1. Breve premessa metodologica
I fatti sono importanti perché consentono un primo, rudimentale test della teoria. Questo semplice punto può essere illustrato descrivendo una semplice metodologia di ricerca che possiamo chiamare "scientifica".
Supponiamo di aver osservato l'evento E e di voler capire cosa l'ha causato. Gli scienziati sociali sono meno fortunati degli scienziati naturali e non possono replicare in laboratorio eventi come una crisi finanziaria o una recessione. Uno scienziato sociale, tipicamente, costruisce una teoria e la utilizza poi come un laboratorio virtuale: altera alcune variabili esogene e vede cosa succede a quelle endogene. Immaginiamo di concludere, facendo esperimenti in questo laboratorio virtuale, che l'evento E è causato da un insieme di eventi che chiamiamo C. In altre parole, secondo la teoria che abbiamo costruito C è condizione necessaria per E: senza C non può esserci E, ovvero:
E => C.
Il passo successivo è raccogliere dati, se esistono, su C. Se questi dati esistono è certamente una buona idea analizzarli. Se uno è scettico (ed è libero di esserlo) su tecniche statistiche o econometriche sofisticate può semplicemente dare un'occhiata ai dati "grezzi", ossia andare almeno a vedere se C si è verificato oppure no. È vero che anche questi dati che chiamo "grezzi" sono spesso stime che presuppongono una teoria (per misurare ci vuole pur sempre una teoria), ma anche in questi casi derivano dall'applicazione di metodologie statistiche di base che richiedono assunzioni minime. Se qualcuno degli eventi in C non si è verificato c'è qualcosa che non va nella teoria, perché la teoria diceva che questi erano necessari al verificarsi di E.
Oppure analizzando i dati si può scoprire che C si è verificato assieme a D e che D contraddice la teoria che si sta utilizzando. Guardare i dati, insomma, è molto importante. Ed è anche facile di questi tempi.
2. Il contenuto empirico della "lettera degli economisti"
Dopo questa premessa metodologica veniamo dunque al contenuto empirico della "lettera degli economisti". Il passaggio cruciale è la spiegazione della crisi, ossia della "Grande Recessione" del 2007-2009. Si legge nella lettera:
questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori
Si sta cioè affermando che la crisi è principalmente spiegata dall'interazione di due cause remote: l'aumento della produttività del lavoro e un ristagno o declino del reddito disponibile dei lavoratori. Per entrambe queste variabili sono disponibili serie storiche internazionali. Assumo che siamo tutti d'accordo che i dati possiamo prenderli per buoni, se no non c'è più nulla di cui discutere e tutto torna nel dominio delle opinioni.
Fatti 1, 2, e 3. La figura 1 riporta l'indice di produttività del lavoro (fonte: statistiche OCSE). L'indice è posto convenzionalmente pari a 100 nel 2000 e rappresenta l'andamento del valore aggiunto lordo a prezzi costanti per ora lavorata per l'economia nel suo complesso. La figura 2 riporta invece la quota di prodotto interno lordo distribuita al lavoro dipendente (al netto delle imposte e dei contributi a carico del lavoratore) la cosiddetta labor share (fonte: Eurostat per Area Euro e Giappone; Bureau of Economic Analysis per gli USA). La linea rossa verticale in queste e nelle altre figure indica il 2007, quando è ufficialmente iniziata la "Grande Recessione". La produttività del lavoro è crescente in tutte le economie rappresentate (ad eccezione dell'Italia, dove ristagna da 10-15 anni). La labor share negli ultimi trenta anni è stata pressoché costante in USA e UK, crescente in Giappone e in declino in Italia. Tuttavia in Italia la labor share è visibilmente aumentata negli ultimi 10 anni, proprio mentre la produttività del lavoro ristagnava, il contrario di quello che si legge nella citazione riportata sopra. La figura 3 riporta la relazione tra crescita della produttività reale oraria del lavoro e salario reale orario dal 1996 al 2008 nei sei paesi che sto considerando. Qui la linea rossa è la linea a 45 gradi. Il periodo è ristretto a 1996-2008 perché nelle statistiche OCSE non ho trovato dati sulla crescita dei salari orari prima del 1996 in Francia e Germania. Inoltre in questo database il salario reale orario per l'Italia non è disponibile per l'economia nel suo complesso ma solo per il settore manifatturiero.
Figura 1. Produttività del lavoro.
Figura 2. "Labor share"
Figura 3. Crescita della produttività e crescita dei salari.
Conclusione 1. Se mettiamo insieme i due dati su produttività del lavoro e labor share concludiamo che negli ultimi trent'anni la capacità di consumo dei lavoratori dipendenti è cresciuta proporzionalmente alla crescita della produzione in USA, UK, Francia e Giappone (ricevere una quota non decrescente di una quantità crescente vuol dire ricevere una fetta sempre più grande in termini assoluti), e meno che proporzionalmente in Germania. In Italia la dinamica è stata simile a quella tedesca ma si è invertita nel 2000. Se andiamo indietro al 1970 vediamo invece che nel Regno Unito c'è stata una dinamica simile a quella italiana fino al 2000 ma concentrata in un solo decennio (un cambiamento notevole). In particolare, non sembra esserci alcun ristagno della capacità di consumo dei lavoratori dipendenti negli USA, dove la crisi che si vuole spiegare si è originata. Il dato su crescita dei salari e della produttività mostra inoltre due fatti: primo, a eccezione del Giappone (che è un caso a parte dal 1990 in poi per ragioni ben note) i salari sono cresciuti più rapidamente della produttività del lavoro nei paesi rappresentati; secondo, in Italia sono cresciuti ancora più rapidamente (sempre relativamente alla produttività) che in USA, UK, Francia e Germania.
Ma cosa è successo in Italia e in Germania? Chi ha espropriato i lavoratori di 5-10 punti di PIL negli ultimi trent'anni?
Fatti 4 e 5. La riposta si può leggere nelle figure 4 e 5, che completano la figura 2 riportando la capital share (espressione forse impropria ma che uso per brevità per indicare i redditi percepiti sotto forma di rendimento delle proprietà immobiliari, profitti, interessi) e la government share (imposte e tasse sulla produzione, al netto dei trasferimenti, e sulle importazioni). Negli ultimi trent'anni in Germania la capital share è aumentata di soli due punti percentuali, mentre in Italia è diminuita.
Per l'Italia salta subito agli occhi l'abnorme dimensione di questa quota: il Bel Paese sembra essere il paradiso dei capitalisti e dei rentiers. Questo numero riflette l'elevata incidenza del lavoro autonomo in Italia (si veda la figura 6 sotto che riporta la percentuale di lavoratori autonomi, self-employment, sul totale dell'occupazione, costruita utilizzando ancora le statistiche OCSE sul lavoro. Questa figura suggerisce, incidentalmente, che l'elevato numero di lavoratori autonomi in Italia non sembra essere causato dalla recente e certamente deprecabile pratica di assumere lavoro dipendente facendo passare gli impiegati per lavoratori autonomi). L'elevata capital share in Italia riflette però anche il modo in cui (non) funziona la concorrenza in Italia. Dove c'è molta concorrenza (USA, ad esempio) la capital share è relativamente bassa (il Giappone è, di nuovo, un'eccezione a causa degli eventi post-1990). Questi punti meriterebbero un post a parte ed esulano comunque dal mio obiettivo. La cosa rilevante è la seguente.
Conclusione 2. Non sono stati i (ben pasciuti, por supuesto) capitalisti e rentiers nostrani ad espropriare i lavoratori italiani di 10 punti di PIL dalla fine degli anni 70 a oggi, ma sono stati i nostri governi. Questo è evidente dall'esplosione della government share in Italia riportata nella figura 5. Stessa cosa, sebbene in modo meno drammatico, vale per la Germania. Se la spiegazione della crisi contenuta nella parte della lettera citata sopra vale per Italia e Germania allora segue logicamente da questi dati che l'origine del male non sta né nel capitalismo né nel mercato, ma nell'azione dei governi. Cioè chi sottoscrive la lettera e accetta questi dati deve concludere che è lo stato che negli ultimi trent'anno ha fatto male ai lavoratori, non il mercato o il capitalismo (a meno che in Italia e in Germania i governi non siano da trent'anni e più il braccio politico dei suddetti capitalisti e rentiers). Fa eccezione il Regno Unito, dove negli anni '80 (ma non recentemente) c'è stata redistribuzione dal reddito da lavoro dipendente al reddito da capitale e proprietà, ma anche in questa eccezione si vede che il governo ha eroso parte della quota del lavoro.
Questo dicono i dati disponibili. Io non vedo sufficiente evidenza in favore della spiegazione della crisi contenuta nella "lettera degli economisti". Se sbaglio correggetemi.
Figura 4. "Capital share"
Figura 5. "Government share"
Figura 6. Incidenza del lavoro autonomo
primo cmmet A CALDO, poi ritornerò:
1 la produttività in Italia da 30 anni NON CRESCE - in termini comparativi, s'intende: v. anche Fig. 1 - e questo è un FATTO SISTEMICO, tutto congiura a tal fine, ad es.: le scelte CONTINUISTICHE sul made in Italy e piccolo è bello; l'immobilità del lavoro cross-generations; il buco nero della formazione superiore; la assenza di ricerca applicata finanziata da - e performata dall'industria (il buco in confronto alla R&D nel RdM); ecc. ecc. TUTTO. Si fa orima a dire cosa sia dissonante, e punti ad una ricollocazine dell'Italia sull'asse tedesco, verso + qualità del lavoro e fasi ad alto VA.
2 L'appello è pseudo-Pasinettiano (Luigi Maria non ha mai autorizzato né benedetto questo gruppo, che si estrinseca nel blog economiaepolitica.it, da cui trae origine l'appello immeritatamente mediatizzato, complici i coglionazzi de IlSole; en passant, le osservazioni di Michele sul presunto sotto-consumismo di detto appello, nel precedente trend di discussione, sono sia giuste che SOMMARIE e contro-caricaturali).
3 L'appello è TUTTO meridionale, e meridionalistico: http://www.facebook.com/group.php?gid=124464854253947&ref=mf#!/event.php?eid=124174520957726&index=1 domani dibattito in un santuario della cultura italiana, l'Ist. Stu. Fil. di Napoli; quando si dice MARKETTING.
Questa storia dell'appello "meridionale e meridionalistico" l'ho già letta altrove, dove si faceva notare che "solo" il 25% dei firmatari è del Nord, ed il grosso viene dal Centro e dal Sud. Peccato che da nessuna parte nell'appello sia scritto: più spesa per il Sud.
Credo sia l'ennesima bufala (non campana) di chi cerca di buttarla in caciara senza discutere (come invece fanno i redattori di Nfa), anche l'evento pubblicizzato su facebook ne è la riprova: è un evento organizzato dall'IDV, in particolare da Luigi De Magistris, che è notoriamente napoletano, per cui non poteva certamente organizzarlo a Milano, la sede scelta è quella dell'Istituto Italiano Studi Filosofici (un covo di pericolosi economisti?), uno degli Enti che Tremonti (giustamente) non vuole finanziare più, ed a cui questo evento servirà solo per strillare che lo chiudono perchè è contro Tremonti. Bellisssimo l'inizio: saluta Gerardo Marotta, Presidente, modera Sergio Marotta... tutto in famiglia.
Mi dispiace non poterci andare, ma domani parto per Firenze dove c'è un raduno di gente che è contraria all'aumento della spesa pubblica, chissà, forse non mi accolgono in quanto napoletano..