigerato" art. 18 delle Statuto dei Lavoratori,

Io non ne conosco (il che non implica che non esistano). Se guardiamo ai dati grezzi vediamo che la distribuzione della dimensione delle imprese non mostra alcuna evidente discontinuita' alla soglia dei 15 dipendenti (vedi pp. 4-5 di questa relazione che io e Andrea Moro preparammo per il convegno nFA-Folder, maggio 2010). Di per se' questo non prova nulla, ma e' un pezzo di evidenza utile.

Sul 3 ha gia' detto bene Michele sopra. Per approfondimenti sulla sua risposta vedi qui.