L'avvento della banda larga (internet ad alta velocità, per intendersi) su vasta scala in Italia è reso difficoltoso dalla necessità di efffettuare massicci investimenti, stimati in 12 miliardi di euro, che nessun imprenditore o gruppo di imprenditori trova conveniente fare. Il governo ha stanziato 800 milioni in 5 anni (ossia 160 milioni l'anno, in media) per iniziare almeno dalle zone svantaggiate. Ma i soldi per il momento non ci sono, siamo in recessione, per cui lo stanziamento non è liquido e tutto è rimandato a tempo indefinito.
Ma questo non è un post sulla banda larga. Abbiamo iniziato con questa storia per fornire un metro di valutazione dei circa 500 milioni che il governo distribuisce ogni anno ad una miriade di grandi e piccoli editori di quotidiani. E questi 500 milioni annui sono liquidi, al contrario di quelli per la banda larga, eccome se sono liquidi. Non c'è recessione che tenga. Ci eravamo illusi per un momento che la recessione fosse uguale per tutti, ma ci ha pensato il solito ''decreto milleproroghe'' a mettere in salvo i privilegi della casta. Ora, poiché questi 500 milioni annui sono (1) soldi nostri e (2) tanti soldi rispetto agli usi alternativi per lo stesso scopo (l'accesso alla rete ad alta velocità è certamente più utile all'abbondanza, al pluralismo e alla qualità dell'informazione degli inutili giornali di partito che da soli succhiano 30 milioni di denaro pubblico l'anno), chiediamo: perché i contribuenti italiani devono finanziare l'editoria privata con somme così ingenti?
Anticipiamo la risposta che va per la maggiore. Condizione necessaria al funzionamento della democrazia è la presenza di cittadini correttamente informati, in qualunque parte del paese questi vivano. E condizione necessaria a tale corretta informazione è la presenza di una pluralità di media indipendenti e in concorrenza su tutto il territorio nazionale. Poiché quest'ultima condizione non può essere garantita dalle sole forze di mercato a causa (i) degli elevati costi fissi e quindi della naturale tendenza alla concentrazione nell'industria dei media e (ii) della non profittabilità della distribuzione in particolari zone come ad esempio quelle rurali, l'intervento pubblico nella forma di sussidi all'editoria può rendersi necessario per favorire la concorrenza, il pluralismo, e la diffusione dell'informazione e quindi, in ultima istanza, il processo democratico.
Corretto, se non fosse che la realtà dei contributi all'editoria in Italia è ben lontana da questa logica e risponde invece semplicemente, assecondandoli, ad interessi corporativi, lobbistici, e partitici. Ne ha già parlato andrea Moro su nFa in supporto al referendum per l'abolizione di questi contributi. "Avete scoperto l'acqua bollente," ci direte. Non vi diamo torto, ma pensiamo che sia comunque utile ricordare che l'acqua bollente non va bene per annaffiare fiori e piante. Dimostriamolo andando per ordine, in cinque punti.
Primo, gli elettori italiani, in maggioranza, non si informano sulla carta stampata. Questo lo inferiamo sia dai dati sulla circolazione dei giornali rispetto agli altri paesi europei sia dalle quote della raccolta pubblicitaria dei diversi media, che è il rovescio della medaglia. Guardate le tabelle 1 e 2 in questa ricerca commissionata dal governo svedese, sulla quale torneremo più avanti. Gli italiani, evidentemente, sono un popolo che si intrattiene e, presumiamo, si informa prevalentemente davanti alla TV, rispetto agli altri paesi europei. C'è quindi una cosa semplice semplice da fare, prima di distribuire centinaia di milioni di euro a pioggia, se si ha a cuore l'informazione del cittadino: privatizzare almeno due reti Rai, e superare il duopolio televisivo Rai-Mediaset.
Secondo, come ha già mostrato ancora andrea Moro su nFa, il grosso dei contributi all'editoria vanno ai grandi gruppi editoriali e quindi invece di favorire la concorrenza non fanno che alimentare un oligopolio.
Terzo, un'altra fetta sostanziale non va a giornali che garantiscono pluralismo e qualità dell'informazione ma va a inutili giornali di partito che nessuno legge (provate a chiedere al vostro edicolante se ha o anche solo se sa cosa sono 'Il Socialista Lab' e 'Il Campanile Nuovo', che insieme hanno totalizzato oltre un milione e mezzo di euro di contributi nel 2008), improbabili testate come 'Zainet Lab', 'Motocross' e 'Il Mucchio Selvaggio' (non abbiamo avuto l'ardire di indagare di cosa si occupi quest'ultimo), anche questi tre un milione e mezzo di euro messi insieme, e una galassia di quotidiani e periodici di più o meno esplicita ispirazione clericale. Forse solo il fenomenale Gigi Proietti (aka Mandrake) di "Febbre da Cavallo" sarebbe stato contento di sapere che il quotidiano 'Sportsman - Cavalli e Corse' ha ricevuto contributi pubblici per due milioni e cinquecentotrentamila euro solo nel 2008! Probabilmente i contribuenti italiani sarebbero stati, invece, felici di evitare quest'allegra mandrakata dello stato a loro spese. Ammettiamo pure che alcuni dei giornali finanziati possano costituire delle importanti fonti d'informazione che forse farebbero fatica a sopravvivere altrimenti in piccole realtà locali. Ma ci chiediamo quale possa essere la giustificazione normativa dietro i quasi 30 milioni di euro annui dati ai quotidiani di partito, che per definizione rappresentano delle vere e proprie lobbies più che dei mezzi di informazione. E che dire dei 7,8 milioni dati a 'Libero', i 6 milioni dati ad 'Avvenire', i 4,3 milioni dati a 'Il Manifesto'? All'anno, naturalmente. C'è n'è indubbiamente per tutti e per tutti i gusti. È dunque facile intuire il perché, a parte rarissime eccezioni (vedi questo articolo de 'Il Fatto Quotidiano' di qualche mese fa), i quotidiani si tengano ben alla larga dal diffondere queste informazioni. Così come non soprende che gli incentivi di tutti i partiti siano allineati nel continuare a perpetrare questa situazione.
Quarto, appare paradossale usare (ingenti) risorse pubbliche per creare delle distorsioni dove invece il mercato funzionerebbe proprio nell'interesse dei cittadini. Come documentato da Gentzkow et al. (2006) i cambiamenti tecnologici nell'industria editoriale, l'aumento della popolazione e del suo livello d'istruzione tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, portarono ad aumento della competitività e delle economie di scala negli Stati Uniti. I giornali ideologici, prevalenti per tutta la seconda meta del 1800, vennero quindi sopraffatti dalle dinamiche di mercato portando alla definitiva affermazione dell'informative press. È quindi del tutto evidente che i sussidi a giornali e periodici di partito non fa altro che contrastare o limitare l'effetto positivo di un aumento della competitivita del mercato.
Quinto, si può vivere senza sussidi. La prova? Il Fatto Quotidiano fa informazione (di elevata qualità, noi crediamo) rinunciando volontariamente a qualunque sussidio pubblico. Questa rinuncia è il loro fiore all'occhiello e fanno bene a vantarsene.
Dimostrato che la logica sottostante ai contributi all'editoria in Italia è logicissima ma diametralmente opposta a quella utilizzata per giustificare lo sperpero di denaro pubblico, ci chiediamo:
- Come si determinano questi contributi in Italia?
- In attesa del giorno in cui saranno aboliti, esistono modelli alternativi ai quali ispirarsi per renderli meno indigesti al contribuente?
Punto 1. I contributi all'editoria in Italia vengono attribuiti in maniera scandalosamente italiana, naturalmente. Ovvero, non c'è nessuna valutazione economica. Per beneficiare dei contributi diretti (una torta dal valore di più di 200 milioni di euro annui) basta rientrare in una delle categorie "protette": quotidiani editi da partiti politici, editi da cooperative di giornalisti, editi da fondazioni o enti morali, o editi all'estero. Prendiamo, ad esempio, i contributi per i quotidiani e periodici di partito, che sono regolati dalla Legge 250 del 1990 art. 3, comma 10.
Vediamo di andare nel dettaglio della legge e fare due conti. L'art 3, comma 10 della legge prevede un contributo fisso pari al 40 per cento dei costi e comunque non superiore a 2,5 miliardi di lire (c'erano le lire nel 1990) e contributi variabili (come stabilito dal comma 8) di cinquecento milioni di lire all'anno da diecimila a trentamila copie di tiratura media giornaliera, e trecento milioni di lire all'anno, ogni diecimila copie di tiratura media giornaliera, dalle trentamila alle centocinquantamila copie, e così a seguire.
Adesso prendiamo un quotidiano a caso. Per esempio, 'Europa', che nel 2007 era il quotidiano della Margherita, e oggi è il quotidiano del Partito Democratico. Secondo l'agcom la tiratura lorda di 'Europa' nel 2007 era di 14.589.993 copie annue. Ovvero, una tiratura media giornaliera di circa quarantamila copie. Il contributo variabile dovrebbe essere quindi pari a cinquecento milioni per le prime trentamila copie e altri trecento milioni per le successive diecimila copie. Dunque, considerando 2,5 miliardi di contributi fissi, il totale ammonterebbe a 3,3 milardi di lire cioé 1,7 milioni di euro. Indovinello: quanti contributi ha avuto 'Europa' per il 2007? Voi direte, non più di 1,7 milioni. E invece no! Ha ricevuto la bellezza di 3.599.203,77 euro, più del doppio! L'unica spiegazione possibile è che nel corso degli ultimi vent'anni ci sia stato un adeguamento dei contributi ai quotidiani molto generoso e molto nascosto nei meandri di qualche decreto Millepropoghe o affine. O forse c'è qualcosa che ci sfugge e saremo grati ai lettori che ci illumineranno su questo punto.
Inoltre, ai duecento milioni di contributi diretti per l'editoria si aggiungono i contributi indiretti che in realtà costituiscono l'investimento più cospicuo dello stato a favore dei questo settore. Secondo quanto riportato dall'Autorita Garante della Concorrenza e del Mercato, solo per il 2005 tali contributi ammontavano a ben 338 milioni di euro. Contributi indiretti che consistevano in 303 milioni di compensazioni per tariffe postali (cioé, come riportato a pagina 27 del documento dell'Autorità, "Poste Italiane applica agli editori condizioni agevolate per la consegna dei prodotti editoriali presso gli abbonati. La differenza rispetto alla normale tariffa viene compensata a Poste Italiane dallo Stato"). Questi contributi sono garantiti a tutte le imprese editrici iscritte al ROC (Registro degli Operatori di Comunicazione), organizzazioni no-profit e societa editrici di libri. Non a caso la parte del leone la fanno le grandi imprese editrici con Mondadori, Sole 24 ore e RCS che da sole, nel 2005, usufruivano di più di 50 milioni di contributi indiretti. A questi si aggiungono 35 milioni di agevolazioni per tariffe telefoniche. Last but not least, in questo computo non rientrano i ridotti introiti fiscali dello stato derivanti dalla riduzione dell'IVA al 4% a favore di giornali e notiziari quotidiani, dispacci delle agenzie di stampa, libri e periodici.
Infine, tanto per non fare un torto agli altri mezzi di informazione, ai circa 500 milioni di contributi annui all'editoria (diretti ed indiretti) si aggiungono i quasi 13 milioni di euro di contributi alle emittenti radiofoniche, i 5,7 milioni di contributi ai canali satellitari tematici (di cui Sandro Brusco ha gia parlato su nFA a proposito di RedTV) ed infine un po' di briciole, 2,8 milioni di euro, che lorsignori fanno generosamente cadere dalla tavola per le emittenti televisive.
Punto 2. Un modello interessante è quello dell'iper-assistenzialista Svezia. In questo covo di vetero-socialisti, i contributi all'editoria non sono distribuiti a pioggia, cercando di preservare posti di lavoro ma sono piuttosto basati su principi di concorrenza e pluralismo. Sopratutto tali contributi sono assolutamente selettivi. Il sistema Svedese prevede, infatti, dei sussidi alla produzione per i giornali cittadini che si trovino nella posizione di secondo competitore (non c'è trippa per il gatto grasso del vicolo, insomma) e che facciano fatica ad attrarre ricavi pubblicitari sufficienti a coprire i costi di produzione. La logica alla base di questi sussidi è chiara. Dati i costi fissi, in mercati dove i ricavi non siano sufficienti a rendere economicamente sostenibile la presenza di due giornali, il governo interviene aiutando il giornale "underdog" evitando così situazioni di monopolio. Inoltre, per poter accedere a questi sussidi i giornali devono soddisfare vari criteri oggettivi, tra i quali (udite, udite!) il dover essere di interesse generale cioé non focalizzarsi su temi specifici come sport, business o religione. Inoltre la legge fissa anche un soglia minima di contenuto editoriale che deve essere prodotto dal giornale stesso (cioé il giornale non può solo o prevalentemente riportare notizie ottenute da agenzie di stampa o da altri quotidiani).
Inoltre in Svezia i contributi diretti sono rigorosamente di tre tipi:
- Contributo operativo, secondo i criteri di concorrenza descritti sopra (attualmente circa 50 milioni di euro l'anno in totale)
- Contributo alla distribuzione, disponibile solo per i giornali che organizzano la distribuzione in comune e per la distribuzione di sabato in zone rurali e in quelle scarsamente popolate (circa 7 milioni di euro)
- Contributo per favorire l'accesso ai giornali ai non vedenti, ai dislessici, e alle persone che hanno difficoltà fisica a tenere in mano o sfogliare un giornale (circa 13 milioni di euro)
In totale fanno circa 70 milioni di euro, meno dei 500 italiani anche quando rapportati al PIL nominale totale, $479 miliardi la Svezia, $2,300 miliardi l'Italia (dati 2008, il rapporto peggiora per l'Italia nel 2009 e, scomettiamo, nel 2010). E sopratutto spesi secondo criteri decisamente migliori, in maniera selettiva e per mantenere viva la concorrenza nei mercati (vero, anche in Svezia ci sono contributi indiretti sotto forma di IVA ridotta: non siamo riusciti a quantificarli e comunque non cambiano la sostanza del discorso). Potremmo almeno iniziare da questi migliori criteri per riformare il sistema dei contributi all'editoria in Italia?
Nota. Tutti i dati sui contributi diretti per il 2007 possono essere trovati qui: quotidiani editi da cooperative di giornalisti; quotidiani editi da cooperative, fondazioni o enti morali; quotidiani editi e diffusi all'estero ; periodici editi da cooperative di giornalisti ;testate di partiti e movimenti politici;quotidiani o periodici di movimenti politici, trasformatesi in cooperativa;periodici editi da cooperative, fondazioni o enti morali. I dati sui contributi indiretti per il 2005 possono essere trovati nella "Indagine conoscitiva riguardante il settore dell'editoria quotidiana, periodica e multimediale" dell'autorita Garante per la Concorrenza ed il Mercato.
Il tema dei finanziamenti pubblici all'editoria è stato sollevato spesso, anche in questo luogo virtuale. A me pare che la posizione corretta rimanga quella contraria a tale pratica, che introduce distorsioni evidenti nel mercato dell'informazione, consentendo la permanenza in edicola anche a chi non è in grado di convincere alcuno - o quasi - a spendere un euro per acquistare una copia, e perciò non spinge al miglioramento che s'impone a chi cerchi di restare in un mercato vero. Penso anche che l'anomalia costituita dal duopolio televisivo sottragga risorse che sarebbero utili ad un miglior sostentamento del pluralismo informativo, dal momento che una reale concorrenza tra numerosi attori dell'etere abbasserebbe le tariffe pubblicitarie e libererebbe una quota di investimenti delle imprese da destinare a canali alternativi alle tv. Dunque, volendo creare un ambiente favorevole alla pluralità, ancora una volta sarebbe necessario liberalizzare, non finanziare. Peccato che ciò cozzi contro gli interessi di chi, in tal modo, perderebbe una quota di potere, il che significa che siamo sempre al solito punto: come nel caso dei ricchissimi emolumenti e del numero spropositato di percettori di reddito "da politica", si deve chiedere autolesionismo ai decisori, la cui scelta razionale è scontata ......
Non credo, invece, che la strada svedese, per quanto migliore di quella italiana, sia da considerarsi un second best: è proprio il concetto di contributo statale che non mi convince e che è strettamente connaturato alla invasiva presenza della mano pubblica in ogni campo dell'attività umana. Inoltre, lo spostamento di quei fondi dall'editoria alla banda larga ne velocizzerebbe senza dubbio il miglioramento - con i citati vantaggi anche in termini di pluralismo - ma, ancora una volta, non è detto che tale opzione sia gradita alla casta. In primo luogo, perché è nota la diffidenza per un mezzo di comunicazione praticamente impossibile da controllare - le ricorrenti polemiche in merito alla supposta pericolosità della rete, questo strano animale un po' anarchico, ne son riprova - e, secondariamente, perché gli ingentissimi costi - impossibili da sostenere per una sola azienda ed oggi anche impossibili da "regalare" ad una singola azienda a caso ..... - imporrebbero la separazione della rete infrastrutturale dalla fornitura di servizi. Telecom Italia non gradirebbe di certo, e nessuno mi venga a dire che non gode di ascolto privilegiato tra i nostri amati eletti .....