Population sciences
La bassa natalità dei Paesi industrializzati è il frutto di un processo ben studiato dalle scienze demografiche[1]. Prima della rivoluzione industriale l’andamento della popolazione era caratterizzato da alta natalità ed alta mortalità (essenzialmente infantile). La popolazione cresceva, ma lentamente, con alti e bassi legati a epidemie, carestie, guerre. Con la rivoluzione industriale ed il crescere del benessere economico, condizioni igieniche migliori, miglior nutrizione soprattutto, e poi anche migliori cure sanitarie, gradualmente la mortalità ha cominciato a declinare (soprattutto la mortalità infantile) e la popolazione ha cominciato a crescere. Poi, anche la natalità ha iniziato a diminuire e la dinamica demografica si è avviata ad un nuovo equilibrio. Questo fenomeno in termini demografici viene definito come Fase di transizione (figura 1).
Figura 1. Schema di transizione demografica
Blu: natalità; Rosso: mortalità; Nero: popolazione
Il motivo fondamentale della denatalità sta nel fatto che i figli, da risorsa per la famiglia (forza lavoro gratuita) si sono trasformati gradualmente in un costo che consuma risorse economiche e risorse intangibili, come il tempo, le priorità personali, il carico di lavoro, etc. Questo processo non è lineare né omogeneo, ma certamente è una conseguenza dello sviluppo. Un esempio per far capire come sottosviluppo economico e culturale siano accompagnati da alta natalità e alta mortalità. Nella metà degli anni 70, dopo l’epidemia di colera, a Napoli sorsero una rete di centri sanitari volontari, pomposamente chiamati "Centro sanitario popolare" (erano quegli anni!) nei quartieri più degradati. Studente di medicina, ho frequentato uno di essi finché è esistito. Per prima cosa, facemmo una analisi con i principali indicatori epidemiologici in aree molto ristrette, non evidenziate dalle statistiche ufficiali. Ebbene, in quelle sacche di un degrado sociale e culturale di cui è difficile rendersi conto, la mortalità infantile era del 140‰! Le donne di 50/60 anni comunemente avevano alle spalle fino a 20 e più gravidanze (non scherzo!), di cui la metà interrotte artificialmente con mezzi vari. I figli vivi erano di regola i 3/4 o 4/5 di quelli nati.
Una visione planetaria
La popolazione umana è in crescita esponenziale (figura 2).
Figura 2
Fonte: The Abitable planet, cit.
Molte nazioni emergenti si trovano in piena fase di transizione demografica con alto tasso di crescita della popolazione, da cui derivano problemi enormi che i governi cercano di contenere come possono, a volte con mezzi poco condivisibili alla nostra sensibilità occidentale. I casi di Cina e India sono i più appariscenti. Le misure draconiane assunte da quei governi sono un chiaro indice della drammaticità del fenomeno, che alla fine riguarda tutto il pianeta e non solo quei paesi.
In Italia
In termini numerici, in Italia la vita media nella seconda metà del XIX secolo (150 anni fa) era di 35 anni, solo il 30% della popolazione arrivava a 60 anni di età e il 7% a 80 anni. Ora la vita media è di circa 81 anni, il 93% delle donne arriva a 60 anni (uomini: 86%) ed il 62% agli 80 anni (uomini: 39%)[2]. L’Istat ci fornisce serie storiche di lungo periodo. Per esempio il tasso di natalità (nati per 1.000 abitanti) negli ultimi 150 anni (figura 3).
Figura 3. Tasso di natalità, Italia, 1960 - 2009
Fonte: Istat
Il grafico mostra molto bene la fase di transizione e lo stabilizzarsi del tasso di natalità su valori che oscillano di anno in anno, ma sono sostanzialmente costanti. Anche il tasso di fertilità (nati per donna) oscilla. Negli anni 80-90 per esempio era più basso di oggi (figura 4).
Figura 4. Tasso di fertilità, Italia, 1952 - 2014
Fonte Istat
Il cambiamento dell’atteggiamento delle donne verso l’avere figli è ben descritto in una recente indagine campionaria dell’Istat[3], che identifica alcuni fenomeni strutturali e quindi non legati alla contingenza della crisi economica: il principale aspetto è la progressiva rinuncia al terzo ed anche al secondo figlio, poi c’è l’aumento dell’età a cui si partorisce il primo figlio e l’aumento del numero di donne che non fanno figli, specialmente marcato nelle ultime generazioni. Il report dell’Istat poi mette in relazione con la crisi economica l’andamento di alcuni trend, per esempio il calo del numero di matrimoni, supposto segno delle difficoltà dei giovani a metter su casa. Ma questa associazione non è dimostrata dai ricercatori. Che la congiuntura possa avere una qualche influenza, è possibile, ma ritengo sia marginale. Uno sguardo di lungo periodo infatti offre una prospettiva diversa. I dati dell’OECD (figura 5) dimostrano chiaramente che siamo di fronte a un trend storico. I matrimoni, è vero, diminuiscono, ma aumentano moltissimo i figli nati fuori dal matrimonio; in assenza di dati affidabili sul numero delle coppie di fatto, il numero di figli nati fuori matrimonio ne sono un indice. Quindi non calano le nuove convivenze, famiglie non tradizionali che non si sposano, cambia il modo di metter su famiglia. Su questo la crisi non c’entra molto (mancano i soldi per la festa?) Inoltre questo andamento è comune anche a paesi con minor problemi economici del nostro.
Figura 5. Matrimoni per 1.000 ab e percentuale di figli nati fuori dal matrimonio, Italia 1990 - 2012
Fonte: OECD. Attenzione alla differenza fra le scale: La linea blu è una percentuale, la linea rossa un tasso, per cui la sua variazione è meno apparente
C’è inoltre un fenomeno nuovo che il report Istat 2015 illustra: anche la fertilità delle donne immigrate, che si attestava al 2,23 nel 2010[4], è in calo al 1,93. Le donne immigrate, gradualmente, si occidentalizzano. E' accaduto ovunque ed accade anche da noi.
Ci sono poi delle caratteristiche dell’andamento demografico, strutturali e contingenti, che hanno fatto si che nel 2015 il deficit demografico sia stato particolarmente rilevante. Per la natalità, stanno uscendo dall’età fertile le donne del baby boom. Si riduce il numero di donne fertili e quindi, ceteris paribus, quello dei figli. Sul lato mortalità, il dato strutturale è che stanno arrivando ad età avanzata i figli del baby boom, sempre loro, e quindi il numero assoluto annuo di decessi nei prossimi dieci anni aumenterà. Poi nel 2015 abbiamo avuto tre fenomeni contingenti, che riguardano le classi di età oltre i 75 anni: a) nel 2013 e 2014 la mortalità è stata molto bassa, per cui molti decessi si sono trasferiti al 2015 (una fluttuazione statistica); tutti moriamo, prima o poi; b) un picco di mortalità nei primi mesi dell’anno, che è difficile non correlare alla sciagurata campagna mediatica contro le vaccinazioni antinfluenzali; c) un picco di mortalità a luglio e agosto, sicuramente ascrivibile alle altissime temperature di quei mesi (e che la dice lunga sui veri rischi del global warming, a prescindere delle sue cause). Come si vede, nulla di tutto questo ha a che fare con la crisi economica di questi anni.
Qual è il problema?
Ho fatto un excursus sui siti dei giornali e su FB per capire le ragioni per cui il fenomeno del calo demografico viene visto negativamente. Ho trovato tre ordini di motivi, due di natura economica ed uno, diciamo, psicosociale.
Il primo è che il calo demografico non facilita la crescita economica ed in particolare l’aumento del PIL. Non essendo un economista, faccio solo alcune osservazioni, sperando che il dibattito possa approfondire il tema:
- la popolazione è in diminuzione da molti anni, anche quando il PIL cresceva;
- comunque un calo della natalità oggi esplicherà i suoi effetti sul PIL dopo 20/30 anni
- se poi si vuole mantenere numerosa la popolazione attiva da subito, basterebbe ritardare l’età dell’andata in pensione (magari è questo quel che si teme!), oppure aprire bene le porte ai giovani immigranti
- se la popolazione diminuisce ma la produttività e l’efficienza del sistema economico aumentano, magari aumenta anche il PIL …
- … specie se, sul medio lungo termine, come probabile, l’automazione e la robotica faranno diminuire il fabbisogno di manodopera per produrre beni e servizi; alla luce di questo, una diminuzione della popolazione forse non è poi tanto male..
Il secondo argomento riguarda le pensioni. Si sostiene la necessità di far figli per pagare le pensioni ai vecchi. Questo mi pare uno degli aspetti più censurabili del conflitto generazionale. Certo, nel breve-medio periodo le pensioni sono un problema, e tutti sappiamo che presto bisognerà metterci mano. Sul medio-lungo termine le cose dovrebbero cambiare. Quando sarà sparita la generazione del baby boom, la piramide della popolazione italiana non sarà più una piramide, dritta o rovescia, ma una colonna, ed il problema sarà più gestibile.
Figura 6. Piramide della popolazione italiana, 2010, 2040 e 2060
Fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division. World Population Prospects: The 2012 Revision In Population Pyramid
Il terzo ordine di problemi è più indefinito. Si fanno generici riferimenti a come il paese divenga vecchio, manchino i giovani, che il paese non si rinnovi, che non abbia futuro, etc. Si mischia il trend demografico con la fuga dei giovani all’estero o il mancato arrivo di giovani in Italia. Queste affermazioni non vengono molto motivate, sono date per ovvie. Ritengo derivino da una visione un po’ stereotipata, di tipo psicologico, filosofico, religioso, quel che volete, della famiglia e della società, e non da un ragionamento sui dati nel loro complesso. Per esempio si legge: i giovani sono pochi. In realtà ne nascono 490 mila ogni anno, comunque. Di fronte ad affermazioni di questo tipo, è difficile argomentare. Fanno riferimento ad archetipi culturali che permangono nonostante sia sotto gli occhi di tutti che la famiglia sta cambiando profondamente, come i dati dimostrano.
Cosa accadrebbe in Italia se la natalità ripartisse e tornasse a livelli alti? La numerosità della popolazione dipende sia da una aumentata natalità, che dall’incremento della vita media. Rimanendo costante l’aumento della vita media, ne risulterebbe un aumento della popolazione insostenibile globalmente (figura 7).
Figura 7. Rappresentazione grafica della numerosità di una popolazione
Le due popolazioni (A) e (B) hanno ambedue lo stesso tasso di natalità e mortalità (due individui per intervallo di tempo), ma gli individui della popolazione (A) vivono tre intervalli di tempo, contro due della popolazione (B). Risultato, la popolazione (A) è mediamente più numerosa della popolazione (B) nello stesso rapporto (sei a quattro).
La verità è che siamo di fronte ad un problema complesso ed epocale. Con esso bisogna confrontarsi laicamente e con una visione globale. La crescita della popolazione umana, in termini planetari, non può essere indefinita, dato che costituisce il principale fattore di squilibrio ecologico nel pianeta: consuma risorse come spazi, foreste, biodiversità, specialmente marina, atmosfera, etc.
In Italia, come nei paesi industrializzati e che si avviano alla post industrializzazione, la denatalità è strutturale e non contingente. La crisi economica può forse influire marginalmente sul fenomeno, ma non ne è la causa, ci possono essere semmai effetti trascinamento Se due vogliono sposarsi, o meglio, convivere, e far un figlio, ebbene magari quest’anno no, ma l’anno dopo si. Un tasso di fertilità di 1,35 è basso (ma negli anni 80 era ancora più basso), e porterà ad una diminuzione della popolazione indigena. Il tasso di fertilità è in calo anche fra le donne immigrate. È pensabile però che risalga, come negli anni 90-00. Le proiezioni a lungo periodo, per quello che valgono, prevedono una stabilizzazione della numerosità della popolazione su livelli più bassi.
Quindi come va considerato questo trend? Sul breve periodo esso crea due grossi problemi: le pensioni, su cui non mi dilungo, e la sostenibilità del servizio sanitario nazionale, di cui ho scritto in questo blog alcuni mesi fa. Sul lungo periodo, struttura di popolazione stabile o anche in lenta diminuzione è un modello equilibrato e lungimirante, cui è sperabile si avviino rapidamente anche paesi in piena fase di transizione demografica.
[1] The Abitable Planet, Unit 5: Population dynamics, in http://www.learner.org/courses/envsci/unit/text.php?unit=5
[2] Lori A, Golini A, Cantalini B, et al. Atlante dell'invecchiamento della popolazione, Progetto Finalizzato Invecchiamento, CNR, Roma, in http://www.italz.it/CNRPFINV/atlante.htm
[3] Istat. Avere figli in Italia negli anni 2000. Approfondimenti dalle indagini campionarie sulle nascite e sulle madri 2014 Roma http://www.istat.it/it/files/2015/02/Avere_Figli.pdf?title=Avere+figli+in+Italia+negli+anni+2000+-+02%2Ffeb%2F2015+-+Volume.pdf
[4] Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente: caratteristiche e tendenze recenti, in http://www.istat.it/it/archivio/38402, accesso del 7 dicembre 2012
Il problema non e' tanto la diminuzione della popolazione quanto il suo invecchiamento, che comporta una minore produttivita' (soprattutto in campo intellettuale). Ed e' proprio la creativita' intellettuale la chiave a una maggiore prosperita': che le risorse grezze del pianeta siano limitate lo diceva anche Malthus, ma le sue fosche previsioni sono state regolarmente smentite dal fatto che la tecnologia da allora ha saputo moltiplicarle. Purtroppo, come si suol dire, "you can't teach an old dog new tricks": la persistente stagnazione del Giappone e' in gran parte ascrivibile all'invecchiamento della sua societa' (reso piu' serio dall'ostilita' dei suoi cittadini verso l'immigrazione).
... ma non mi sento per nulla meno produttivo intellettualmente. Qualche neurone in meno e molta esperienza in più. Chissà cosa è più importante? Credo si sottovaluti che l'allungamento della vita media si accompagna con un allungamento della vita attiva, libera da malattie. per cui questa storia dell'invecchiamento della popolazione non mi convince, mi pare un clichè. I giovani comunque ci sono, diamine, mica sono morti. Si andrà in pensione più tardi, l'automazione sta facendo sparire molti lavori, come si dice, usuranti.
Dov'è il problema?