Voltremont su Kindle

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Ci sono 16 commenti

Appena finito di leggere - molto bello, grazie per averlo messo su Kindle, altrimenti dovevo aspettare di andare in Italia.

Spero che la vostra attivita' divulgativa vada avanti, in Italia c'e' molto bisogno di cultura economica!

Premesso che il libro l'ho già acquistato mi è piaciuto e lo sto consigliando. Una domanda leggermante OT: sapete se Voltremont lo ha letto/visto? Sarei curioso di sapere che reazioni ha avuto.

Nessuna, ovviamente. T'immagini se ha tempo, sta salvando l'economia mondiale e l'Italiana come corollario.

 

Salve,

io ho avuto problemi a trovarlo in libreria nella zona Foligno/Spoleto (cercato verso la meta' di febbraio).

Nella libreria piu' grande della mia citta' mi hanno detto che forse era meglio telefonassi direttamente alla casa editrice per farmelo spedire a casa. E' la prima volta che mi sono sentito rispondere una cosa del genere.

Alla fine l'ho ordinato su ibs.

Saluti

Andrea

Il volume mi è stato consigliato e non ho avuto problemi a trovare l'unica copia in una libreria Feltrinelli. Grazie tante per la lettura giunta ad alimentare la discussione (almeno spero) nel momento opportuno. Ho gradito l'analisi semplice, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, ironica e divertente (quindi non ci resta che ridere?). In effetti una economia sulle "difensive", in senso protezionistico, non può che costituire un freno allo sviluppo economico e sociale di tutti (italiani compresi), anche se comprendo pienamente i timori della gente: con uno sguardo probabilmente un po' miope sono caduta pure io nel gustoso controesempio del simpatico giornalista, sportivo e poeta dadaista, di pag. 65. Chiudo con una perplessità: mi sembra di aver messo piede in un club per soli uomini... comunque, sulla scorta della fortunata serie con Tognazzi & altri (Amici miei atto 1°...), attendo il "Tremonti istruzioni per il disuso 2".

 

Ho visto i video della Fondazione Pellicani.

Tutto molto interessante. Tranne la moderatrice. Ma davvero quella è una giornalista economica di Repubblica?

Ma cosa voleva moderare? Sembrava non avere la minima idea di quello di cui parlava. Tentava di dire le sue cose e poi, dinnanzi alle risposte, si ammutoliva mestamente.

 

Sembrava non avere la minima idea di quello di cui parlava. Tentava di dire le sue cose e poi, dinnanzi alle risposte, si ammutoliva mestamente.

 

Marco, in Italia i giornalisti economici che capiscono di economia sono l'eccezione, non la regola (e non solo a Repubblica). Quindi, perché stupirsi?

In Italia per lavoro, domenica pomeriggio ho richiesto il libro alla libreria al piano terra della Stazione Termini (Roma). Risposta (qualsiasi cosa voglia dire): "ce lo hanno spedito ma non lo abbiamo disponibile" (???) - "forse è in magazzino" (???). 

Beh, se può consolarti "l'unica copia" disponibile, che ho trovato più di un mese fa alla Feltrinelli, è stata recuperata dalla gentile commessa dopo circa mezz'ora di ricerche... proprio in magazzino! Almeno così ha detto.

Un gruppo di economisti “amerikani” vs il ministro Tremonti

 

Gianfranco Sabattini

 

1. La critica alle tesi/ipotesi di Tremonti.

 

Sul finire del 2009, Giulio Tremonti ha subito una “reprimenda” da parte di un gruppo di economisti italiani che lavorano ed insegnano presso università americane. Questi economisti (Alberto Bisin, Michele Boldrin, Sandro Brusco, Andrea Moro, Giulio Zanella, animatori di un Blog che ospita articoli di economia, il cui sito è noisefromamerika.org) hanno di recente dato alle stampe un “libello” dal titolo: Tremonti. Istruzioni per il disuso. Nel volume, gli autori (d’ora in poi: i critici) accusano il ministro dell’economia di fare continue affermazione con cui avrebbe la presunzione di affermare solennemente le proprie verità, senza lasciare spazio a dubbi e contraddittorio. I libri di Tremonti (Rischi fatali e La paura e la speranza) sarebbero privi di supporto empirico e quando questi supporti esistono sarebbero commentati e spiegati sulla base di “tesi/ipotesi” supportate da “innumerevoli voli pindarici” che esprimerebbero solo una sua “teosofia personale”.

Le tesi/ipotesi tremontiane, coniugate coi dati empirici sulla situazione economica italiana, sarebbero utilizzate per dimostrare che la povertà e la stagnazione che minacciano l’Italia sarebbero l’esito, non tanto delle cattive politiche nazionali e della sclerosi che queste provocherebbero alle strutture economiche ed istituzionali dell’intero Paese, ma del fatto che l’Italia si sarebbe integrata, con la globalizzazione, nel mercato mondiale oltre ogni limite giustificabile rispetto ai “vincoli di tolleranza” del funzionamento dell’economia nazionale.

Per Tremonti, secondo i critici, gli sviluppi economico-politici degli ultimi anni dovrebbero incutere paura a causa dei rischi cui l’Italia sarebbe esposta non per scelte erronee compiute dall’Italia, ma per le minacce provenenti dall’esterno, in particolare dalla Cina alla quale si permetterebbe il libero scambio con l’Italia senza alcuna valutazione del fatto che le regole di funzionamento del sistema economico cinese sono del tutto inconfrontabili con quelle proprie di ogni sistema economico funzionante, come quello italiano, sulla base di un’economia di mercato.

La debolezza delle tesi di Tremonti, per i critici, deriverebbe dal fatto che tutte le sue argomentazioni, anziché essere fondate sul metodo scientifico proprio degli economisti, sarebbero invece fondate su motivazioni di ordine politico. Il ministro dell’economia, nel formulare le proprie tesi sulle “sventure” attuali dell’economia italiana e sul suo futuro denso di rischi non avrebbe seguito il metodo scientifico che gli avrebbe imposto di esplicitare le proprie ipotesi e di validare le stesse non coi propri “voli pindarici”, ma attraverso il processo logico col quale si passa dalle ipotesi assunte alle conclusioni, per poi comparare queste ultime con la realtà fattuale. Se così avesse fatto e, dunque, fosse riuscito a dimostrare la concordanza delle sue ipotesi con la realtà osservata, Tremonti avrebbe allora potuto sostenere la plausibilità di tutte le sue osservazioni su quelle conclusioni. Sennonché, non essendosi attenuto al metodo scientifico, egli ha giustificato le sue tesi solo sulla base di motivazioni politiche strumentali alla costruzione della sua futura carriera politica strettamente legata alle fortune elettorali della Lega Nord, la quale, per legittimarsi attraverso un’ideologia che andasse al di là delle sole pretese territoriali alle quali deve i suoi successi, si starebbe trasformando, sotto la leadership ideologica di Tremonti, da partito “liberista-federalista a parole” in partito “statalista-populista-razzista di fatto”.

La teosofia che Tremonti ha confezionato ad “uso e consumo” della Lega Nord è che la globalizzazione e l’arrivo sulla scena mondiale di last comer come India e Cina sarebbero la causa dei mali dell’Italia; soprattutto dei mali dei quali soffrirebbero le attività produttive manifatturiere del Centro-Nord. L’integrazione nel mercato mondiale delle due grandi economie asiatiche avrebbe, per il Tremonti-pensiero, due grandi implicazioni. Innanzitutto, un’ostilità, politicamente corretta, verso i prodotti asiatici, il sistema del libero scambio internazionale e gli immigrati; in secondo luogo, la necessità di sussidiare e di proteggere le attività produttive manifatturiere nazionali attraverso la formulazione e l’attuazione di una politica pubblica strumentale alla difesa degli interessi nazionali a fronte dell’aggressività “scorretta” del “nemico asiatico”. La difesa degli interessi italiani, per il ministro dell’economia e aspirante leader della Lega Nord, perciò, dovrebbe essere assicurata attraverso una politica pubblica finalizzata a realizzare una maggior presenza dello Stato nella gestione dell’economia e una restrizione del libero mercato, una più estesa autarchia ed una minore internazionalizzazione dell’economia nazionale e un maggior protezionismo associato ad una restrizione della concorrenza.

Sennonché, per i critici, l’aumento della pervasività dello Stato che Tremonti invoca per la difesa degli interessi nazionali può essere solo l’origine di ulteriori danni per l’economia nazionale, in quanto concorrerebbe ad irrigidire ulteriormente la flessibilità delle sue strutture. Ciò, perché la società politica italiana sarebbe come una “piovra”, con la spiccata propensione ad estendere i suoi tentacoli su tutto ciò che può, non disinteressatamente, gestire direttamente. Maggiore è il controllo statale sull’economia, maggiori sarebbero le opportunità per la corruzione, il privilegio ed il favoritismo, con l’inevitabile peggioramento sul piano economico, sociale e culturale dell’intero Paese. Per tutte le ragioni esposte, i critici respingono le proposte di Tremonti e di tutti coloro che come lui sostengono la possibilità di rilanciare la crescita e lo sviluppo dell’economia italiana attraverso una maggior presenza dello Stato nella gestione del sistema economico e un più approfondito sistema protezionistico posto a difesa delle attività produttive nazionali dai rischi provenienti dall’esterno; essi, inoltre, ne giustificano il rigetto perché le proposte sono formulate sulla base di una diagnosi che non spiega in maniera convincente quali sono realmente le cause dei mali d’Italia”. Quali siano queste cause se lo chiedono gli stessi critici, ma lo chiedono anche al ministro dell’economia, agli economisti italiani ed alle élite socioculturali del Paese, nella speranza, affermano, che si possa aprire un dibattito sulla reale natura di quelle cause. Tutto ciò nel convincimento che, se le proposte tremontiane dovessero rappresentare il meglio che l’attuale società politica, sindacale e culturale italiana fosse in grado di offrire all’intera società civile, allora sarebbe veramente il caso di preoccuparsi.

 

2. I limiti della critica alle tesi/ipotesi di Tremonti.

 

Le osservazioni che i critici portano contro il metodo utilizzato da Tremonti, alle sue analisi ed alle sue proposte per la cura dei mali d’Italia non possono che essere condivise. Esse, però, prestano il fianco ad alcuni rilievi che, ai fini del dibattito auspicato dai critici sulle cause della stagnazione dell’economia italiana, risultano essere rilevanti rispetto alla possibilità di rilanciare la crescita e lo sviluppo del sistema economico nazionale.

Giustamente, essi sottolineano il non-uso del metodo proprio delle scienza economica in tutta la costruzione tremontiana. Quando si effettua la spiegazione, dal punto di vista della scienza economica, una determinata realtà fattuale occorre necessariamente esplicitare le ipotesi che vengono adottate sulla base dei “dati” che concorrono a definire quella realtà. Se dalle ipotesi esplicitate sono ricavate, senza commettere errori, delle proposizione che bene si coniugano con la realtà osservata, nel senso che si prestano alla formulazione di una diagnosi su di essa per la deviazione dei “dati” osservati da quelli propri di una sua configurazione ideale, allora è possibile formulare una terapia nella forma di un politica pubblica con la quale ricondurre i “dati” osservati, esprimenti una configurazione di stagnazione della realtà, a quelli ideali, esprimenti una possibile condizione di crescita e sviluppo della stessa realtà. Questa procedura non è stata seguita da Tremonti nella spiegazione delle cause dei mali d’Italia; ragione questa per cui, i critici, giustamente, respingono la sua diagnosi e la sua terapia.

Sennonché, quando si critica una diagnosi formulata sulle condizioni in cui versa una data realtà economica, occorre attenersi non solo al metodo proprio della scienza economica, ma occorre anche esplicitare il modello teorico al quale si fa riferimento. Ciò, non solo per rendere più compiuta e comprensibile qualsivoglia critica rivolta a qualsiasi diagnosi, ma anche per rendere possibile una valutazione degli esiti delle politiche pubbliche che vengono proposte per l’eliminazione delle cause dei mali della realtà economica considerata, con la riconduzione dei “dati” osservati a quelli ideali, cioè ai “dati” che la realtà considerata dovrebbe esprimere in assenza dei mali che la affliggono.

Relativamente al “libello” dei critici, viene facile osservare che i loro autori mancano di esplicitare il modello teorico dal punto di vita del quale formulano la loro critica a Tremonti. Il non aver esplicitato tale modello non inficia certo la loro critica, ma le politiche pubbliche che implicitamente contrappongono a quelle suggerite da Tremonti. In altri termini, gli automatismi di mercato, che essi evocano nella formulazione della loro critica, non sono così facilmente operanti come invece vorrebbero fare risultare dall’esposizione delle loro argomentazioni. I critici di Tremonti, infatti, mancano di evidenziare bene che il modello teorico al quale essi fanno riferimento è il modello neoclassico.

Tale modello, per via della sua natura statica, è inidoneo a spiegare i fenomeni evolutivi dei sistemi economici; esso, invece, spiega e descrive i processi di aggiustamento delle variabili economiche intorno ad un loro punto di equilibrio quando, per un qualche motivo, siano state da esso allontanate. In questo caso, quando tutte le componenti del sistema economico, inclusa l’organizzazione istituzionale nella quale risultano inserite, sono lasciate libere di “cambiare”, le forze intrinseche al libero mercato attivate dal calcolo economico degli operatori hanno l’effetto di ricondurre quelle componenti alla loro posizione ottimale di equilibrio. Ciò che nella descrizione di questo processo resta di solito sottinteso è che esso, per via della natura statica del modello di riferimento, si svolge in tempo reale, anzi in assenza e fuori da ogni dimensione temporale, per cui viene a mancare ogni considerazione su tutto quanto accade nel lasso di tempo necessario alle componenti del sistema per riportarsi alla loro originaria posizione di equilibrio.

La descrizione di un simile processo di aggiustamento può avere una sua giustificazione solo sul piano strettamente teorico; sul piano operativo, invece, può accadere che risulti del tutto improponibile, per via delle rigidità istituzionali causate dagli esiti negativi che il processo può provocare sul piano della continuità dell’impiego dei fattori produttivi, in special modo sul piano della stabilità occupazionale della forza lavoro.

 

3. L’insostenibilità degli esiti dei processi di aggiustamento spontanei nei sistemi economici ad economia di mercato.

 

A questo punto è facile capire perché le osservazioni dei critici alle tesi/ipotesi tremontiane appaiono, sul piano operativo, poco plausibili. E’ ben vero che, se le importazioni cinesi o indiane in Italia mettono in crisi alcune attività produttive manifatturiere, i fattori produttivi ricuperati dalla uscita dal mercato di tali attività possono essere impiegati in altre attività innovative che possono più che compensare il disimpiego dei fattori produttivi originato da quelle che sono messe fuori mercato. Ma è anche vero che, fra questi fattori produttivi, vi è la forza lavoro, la quale dovrebbe anche essere disponibile ad accollarsi, per un periodo di tempo che non è dato sapere in anticipo quanto possa durare, tutti i disagi che la sua trasmigrazione ad altre attività solitamente comporta.

Al riguardo, i critici prevedono che i possibili esiti negativi inattesi causati dalla transizione dell’economia italiana dalla stagnazione alla crescita ed allo sviluppo possano essere rimossi attraverso un sistema di tutela della forza lavoro che perdesse pro-tempore la stabilità occupazionale, utilizzando le maggiori risorse che il superamento della stagnazione rende possibile. Tuttavia, l’”assicurazione” che a tale scopo i critici propongono dovrebbe risultare minima e temporanea e mai destinata a durare nel tempo, pena una rigidità dell’organizzazione istituzionale che nel medio-lungo periodo avrebbe l’effetto di riproporre la stagnazione. Inoltre, i critici non nutrono alcun dubbio che la terapia da loro proposta (restrizione delle presenza dello Stato nella gestione dell’economia; apertura al libero scambio internazionale; rimozione di ogni misura protezionistica; approfondimento della concorrenza), derivandola “fideisticamente” dal consequenzialismo della prospettiva teorica adottata, sia sempre portatrice di esiti certi sul piano della sicurezza economica della forza lavoro coinvolta nei processi di aggiustamento. L’incertezza gravante sulla condizione della forza lavoro, invece, rende necessaria una più attenta valutazione degli esiti della terapia anti-stagnazione che essi propongono, in quanto, se per caso la tutela evocata contro i rischi indotti dalla transizione del sistema economico dalla stagnazione alla crescita ed allo sviluppo non fosse dotata di certezza, è assai improbabile che qualsiasi processo di aggiustamento volto a migliorare le condizioni di operatività del sistema possa avere facilmente luogo.

Per rilanciare la crescita e lo sviluppo del sistema economico nazionale, i critici, in alternativa alla politica pubblica suggerita da Tremonti per la difesa e la tutela dell’economia nazionale, propongono, come si è visto, una minore presenza dello Stato nella gestione del sistema economico, una maggiore estensione del libero mercato, una minore propensione all’autarchia, una maggiore apertura all’internazionalizzazione, un minor protezionismo ed una più estesa concorrenza; tutto ciò, nell’assunto che, una volta riportato il funzionamento delle istituzioni economiche nell’alveo della loro configurazione ideale, tutte le cause dei mali dei quali il Paese soffre possono essere facilmente rimosse. Questa prospettiva di politica pubblica, però, non coincide con quella compatibile, sul piano etico-politico, con le modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici. Ciò perché il sostrato valoriale dei moderni sistemi economici non consente più di credere agli effetti taumaturgici dello spontaneismo del libero mercato; in secondo luogo, perché esso respinge la fideistica certezza che la flessibilità di tutte le componenti del sistema economico possa condurre alla eliminazione di una disoccupazione crescente ed irreversibile; in terzo luogo, perché esso assume che le istituzioni economiche debbano essere strutturate non solo in funzione dell’interesse individuale, ma anche in funzione dell’interesse collettivo, inteso come base per l’accoglimento di politiche pubbliche finalizzate al conseguimento di esiti maggiormente condivisibili sul piano sociale.

Se si tiene conto di queste considerazioni, si deve allora escludere che le proposte che i critici avanzano in alternativa a quelle di Tremonti possano essere accolte per rilanciare con certezza e stabilità la crescita e lo sviluppo del sistema economico italiano.

 

4. La necessità di riforme istituzionali.

 

Se si volesse assicurare al funzionamento del sistema economico italiano un’organizzazione istituzionale aperta al rilancio della sua crescita e del suo sviluppo attraverso la terapia suggerita dai critici, occorrerebbero riforme istituzionali profonde cui essi non fanno alcun riferimento. Tali riforme dovrebbero essere mirate a garantire certezza economica a tutti i componenti il sistema sociale e stabilità di funzionamento al sistema economico. In altre parole, occorrerebbe garantire un reddito a tutti attraverso l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza, la cui introduzione in Italia non è mai stata seriamente discussa, almeno non con la stessa frequenza ed intensità con cui sono sempre state oggetto di dibattito le iniziative in tal senso di breve periodo, dotate solo di una valenza elettorale.

Una simile riforma, però, implica la rimozione della centralità del lavoro; ma, i sindacati ed i partiti, che hanno costruito le loro fortune consensuali ed elettorali sulla centralità del lavoro, sarebbero propensi a ricercare un nuovo criterio etico-politico sulla base del quale affrontare la riforma dell’attuale welfare state, delle attuali regole distributive e delle modalità di funzionamento del mercato del lavoro? Al presente, si può solo dubitare della possibilità di porre al centro del dibattito politico ed economico una simile riforma di struttura; ciò, perché quando le riforme implicano una messa in discussione delle situazioni consolidate riguardanti le attuali forme di spartizione del potere tra le parti politiche e sindacali, tutto diventa impossibile, a scapito del reale governo del Paese.

Se, però, si assume, come i critici auspicano, che la prospettiva di riforma dell’attuale welfare state e di individuazione di ogni altra causa dei mali d’Italia, sia aperta almeno a livello di dibattito e che questo sia sottratto al “controllo” di tutte quelle forze sociali che sanno solo svolgere il ruolo di “guardiani dell’immobilismo”, può essere avanzata una proposta di politica pubblica riformatrice fondata sul ruolo e sulla funzione del reddito di cittadinanza. L’istituzionalizzazione di questa forma di reddito garantito consentirebbe, per un verso, di ricuperare al sistema economico una maggiore flessibilità e, per un altro verso, di affievolire o di rimuovere le cause delle rigidità del suo funzionamento, per lo più riconducibili alla persistenza delle diverse forme di disoccupazione strutturale della forza lavoro e di quella originata dalla crescente integrazione nel mercato internazionale dell’economia italiana.

La realizzazione di una politica pubblica riformatrice fondata sull’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza sarebbe, però, impossibile con riforme di breve respiro. Le riforme necessarie, come quelle realizzate nel passato con la realizzazione del welfare state, dovrebbero essere più radicali rispetto a quelle che vengono proposte dalle forze politiche conservatrici, solitamente schiacciate sul presente ed orientate unicamente a conservare lo status quo. Con l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza, sarebbe possibile garantire a tutti l’accesso a un reddito minimo senza contropartita e senza prova dei mezzi; questo si configurerebbe come un diritto individuale finalizzato a fare funzionare meglio il sistema di sicurezza sociale senza compromettere la capacità espansiva e di sviluppo, in condizioni di competitività, dell’intero sistema produttivo. L’idea di fondo a sostegno dell’erogazione di un reddito universale e incondizionato sarebbe che, con la sua istituzionalizzazione, oltre a liberare il percettore dal bisogno, consentirebbe anche di liberare le energie di quanti sono addetti ora al funzionamento di un sistema di sicurezza sociale burocratizzato ed inefficiente, per destinarle alla realizzazione delle condizioni istituzionali atte a garantire una reale ed effettiva autorealizzazione, anche attraverso forme di autoimpiego, di tutti i componenti il sistema sociale.

 

5. Conclusione.

 

L’idea di introdurre una riforma radicale dell’attuale sistema di sicurezza sociale per rimuovere la stagnazione dell’economia nazionale solleva in Italia molte perplessità. Si osserva, ad esempio, che l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato varrebbe, non solo a determinare una possibile riduzione della domanda di lavoro, ma anche ad inasprire le pressioni già alte che, allo stato attuale, gravano sulle finanze dello Stato, soprattutto dopo tanti anni di silenzio progettuale delle forze politiche e sindacali. Queste forze tendono sempre a concludere che la sostenibilità fiscale di un’innovazione istituzionale fondata sull’introduzione di un reddito universale ed incondizionato risulterebbe tanto gravosa da indurre il rischio di un non sopportabile aumento della pressione fiscale. E’ questa la ragione per cui in Italia ci si è sempre limitati a proporre, e qualche volta solo a sperimentare, per tempi brevi, l’introduzione di limitate forme di reddito garantito non-universale e condizionato; salvo poi ricordare, nei momenti di massima tensione sociale, che esisterebbe anche la soluzione del “salario minimo garantito”.

Allo stato attuale, perciò, a fronte delle proposte del ministro Tremonti di voler sottrarre l’Italia ai rischi provenienti dalla sua presenza sui mercati mondiali attraverso l’attuazione di provvedimenti che avrebbero l’effetto di peggiorare lo stato di crisi del sistema economico nazionale, ci si può solo augurare che l’attenzione che le forze politiche, sindacali e culturali rivolgono alle riforme richieste per rilanciare la crescita e lo sviluppo del Paese non privilegi solo la discussione di quelle di breve respiro; ma privilegi anche il dibattito su tutti gli aspetti riguardanti il progetto col quale molti Paesi europei tendono a rilanciare la loro crescita ed il loro sviluppo, non attraverso procedure autarchiche, stataliste e protezionistiche, ma attraverso l’introduzione nel funzionamento del sistema economico e nell’organizzazione della struttura istituzionale di automatismi atti a garantire la rimozione o l’affievolimento di ogni vincolo al continuo adattamento, in condizioni di sicurezza e di stabilità e dunque di libertà a livello individuale e collettivo, del suo funzionamento alle mutevoli situazioni del mercato mondiale.

 

Mi scusi, io non sono un economista per cui le chiedo di avere pazienza con me:

il sostrato valoriale dei moderni sistemi economici non consente più di credere agli effetti taumaturgici dello spontaneismo del libero mercato

Che significa? E' un problema di nuove necessità date dai "moderni valori" o di dimostrata inefficienza di un sistema economico così strutturato? Dire che il sostrato valoriale impedisce di credere al libero mercato mi sembra certificare una atto fideistico, non si dovrebbe avere una valutazione scientifica del sistema?

Inoltre in che modo l' istituzione di un reddito di cittadinanza non sarebbe, soprattutto in certe aree del paese ( mi vengono in mente le false pensioni di invalidità), un disincentivo alla ricerca di un lavoro legale? Ed in che modo verrebbe finanziato?

[gli] autori mancano di esplicitare il modello teorico dal punto di vi[s]ta del quale formulano la loro critica a Tremonti.

Ma non c'e' bisogno di alcuna teoria per dimostrare che Tremonti sta stuprando la statistica e la logica. Questo e' il livello primario della nostra analisi: misurare bene le cose e derivare tutte le implicazioni di certe proposizioni.

gli automatismi di mercato, che essi evocano nella formulazione della loro critica, non sono così facilmente operanti come invece vorrebbero fare risultare dall’esposizione delle loro argomentazioni.

Questa e' un'affermazione empirica che non possiamo verificare visto che in Italia ce ne sono davvero pochi di automatismi di mercato, no?

Il modello teorico al quale essi fanno riferimento è il modello neoclassico.

Quando si comincia a discutere per etichette io perdo il filo. Per me "neoclassico", "classico", "ricardiano" e quant'altro sono etichette che non vogliono dire niente. E non mi fraintenda, la storia del pensiero economico l'ho studiata, ne ho studiata tanta e raccomando a tutti di studiarla. Ed e' proprio per questo che penso che le idee e la loro evoluzione siano molto piu' importanti dei tentativi di ingessarle e cristallizzarle. Discutiamo delle idee, lasciamo perdere le sigle.

Risposta alle “critiche” al mio intervento su noisefromamerica.org

 

Gianfranco Sabattini

 

Il mio intervento apparso su “Voltremont su Kindle” è stato onorato da due considerazioni critiche: una di Floris e l’altra di G. Zanella.

Floris dubita che il funzionamento dei sistemi economici risenta dei valori, di epoca in epoca, socialmente condivisi. L’influenza dei valori non deve stupire. I modelli scientifici in base ai quali viene spiegata, per scopi descrittivi e normativi, la realtà sociale (nel nostro caso, quella economica) perdurano nel tempo sin tanto che non sono falsificati da modelli più generali e comprensivi. I valori sociali condivisi possono invece variare nell’arco di tempo in cui permane la validità o l’accettazione, da parte della comunità scientifica, di un dato modello.

Se quanto precede è vero, allora bisogna riconoscere che, mentre il modello mean-stream di riferimento per la spiegazione e la descrizione del funzionamento dei sistemi economici è, in assenza di alternative, quello neoclassico, i valori sociali che nel tempo hanno costituito il suo sostrato sociale legittimante sono cambiati e lo spartiacque è rappresentato, dal punto di vista della storia del pensiero economico, dalla critica keynesiana allo spontaneismo del libero mercato.

La critica di J.M. Keynes al laizzez-faire, pur potendosi interpretare come critica ideologica al libero mercato, ha avuto tuttavia anche una rilevanza scientifica. Essa è servita, cioè, a dimostrare che il funzionamento dei sistemi economici in “regime di libero mercato controllato” è molto più efficiente, in termini di certezza e di stabilità sul piano economico, del funzionamento degli stessi sistemi solo in “regime di mercato spontaneo”.

Inoltre, Floris pone la domanda sul come evitare che l’istituzione del reddito di cittadinanza all’interno di un sistema economico, come quello italiano, afflitto dal fenomeno di una disoccupazione crescente ed irreversibile della forza lavoro, non giunga a costituire un disincentivo alla ricerca di un lavoro legale. Si tratta di un dubbio che assilla non solo chi non è economista, ma anche molti economisti professionali. Al riguardo, si può solo sottolineare che sull’introduzione del reddito di cittadinanza esiste una letteratura sterminata la cui trattazione non è qui possibile. E’, però, utile sottolineare che alcuni paesi hanno già iniziato ad introdurlo, che il suo finanziamento richiede una profonda riforma dell’attuale sistema di sicurezza sociale intesa in senso lato e che in Italia, a causa (per non dire altro) del conservatorismo sindacale, da anni se ne parla “in privato”, senza mai socializzare la necessità e l’urgenza della sua adozione.

 

Le osservazioni di G. Zanella sollevano problemi di altra natura.

Intanto, vale la pena di sottolineare l’inopportunità di formulare critiche di metodo incontrollate nei confronti dei contributi di chi ha raccolto l’invito a partecipare al dibattito sulle tesi di Tremonti sulla crisi del sistema socio-economico italiano. In secondo luogo, è del tutto incomprensibile la tesi secondo la quale non ci sarebbe bisogno di alcuna teoria per dimostrare che Tremonti, con il suo modo di analizzare la situazione italiana, ha “stuprato” la statistica e la logica. Passi per la statistica, ma per la logica l’osservazione critica di Zanella è fuori luogo.

Se non si disponesse di una teoria di riferimento, come sarebbe possibile portare delle critiche alle tesi/ipotesi di Tremonti senza correre il rischio che tali critiche siano “restituite al mettente” perché, in assenza di una loro validità intersoggettiva derivata dalla teoria in base a cui sono formulate, possono essere giustamente ritenute a loro volta prive di fondamento? Ciò accadrebbe perché pretendere di criticare tesi/ipotesi di altri senza alcuna teoria di riferimento significherebbe pretendere di “navigare al lume di naso” e all’insegna solo di un non condivisibile principio di autorità che varrebbe a conservare alle discussioni pubbliche una generalizzata situazione di relativismo gnoseologico, perdurando il quale ognuno sarebbe legittimato a valutare qualsiasi fenomeno sulla base di considerazioni unicamente personali prescindendo dalle proprie possibilità professionali di effettuarle.

Anche l’osservazione secondo la quale il richiamo agli automatismi di mercato costituirebbe, con riferimento alo nostro Paese, un’affermazione empirica che non sarebbe possibile verificare perché in Italia di automatismi di mercato ce ne sarebbero pochi; ragione, questa, per cui l’affermazione sarebbe infondata. Questa osservazione può reggersi se, ancora una volta, si nega la necessità, nel dare “forza” alle proprie argomentazioni, di fare riferimento ad una specifica teoria. E’ evidente che in Italia è impossibile reperire un settore o un comparto produttivo in cui operano gli automatismi di mercato; ma questa mancata reperibilità è la conseguenza del fatto che in Italia il libero mercato della teoria neoclassica è stato totalmente rimosso e questa rimozione deve essere a sua volta rimossa se si vuole dare corpo ad una qualsiasi analisi che abbia come obiettivo il rilancio in Italia della crescita e dello sviluppo.

Che a Zanella capiti di perdere il filo del discorso, quando si vogliono analizzare i fatti economici senza teoria, si può facilmente comprendere; egli, infatti, ritiene che i predicati “classico”, “neoclassico”, “ricardiano” e quant’altro siano delle etichette prive di significato. Tutti abbiamo studiato la storia del pensiero economico. Però, va tenuto presente che la storia del pensiero economico è cosa diversa dalla storia dell’analisi economica. L’evoluzione delle idee è sicuramente importante; ma la loro organizzazione in strutture formali non costituisce una loro ingessatura, ma solo lo strumento col quale, su basi intersoggettive, diventa possibile discutere dei fatti sociali in generale e di quelli economici in particolare.