Lezioni dalla Grande Depressione?

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Negli ultimi anni molti hanno paragonato la  crisi attuale con la Grande Depressione del  1929.  In molti casi si tratta di esercizi dilettanteschi, ma ci sono anche lavori seri.

Tutti hanno sentito parlare della Grande Depressione degli anni Trenta, e molti pensano che la crisi attuale sia simile. Dal punto di vista storico il paragone non regge – innanzitutto per la gravità della recessione. Il PIL totale mondiale è diminuito del 2% nel momento peggiore della crisi (inizi del 2009) ed è aumentato negli ultimi tre anni. Anche in un paese disastrato come l’Italia il calo del PIL è dell’ordine del 5-6%. Dal 1929 al 1933 il PIL dei paesi avanzati è diminuito del 15% e quello americano quasi del 30%.

Il paragone non regge anche per le caratteristiche della crisi e per la politiche adottate. Sarebbe troppo lungo elencare tutte le differenze, ma una salta agli occhi. Negli anni Trenta, i governi hanno reagito alla crisi aumentando moltissimo le barriere al commercio ed al movimento dei capitali e questo ha aggravato molto la recessione- Nella crisi attuale, commercio e movimenti dei capitali sono rimasti sostanzialmente liberi. Questo libro di Irwin, un economista americano molto noto agli addetti ai lavori per i suoi studi storici sul commercio estero ed il protezionismo, si propone di spiegare la differenza. La sua tesi può essere riassunta in una frase. Negli anni Trenta, i governi usarono i dazi ed i controlli ai movimenti di capitale per difendere il tasso di cambio fissato prima della crisi, mentre dal 2009 in poi non si è posto questo problema perché i tassi di cambio erano già flessibili.

La tesi di Irwin non è ovviamente del tutto nuova, anche se è espressa con grande chiarezza e in un linguaggio accessibile a non specialisti di storia ed economia monetaria (il libro è frutto di una serie di conferenze all’Università di Stoccolma nel 2010). Si inserisce infatti in un filone di interpretazione delle cause della Grande Depressione che risale a Keynes e che passa per i famosi (fra gli specialisti) libri di Temin ed Eichengreen. Irwin però riesce a collegare in maniera più sistematica dei suoi predecessori le decisioni sui cambi e sulla politica doganale inquadrandole in uno schema concettuale noto come il trilemma. In un’economia di mercato, i policy-makers si possono porre tre obiettivi – libertà di movimenti di capitali e merci, mantenimento dei cambi fissi o gestione del ciclo economico per evitare le depressioni - ma possono raggiungerne al massimo due. Il sistema deve avere infatti un grado di libertà. E’ come una pentola a pressione con tre valvole per far uscire il vapore: due possono essere chiuse, ma una deve rimanere aperta altrimenti scoppia tutto. Quindi, si possono lasciare liberi i movimenti di capitale a cambi fissi rinunciando a gestire il ciclo economico, o si possono lasciare liberi i movimenti di capitale e adottare politiche anticicliche in regime di cambi flessibili o infine si possono mantenere cambi fissi e gestire il ciclo economico impedendo la libera circolazione di capitali e merci.La prima combinazione fu adottata durante il periodo classico del gold standard, 1870-1914: il cambio fra valute era fissato per sempre dalla rispettiva parità aurea ed i movimenti di capitali erano perfettamente liberi ma i governi non si preoccupavano del ciclo economico. La seconda combinazione (politiche anticicliche e libertà dei movimenti di capitali ma cambi flessibili) corrisponde alla situazione attuale e la terza (cambi fissi e politiche anticicliche ma controlli ai movimenti di capitale) al sistema di Bretton Woods, in vigore dagli anni Cinquanta al 1973.

Irwin utilizza tale schema per interpretare la reazione dei vari paesi alla crisi. Nel corso degli anni Venti, era stata ripristinata la libertà di movimento di capitali ed era stato faticosamente ricostruito, dopo lo shock della guerra, un sistema di cambi fissi abbastanza simile al gold standard classico. L’economia mondiale cresceva e quindi non c’era bisogno di politiche anticicliche. La situazione sembrava quindi stabilizzata, anche rimanevano gravi squilibri nella bilancia dei pagamenti di alcuni grandi paesi. La Germania in teoria avrebbe dovuto avere un surplus della bilancia dei pagamenti (avrebbe dovuto esportare più di quanto importasse) per pagare le riparazioni stabilite dal trattato di Versailles. Non ci riusciva e importava capitali dagli USA. Anche la Gran Bretagna doveva importare capitali, perché nel 1925 aveva stabilito un tasso di cambio troppo alto della sterlina che danneggiava le sue esportazioni. Invece Francia e Stati Uniti avevano un surplus, che in parte prestavano ed in parte convertivano in riserve auree. Allo scoppio della crisi americana, i flussi di capitale si inaridirono e divenne sempre più difficile finanziare i deficit della bilancia dei pagamenti. I paesi in disavanzo avevano due metodi per ridurli –abbandonare il cambio fisso e puntare sul riequilibrio attraverso la svalutazione o ridurre le importazioni controllando i movimenti di capitale. La Gran Bretagna scelse la prima soluzione, abbandonando per sempre la parità aurea della sterlina nel 1931. La Germania invece optò per il mantenimento del cambio fisso e lo difese con dazi, controlli ai movimenti di capitale ed accordi commerciali basati sul baratto (l’Italia fece lo stesso anche se Irwin non la cita). Francia e Stati Uniti avevano imponenti riserve auree ed avrebbero potuto aiutare espandendo la propria domanda, ma non lo fecero. Solo in un secondo momento, quando ormai la crisi era divenuta mondiale si trovarono in difficoltà e reagirono in maniera diversa. Gli Stati Uniti prima difesero il tasso di cambio mantenendo tassi di interesse reale positivi e poi svalutarono anch’essi, nel 1933. La Francia difese le proprie riserve auree con le unghie e coi denti aumentando i dazi e limitando i flussi di capitale e cedette solo nel 1936. In sostanza, secondo Irwin, tutti i paesi tentarono di adottare politiche di stimolo dell’economia, sacrificando o il cambio fisso o la libertà dei movimenti di beni e capitale. Le due politiche erano quindi alternative, ma la prima era quella giusta. Infatti le restrizioni al commercio aggravarono la crisi: secondo Irwin, esse spiegano circa il 40% del calo del commercio mondiale dal 1929 al 1933, determinando un calo di circa un punto del PIL mondiale.

Quali lezioni si possono trarre per il presente? Irwin fa notare che, grazie al sistema di cambi flessibili, i problemi di bilancia dei pagamenti sono molto meno gravi che negli anni Trenta. Questo ha eliminato uno dei principali argomenti per imporre dazi o limiti ai flussi di capitale. A sua volta la libertà di commercio e di movimenti di capitale hanno favorito la ripresa economica.

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Commenti

Ci sono 13 commenti

Interessante il paragone tra il il 1929 e oggi riguardo la differenza tra protezionismo e globalizzazione.

Volevo solo fare un appunto sui dati, perlomeno per l'Italia (che e' andata in recessione gia' nel 2008, un anno in anticipo del resto del mondo). Ho guardato i dati dell'IMF, ma suppongo siano i medesimi di Istat:

2008: -1.2%

2009: -5.5%

2010: +1.7%

2011: +0.4%

2012: -2.4%

2013: -1.5% (ovviamente una stima)

Facendo la somma aritmetica di queste percentuali (che tanto cambia poco), per questo quinquennio abbiamo un tot di -8.5%

Ora, non sapevo esattamente dove trovare una serie storica del Pil italiano anni 30. Ho fatto una ricerca su google e ho trovato una tabella S1 a pagina 30 di questo articolo. Da questa tabella ci sono stati, fatalita' 5 anni di recessione:

1930: -7.5%

1931: -2.4%

1932: -0.6%

1933: -2.2%

1934: -0.1%

Per un totale di queste percentuali di -12.8%. Insomma, perlomeno per l'Italia, questo quinquennio non e' stato grave come la crisi degli anni '30, pero' e' 2/3 di quella crisi. Poi il paragone non tiene per l'economia globale, ma per l'Italia abbastanza...

EDIT: mi sono appena accorto che con il 2013 siamo al sesto anno (con due anni di pausa in mezzo), mentre per gli anni 30 e' durata solo 5 anni.

EDIT2: La cosa curiosa e' che l'Italia ha fatto meno peggio del mondo negli anni '30, e peggio del resto del mondo al giorno d'oggi. Tenendomi alla spiegazione di Irwin, oggi ITA e' meno competitiva e sfrutta di meno i vantaggi di un mercato internazionale piu' integrato. Essendo straindebitata c'e' un crowding out di investimenti e uno stratassamento che peggiora la crisi rispetto ad altri paesi che ne sono gia' usciti fuori. Forse invece negli anni '30 era gia' piu' protezionistica della media e quindi ha avuto un contagio iniziale minore.

ha fatto relativamente meglio dei paesi avanzati perchè la percentuale dell'agricoltura sul PIL era più alta ed in tutto il mondo la produzione agricola è diminuita pochissimo.Anche l'industria è andata benino

PS l'ISTAT ha una ottima sezione di dati storici dall'unificazione ad oggi.

è un errore collegare la crisi finanziaria del 2007-08 con quella del debito sovrano innescata dalla Grecia nel 2010. Può essere corretto considerare l'aggravarsi della seconda come una conseguenza della prima, e che molto probabilmente sarebbe arrivata più in là; ma la questione fondamentale è che sarebbe arrivata comunque in ogni caso. Se la Grecia trucca i bilanci, Spagna e Irlanda hanno banche nazionali pesantemente esposte e l'Italia ha un debito pubblico elevato che grava sul sistema, non è certamente ed esclusivamente colpa dello scoppio della crisi finanziaria americana.

Per quanto riguarda l'Italia negli anni 30, credo di ricordare che Mussolini avesse ripudiato il debito o parte di esso quindi non escluderei un impatto differente della depressione sul Paese per via di queste ragioni e di alcune politiche del regime.

A integrazione dell'articolo, segnalo il sito web accademico di Douglas A. Irwin, dove sono disponibili anche i suoi articoli accademici sulla Grande Depressione degli anni '30.  Sono particolarmente interessanti le sue ricerche su un argomento oggi poco noto ai non specialisti, l'accumulo di riserve auree non monetizzate da parte della Banque de France, che può essere considerato una causa importante della GD.

"i policy-makers si possono porre tre obiettivi – libertà di movimenti di capitali e merci, mantenimento dei cambi fissi o gestione del ciclo economico per evitare le depressioni - ma possono raggiungerne al massimo due. Il sistema deve avere infatti un grado di libertà" Interessante."

VOrrei chiedere se questi concetti possano essere usati per in qualche modo spiegare il fallimento dell'integrazione nord-sud all'interno dell'unione italiana, visto che i primi due vincoli sono stati soddisfatti, mentre il terzo evidentemente ha mantenuto la sua liberta' come teorizzato dall'autore. E lo stesso modello puo' essere altresi' applicato all'attuale unione economica europea e forse prevedere il destino delle attuali crisi piigs?

 

La seconda combinazione (politiche anticicliche e libertà dei movimenti di capitali ma cambi flessibili) corrisponde alla situazione attuale

 

Forse alla situazione attuale nel mondo, in Italia (in Europa) abbiamo politiche procicliche, libertà di movimento dei capitali e cambio fisso. 

Noi storici economici siamo abituati a vedere le cose nel lungo periodo. I tassi di cambio fra le maggiori valute sono flessibili dal 1973 (salvo che in Europa, che ha fatto due tentativi di stabilire cambi fissi e poi ha abolito i cambi del tutto con l'euro) e i movimenti di capitale sono stati progressivamente liberalizzati negli anni Ottanta e Novanta. 

... ma il maggior disincentivo al ritorno del protezionismo secondo me è la presenza di network produttivi internazionali, che non erano rilevanti all'epoca e sono una peculiarità degli ultimi trent'anni. Alle imprese localizzate in un paese non conviene premere per dazi, tariffe et similia, perchè rischiano poi di pagare di più per i propri input produttivi (beni intermedi) che importano dall'estero. Beni intermedi che oggi, a differenza di allora, contano per più della metà dei flussi commerciali. Siano essi importati da affiliate estere di multinazionali o da fornitori a contratto indipendenti (arms' length).

Riesco a capire - anche perché è ben spiegato - perché delle tre valvole una debba essere lasciata aperta. Ma perché non due? O tutte e tre? Cosa ci impedisce di lasciarle aperte tutte e fare in modo che facciano liberamente il loro compito di "sfogo" con cui sono state introdotte (evitare che la pentola scoppi)?

Una spiegazione potrebbe essere quella del "cosi' fan tutti" ma non nel senso di "moda" (se lo fanno gli altri debbo farlo anche io) quanto piuttosto al fatto (o ipotesi) che se altri Stati regolano o gestiscono una o piu' valvole (non tutte e tre) hanno indebiti vantaggi (anche non virtuosi, come per esempio le aziende che fanno parte di un cartello) e qundi per non lasciare loro questo vantaggio occorre usare almeno due valvole come gli altri.

La teoria cosa dice?

(fra virgolette, visto che io non sono un teorico) che sarebbe meglio tenere tutte e tre le valvole chiuse

i) i cambi fissi riducono l'incertezza sui tassi di cambio e quindi i costi di transazione nei rapporti internazionali

ii) la libertà di  movimento di capitale e di merci aumenta il reddito per i vantaggi della specializzazione e dell'allocazione ottimale dei capitali

iii) la gestione del ciclo economico è apprezzata dalle masse - o meglio le masse vogliono che i periodi di espansione continuino all'infinito (anche se finanziati a debito e/o basati su bolle speculative) e che i governi e le banche centrali evitino le crisi economiche.

Il trilemma dice che non si possono avere tutti e tre, ma l'opzione migliore  opzione è averne due su tre. Quali due,  in un sistema democratico, lo deve decidere la politica. Gli economisti devono sono spiegare le opzioni e le conseguenze delle scelte