Gli economisti e i fatti

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La discussione della "lettera degli economisti" su questo blog ha suscitato vive reazioni sia sullo stile sia sul metodo (espresse in corrispondenza privata che non può essere resa pubblica) che hanno offuscato, in particolare, le obiezioni al contenuto empirico della lettera. Questo è un peccato perché anche se non si è d'accordo sulla teoria non si può non essere d'accordo sui fatti rilevanti. Questo post contribuisce alla discussione riassumendone alcuni.

1. Breve premessa metodologica

I fatti sono importanti perché consentono un primo, rudimentale test della teoria. Questo semplice punto può essere illustrato descrivendo una semplice metodologia di ricerca che possiamo chiamare "scientifica".

Supponiamo di aver osservato l'evento E e di voler capire cosa l'ha causato. Gli scienziati sociali sono meno fortunati degli scienziati naturali e non possono replicare in laboratorio eventi come una crisi finanziaria o una recessione. Uno scienziato sociale, tipicamente, costruisce una teoria e la utilizza poi come un laboratorio virtuale: altera alcune variabili esogene e vede cosa succede a quelle endogene. Immaginiamo di concludere, facendo esperimenti in questo laboratorio virtuale, che l'evento E è causato da un insieme di eventi che chiamiamo C. In altre parole, secondo la teoria che abbiamo costruito C è condizione necessaria per E: senza C non può esserci E, ovvero:

E => C.

Il passo successivo è raccogliere dati, se esistono, su C. Se questi dati esistono è certamente una buona idea analizzarli. Se uno è scettico (ed è libero di esserlo) su tecniche statistiche o econometriche sofisticate può semplicemente dare un'occhiata ai dati "grezzi", ossia andare almeno a vedere se C si è verificato oppure no. È vero che anche questi dati che chiamo "grezzi" sono spesso stime che presuppongono una teoria (per misurare ci vuole pur sempre una teoria), ma anche in questi casi derivano dall'applicazione di metodologie statistiche di base che richiedono assunzioni minime. Se qualcuno degli eventi in C non si è verificato c'è qualcosa che non va nella teoria, perché la teoria diceva che questi erano necessari al verificarsi di E.

Oppure analizzando i dati si può scoprire che C si è verificato assieme a D e che D contraddice la teoria che si sta utilizzando. Guardare i dati, insomma, è molto importante. Ed è anche facile di questi tempi.

2. Il contenuto empirico della "lettera degli economisti"

Dopo questa premessa metodologica veniamo dunque al contenuto empirico della "lettera degli economisti". Il passaggio cruciale è la spiegazione della crisi, ossia della "Grande Recessione" del 2007-2009. Si legge nella lettera:

questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori

Si sta cioè affermando che la crisi è principalmente spiegata dall'interazione di due cause remote: l'aumento della produttività del lavoro e un ristagno o declino del reddito disponibile dei lavoratori. Per entrambe queste variabili sono disponibili serie storiche internazionali. Assumo che siamo tutti d'accordo che i dati possiamo prenderli per buoni, se no non c'è più nulla di cui discutere e tutto torna nel dominio delle opinioni.

Fatti 1, 2, e 3. La figura 1 riporta l'indice di produttività del lavoro (fonte: statistiche OCSE). L'indice è posto convenzionalmente pari a 100 nel 2000 e rappresenta l'andamento del valore aggiunto lordo a prezzi costanti per ora lavorata per l'economia nel suo complesso. La figura 2 riporta invece la quota di prodotto interno lordo distribuita al lavoro dipendente (al netto delle imposte e dei contributi a carico del lavoratore) la cosiddetta labor share (fonte: Eurostat per Area Euro e Giappone; Bureau of Economic Analysis per gli USA). La linea rossa verticale in queste e nelle altre figure indica il 2007, quando è ufficialmente iniziata la "Grande Recessione". La produttività del lavoro è crescente in tutte le economie rappresentate (ad eccezione dell'Italia, dove ristagna da 10-15 anni). La labor share negli ultimi trenta anni è stata pressoché costante in USA e UK, crescente in Giappone e in declino in Italia. Tuttavia in Italia la labor share è visibilmente aumentata negli ultimi 10 anni, proprio mentre la produttività del lavoro ristagnava, il contrario di quello che si legge nella citazione riportata sopra. La figura 3 riporta la relazione tra crescita della produttività reale oraria del lavoro e salario reale orario dal 1996 al 2008 nei sei paesi che sto considerando. Qui la linea rossa è la linea a 45 gradi. Il periodo è ristretto a 1996-2008 perché nelle statistiche OCSE non ho trovato dati sulla crescita dei salari orari prima del 1996 in Francia e Germania. Inoltre in questo database il salario reale orario per l'Italia non è disponibile per l'economia nel suo complesso ma solo per il settore manifatturiero.

 

Figura 1. Produttività del lavoro.

labor productivity

 

Figura 2. "Labor share"

labor share

 

Figura 3. Crescita della produttività e crescita dei salari.

proctivity growth and wage growth

 

Conclusione 1. Se mettiamo insieme i due dati su produttività del lavoro e labor share concludiamo che negli ultimi trent'anni la capacità di consumo dei lavoratori dipendenti è cresciuta proporzionalmente alla crescita della produzione in USA, UK, Francia e Giappone (ricevere una quota non decrescente di una quantità crescente vuol dire ricevere una fetta sempre più grande in termini assoluti), e meno che proporzionalmente in Germania. In Italia la dinamica è stata simile a quella tedesca ma si è invertita nel 2000. Se andiamo indietro al 1970 vediamo invece che nel Regno Unito c'è stata una dinamica simile a quella italiana fino al 2000 ma concentrata in un solo decennio (un cambiamento notevole). In particolare, non sembra esserci alcun ristagno della capacità di consumo dei lavoratori dipendenti negli USA, dove la crisi che si vuole spiegare si è originata. Il dato su crescita dei salari e della produttività mostra inoltre due fatti: primo, a eccezione del Giappone (che è un caso a parte dal 1990 in poi per ragioni ben note) i salari sono cresciuti più rapidamente della produttività del lavoro nei paesi rappresentati; secondo, in Italia sono cresciuti ancora più rapidamente (sempre relativamente alla produttività) che in USA, UK, Francia e Germania.

Ma cosa è successo in Italia e in Germania? Chi ha espropriato i lavoratori di 5-10 punti di PIL negli ultimi trent'anni?

Fatti 4 e 5. La riposta si può leggere nelle figure 4 e 5, che completano la figura 2 riportando la capital share (espressione forse impropria ma che uso per brevità per indicare i redditi percepiti sotto forma di rendimento delle proprietà immobiliari, profitti, interessi) e la government share (imposte e tasse sulla produzione, al netto dei trasferimenti, e sulle importazioni). Negli ultimi trent'anni in Germania la capital share è aumentata di soli due punti percentuali, mentre in Italia è diminuita.

Per l'Italia salta subito agli occhi l'abnorme dimensione di questa quota: il Bel Paese sembra essere il paradiso dei capitalisti e dei rentiers. Questo numero riflette l'elevata incidenza del lavoro autonomo in Italia (si veda la figura 6 sotto che riporta la percentuale di lavoratori autonomi, self-employment, sul totale dell'occupazione, costruita utilizzando ancora le statistiche OCSE sul lavoro. Questa figura suggerisce, incidentalmente, che l'elevato numero di lavoratori autonomi in Italia non sembra essere causato dalla recente e certamente deprecabile pratica di assumere lavoro dipendente facendo passare gli impiegati per lavoratori autonomi). L'elevata capital share in Italia riflette però anche il modo in cui (non) funziona la concorrenza in Italia. Dove c'è molta concorrenza (USA, ad esempio) la capital share è relativamente bassa (il Giappone è, di nuovo, un'eccezione a causa degli eventi post-1990). Questi punti meriterebbero un post a parte ed esulano comunque dal mio obiettivo. La cosa rilevante è la seguente.

Conclusione 2. Non sono stati i (ben pasciuti, por supuesto) capitalisti e rentiers nostrani ad espropriare i lavoratori italiani di 10 punti di PIL dalla fine degli anni 70 a oggi, ma sono stati i nostri governi. Questo è evidente dall'esplosione della government share in Italia riportata nella figura 5. Stessa cosa, sebbene in modo meno drammatico, vale per la Germania. Se la spiegazione della crisi contenuta nella parte della lettera citata sopra vale per Italia e Germania allora segue logicamente da questi dati che l'origine del male non sta né nel capitalismo né nel mercato, ma nell'azione dei governi. Cioè chi sottoscrive la lettera e accetta questi dati deve concludere che è lo stato che negli ultimi trent'anno ha fatto male ai lavoratori, non il mercato o il capitalismo (a meno che in Italia e in Germania i governi non siano da trent'anni e più il braccio politico dei suddetti capitalisti e rentiers). Fa eccezione il Regno Unito, dove negli anni '80 (ma non recentemente) c'è stata redistribuzione dal reddito da lavoro dipendente al reddito da capitale e proprietà, ma anche in questa eccezione si vede che il governo ha eroso parte della quota del lavoro.

Questo dicono i dati disponibili. Io non vedo sufficiente evidenza in favore della spiegazione della crisi contenuta nella "lettera degli economisti". Se sbaglio correggetemi.

 

Figura 4. "Capital share"

capital share

 

Figura 5. "Government share"

government share

 

Figura 6. Incidenza del lavoro autonomo

self-employment

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Commenti

Ci sono 146 commenti

primo cmmet A CALDO, poi ritornerò:

1 la produttività in Italia da 30 anni NON CRESCE  - in termini comparativi, s'intende: v. anche Fig. 1 - e questo è un FATTO SISTEMICO, tutto congiura a tal fine, ad es.: le scelte CONTINUISTICHE sul made in Italy e piccolo è bello; l'immobilità del lavoro cross-generations; il buco nero della formazione superiore; la assenza di ricerca applicata finanziata da - e performata dall'industria (il buco in confronto alla R&D nel RdM); ecc. ecc. TUTTO. Si fa orima a dire cosa sia dissonante, e  punti ad una ricollocazine dell'Italia sull'asse tedesco, verso + qualità del lavoro e fasi ad alto VA.

2 L'appello è pseudo-Pasinettiano (Luigi Maria non ha mai autorizzato né benedetto questo gruppo, che si estrinseca nel blog economiaepolitica.it, da cui trae origine l'appello immeritatamente mediatizzato, complici i coglionazzi de IlSole; en passant, le osservazioni di Michele sul presunto sotto-consumismo di detto appello, nel precedente trend di discussione, sono sia giuste che SOMMARIE e contro-caricaturali).

3 L'appello è TUTTO meridionale, e meridionalistico: http://www.facebook.com/group.php?gid=124464854253947&ref=mf#!/event.php?eid=124174520957726&index=1 domani dibattito in un santuario della cultura italiana, l'Ist. Stu. Fil.  di Napoli; quando si dice MARKETTING.

Questa storia dell'appello "meridionale e meridionalistico" l'ho già letta altrove, dove si faceva notare che "solo" il 25% dei firmatari è del Nord, ed il grosso viene dal Centro e dal Sud. Peccato che da nessuna parte nell'appello sia scritto: più spesa per il Sud.

Credo sia l'ennesima bufala (non campana) di chi cerca di buttarla in caciara senza discutere (come invece fanno i redattori di Nfa), anche l'evento pubblicizzato su facebook ne è la riprova: è un evento organizzato dall'IDV, in particolare da Luigi De Magistris, che è notoriamente napoletano, per cui non poteva certamente organizzarlo a Milano, la sede scelta è quella dell'Istituto Italiano Studi Filosofici (un covo di pericolosi economisti?), uno degli Enti che Tremonti (giustamente) non vuole finanziare più, ed a cui questo evento servirà solo per strillare che lo chiudono perchè è contro Tremonti. Bellisssimo l'inizio: saluta Gerardo Marotta, Presidente, modera Sergio Marotta... tutto in famiglia.

Mi dispiace non poterci andare, ma domani parto per Firenze dove c'è un raduno di gente che è contraria all'aumento della spesa pubblica, chissà, forse non mi accolgono in quanto napoletano..

Io credo che i grafici presentati non vadano al cuore del problema. Da un lato tu stesso riconosci che la produttività del lavoro à aumentata e che la labor share è stata stagnante in uk ed usa, crescente in jp e calante in it. Queste affermazoni mi sembra possano sostenere l'argomentazione iniziale che vuoi confutare. O per lo meno non sono palesemente contrarie a quanto in essa riportato.

Di conseguenza credo che il punto sia un'altro.

Credo che gli "economisti" della lettera, in funzione di una visione conflittualistica del rapporto tra capitale e lavoro 1) sostengano che il profitto sia una variabile "politica" e 2) sostengano vi sia un livello sostenibile nella distribuzione del reddito che potrebbe essere violato ai livelli attuali qualunque essi siano (tale livello va naturalamente formalizzato per poterne discutere).

Se le mie presunzioni non sono errate allora 1) i fatti che riporti non sono sufficienti a confutare la loro posizione; 2) sarebbe altresì necessario confutare un loro modello formale se esiste (e sperando che la sua forma ridotta non sia quella di un modello di equilibrio generale!).

Abbiate pazienza se ho detto minchiate. :)

 

 

Credo che gli "economisti" della lettera, in funzione di una visione conflittualistica del rapporto tra capitale e lavoro 1) sostengano che il profitto sia una variabile "politica" e 2) sostengano vi sia un livello sostenibile nella distribuzione del reddito che potrebbe essere violato ai livelli attuali qualunque essi siano (tale livello va naturalamente formalizzato per poterne discutere).

 

Be', in tal caso potrebbero onestamente dirlo e presentare le loro tesi come una proposta politica di lotta di classe, anziche' travestirle da spiegazione tecnica della crisi.

Da un lato tu stesso riconosci che la produttività del lavoro à aumentata e che la labor share è stata stagnante in uk ed usa, crescente in jp e calante in it.

Non confondiamo labor share con capacita' di consumo dei lavoratori. Se la prima e' costante la seconda non sta ristagnando: la capacita' di consumo dei lavoratori aumenta allo stesso tasso della produzione. La labor share ha un upper bound, che e' il 100%, quindi non puo' crescere indefinitamente.

In Italia e' diminuita visibilmente fino al 2000 mentre la produttivita' e' aumentata (ma i dati mostrano che e' il governo che si e' "appropriato" di quello che hanno perso i lavoratori), poi e' aumentata.

Non vedo come questi dati sostengano la teoria della lettera: il caso piu' favorevole alla teoria e' quello italiano, ma in termini di domanda in Italia lo stato ha comprato i beni e servizi che i lavoratori non potevano piu' permettersi a causa della maggiore tassazione dei loro redditi.

Domanda: è possibile avere gli stessi dati per la Svezia e, più in generale, per i paesi scandinavi?

Magari questa teoria è smentita dai fatti ma se dovessi scommettere direi che in Svezia, nonostante una spesa pubblica molto elevata, la quota di PIL destinata ai lavoratori non è ne calata come in Italia ne così bassa in termini assoluti.

E se anche la labor share svedese fosse più bassa di quella americana (probabilmente lo è), c'è anche da dire che il cittadino svedese riceve in forma gratuita o a prezzi politici tutta una serie di beni che il cittadino americano non riceve.

Il che mi porterebbe a dire che il male del nostro paese non è la spesa pubblica tout court ma l'assoluta inefficenza, il clientelismo e lo sperpero con cui questa spesa pubblica viene gestita in Italia.

In effetti la cosa interessante sarebbe depurare la spesa pubblica italiana e svedese e vedere cosa, con quei soldi, viene effettivamente dato ai cittadini in termini di beni che, in caso contrario, dovrebbero procurarsi sul mercato. Il che ovviamente esclude difesa, giustizia, illuminazione stradale e tutti quei beni pubblici puri. Include sanità, istruzione, sussidi ecc...

Poi, una volta ottenuto questo dato, lo sommiamo alla labor share dei vari paesi e vediamo l'effettiva quota di PIL destinata a chi percpeisce redditi da lavoro dipendente, includendo però sia i redditi effettivi sia i beni dati dallo stato.

Ne uscirebbe un'analisi molto interessante dove, a naso, Svezia e USA otterebbero risultati simili come labor share del PIL integrata dai beni forniti dallo stato, mentre l'Italia ne uscirebbe con le ossa rotte. Ovviamente gli svedesi avrebbero una distribuzione dei redditi più uniforme, con minori differenze tra ricchi e poveri (è o dovrebbe essere uno degli effetti di un'elevata ma efficente spesa pubblica) mentre gli americani guadagneranno qualcosa in termini di dimensione complessiva della torta a prezzo di maggiori differenze tra i redditi. Soluzioni entrambe efficenti dal punto di vista economico, mentre un altro paese a caso dalla curiosa forma a stivale si ritroverebbe, mi verrebbe da scommettere, lontano da questa frontiera efficiente.

 

Domanda: è possibile avere gli stessi dati per la Svezia e, più in generale, per i paesi scandinavi?

Se segui il link a Eurostat trovi tutti questi stessi dati per i paesi scandinavi. Nel ramo:

- Economy and Finance
- National Accounts (including GDP)
- Quarterly National Accounts
- GDP and Main Components
- GDP and Main Components - Current Prices

Confesso di non essere all'altezza per cogliere tutte le sfumature. Ma, probabilmente, sarebbe interessante vedere anche l'andamento dei salari nei vari paesi ed i consumi.

Impostazione molto interessante ed esplicativa dei precedenti post cui si fa riferimento. Tuttavia, quando si parla di spesa pubblica, è interessante armarsi di lente di ingrandimento (o di microscopio, a seconda della profondità dell'analisi) e addentrarsi in una ispezione sicuramente poco divertente, benché utile, dei bilanci delle p.a.

Ad una prima grossolana analisi, leggendo i dati della ragioneria generale, vedo che la spesa per interessi prende in Italia quasi il 20% della spesa totale; costantemente quasi il doppio delle spese in c/c. Altre indicazioni potrebbero arrivare dal dettaglio della spesa distinta per amministrazione e quella regionalizzata. Insomma il 'government share' è alto, sicuramente potrebbe essere ridotto ma soprattutto razionalizzato e reso efficiente. 

non esageriamo ( 2009 in miliardi R.U.E.F. )

 

spesa totale : 798,9

interessi : 71,3 ( 9,2% )

 

 

 

Ad una prima grossolana analisi, leggendo i dati della ragioneria generale, vedo che la spesa per interessi prende in Italia quasi il 20% della spesa totale; costantemente quasi il doppio delle spese in c/c. Altre indicazioni potrebbero arrivare dal dettaglio della spesa distinta per amministrazione e quella regionalizzata. Insomma il 'government share' è alto, sicuramente potrebbe essere ridotto ma soprattutto razionalizzato e reso efficiente. 

Quella che ho chiamato government share sono le imposte al netto dei trasferimenti, e' "consumo puro" del governo e in particolare non include gli interessi sul debito (che vanno nella "capital share" per la parte percepita dai residenti che detengono i titolo del debito).

 

Grazie Giulio per aver riportato i dati per esteso, con le serie temporali ed i grafici. Quando ci sarà tempo entreremo anche nei dettagli.

Nel frattempo, invito i commentatori increduli a leggere con attenzione sia quanto scritto a questo proposito nella Lettera dei 100, sia quanto messo in evidenza da Alberto e da sottoscritto nel pistolotto. In particolare, noi abbiamo chiaramente scritto che:

 

Ma nei dati la quota di reddito da capitale cresce in certi periodi e cala in altri senza alcun trend preciso. Verissimo, gli ultimi dieci anni hanno visto una crescita, in alcuni paesi non in tutti, ma altri decenni hanno visto una riduzione. Insomma, un trend di lungo periodo non c’è proprio, è una fantasia di questi economisti italiani che, evidentemente, grande familiarità con la contabilità nazionale ed i fatti non devono avere. Basterebbe questa osservazione per tirare tutto alle ortiche, ma andiamo avanti.

È per giunta falso che la produttività del lavoro sia cresciuta molto di piu di quanto siano cresciuti i redditi dei lavoratori. Questo è falso per i paesi UE e per gli USA dove produttività del, e redditi da, lavoro crescono fondamentalmente in parallelo, paese per paese, dall’immediato secondo dopoguerra [qui i dati dal 1979 al 2008: andate a pagina 6 e studiate la Table B; se troviamo il tempo magari nei commenti mettiamo anche quelli per gli anni precedenti al 1979 e per il 2009]. In alcuni paesi, come la Germania o gli USA, la produttività è cresciuta maggiormente e maggiormente sono cresciuti i salari per ora lavorata, per altri (come Italia e Spagna) la produttività è cresciuta pochissimo e pochissimo son cresciuti i salari. Ma la divergenza tanto conclamata nella lettera è completamente assente nei dati.

Riguardo ai consumi, o al sottoconsumo, occhio al trucco: nella "Lettera" si parla di “capacità di consumo”, termine ambiguo che potrebbe riferirsi al reddito disponibile dei lavoratori. Quest’ultimo è, in prima approssimazione, uguale al reddito lordo da lavoro meno tasse, contributi ed altri pubblici balzelli. Poiché sia tasse che contributi sono certamente cresciuti più del reddito stesso e certamente vero che il reddito disponibile delle famiglie è cresciuto meno della produttività del lavoro. Questo è particolarmente vero in Italia dove lo stato-piovra viene erodendo il reddito disponibile del settori privato da vent’anni a questa parte. Ma è lo stato che erode, non il mercato. E più stato, come vedremo in seguito, è ciò che gli estensori della "Lettera degli economisti" vogliono.

 

Mi sembra che la coincidenza fra quanto da noi riassunto e quanto Giulio dettaglia sulla base dei dati OCSE sia praticamente del 99%. Faccio anche osservare che, ai links da noi indicati, si trovano altri dati di altre fonti indipendenti che confermano quanto da noi asserito.

Attendo paziente che qualcuno dei firmatari della Lettera dei 100, in particolare gli estensori della medesima, rendano pubblici i dati (e le fonti dei medesimi) che suffragano le loro affermazioni. Per il momento a me non risulta esistano.

P.S. Con un pizzico di orgoglio personale, faccio anche notare che i dati dettagliati riportati da Giulio mettono chiaramente in evidenza come la quota del reddito dal lavoro nel totale del reddito nazionale (ossia, nel totale del PIL) sia aumentata ancora una volta a seguito della crisi. Questa regolarità (che la quota del reddito da lavoro sul PIL cresce durante le recessioni) è una predizione fondamentale del tipo di teoria della crescita e del ciclo che il sottoscritto va proponendo da quasi due decenni. Vedasi il paper originale con Michael Horvath in JPE 1995, e lavori più recenti, soprattutto con David K. Levine, ma non solo. Se a qualcuno interessano i riferimenti esatti magari anche li metto. Questa mi sembra già un'auto-promozione più che sufficiente.

 

 

Se a qualcuno interessano i riferimenti esatti magari anche li metto

 

Se non è troppo disturbo mi farebbe piacere (sperando di riuscire poi a capirli date le mie limitate conoscenze di economia)

 

La premessa metodologica è assolutamente errata.. I dati non devono essere utilizzati per verificare, ma per falsificare. Già Bacone aveva individuato l'ambiguità del metodo verificazionista, ma con Popper arriva la fine di un metodo che ricerca la verità ad ogni costo. Ogni dato può essere utile per verificare le proprie teorie, ma bisognerebbe andare alla ricerca di quell'unico elemento in grado di metterle in crisi. Non scendo nel merito della valutazione economica, ma credo che proporre ancora oggi un'impostazione di tipo verificazionista sia un errore da non commettere soprattutto se si vuole sviluppare un discorso serio. Se si cerca una risposta, sicuramente la si troverà.

Ogniqualvolta una teoria ti sembra essere l'unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere (Popper)

 

ed infatti i dati che Giulio presenta mettono in crisi la "teoria" degli "economisti".

Forse tu hai piu' da ridire sul modo in cui Giulio ha introdotto la logica dietro il suo ragionamento. Prendilo come segno dell'ingenuita' scientifica degli economisti (quelli senza le virgolette) :-)

Premesso che esistono infinite teorie che si accordano con l'esperienza perchè si possono costruire ad hoc infinite funzioni in grado di 'fittare' qualsiasi serie storica, e che, teoricamente, nessuna conferma è mai definitiva, lo sviluppo di una teoria prende impulso dalle conferme empiriche.

L'atteggiamento di Popper è considerato ingenuo da Lakatos perchè descrive un mondo ideale che non ha riscontro nella pratica scientifica. Gli scienziati hanno la pellaccia dura e non abbandonano una teoria solo perchè in contraddizione con le evidenze, ma la corredano di ipotesi e premesse ausiliarie, oppure minimizzano e ignorano i fatti per salvarla. Lo spiega bene Lakatos con un esempio:

Un fisico dell'era  pre-einsteiniana prende la meccanica di Newton e la sua legge di gravitazione, (N), le condizioni iniziali accettate, I, e calco­la con il loro aiuto la traiettoria di un pianetino scoperto da poco, p. Ma la traiettoria del pianeta devia da quella calcolata. Il nostro fisico newtonia­no considera forse che la deviazione era vietata dalla teoria di Newton e quindi che, una volta stabilita, essa confuta la teoria N? No. Suggerisce che ci deve essere un pianeta p' fino a ora sconosciuto che perturba la traiettoria di p. Egli calcola la massa, l'orbita ecc. di questo pianeta ipotetico e poi chiede a un astronomo sperimentale di controllare la sua ipotesi. Il pianeta p' è così piccolo che neppure i più grandi telescopi disponibili sono in grado di osservarlo: l'astronomo sperimentale chiede allora un fondo di ricerca per costruirne uno ancora più grande. Nel giro di tre anni il nuovo telescopio è pronto. Se il pianeta sconosciuto p' venisse scoperto, questa scoperta verrebbe acclamata come una nuova vittoria del­la scienza newtoniana. Ma ciò non accade. Il nostro scienziato abbandona forse la teoria di Newton e la sua idea del pianeta perturbatore? No. Sug­gerisce che una nuvola di polvere cosmica ci nasconde il pianeta. Calcola la posizione e le proprietà di questa nuvola e chiede un fondo di ricerca per spedire un  satellite a controllare i suoi calcoli. Se gli strumenti del satellite (magari nuovi e basati su una teoria poco controllata) registrassero l'esistenza dell'ipotetica nuvola, il risultato sarebbe acclamato come una grandiosa vittoria della scienza newtoniana. Ma la nuvola non viene scoperta. Il nostro scienziato abbandona forse la teoria di Newton, insie­me con l'idea del pianeta perturbatore e con l'idea di una nuvola che lo nasconde? No. Suggerisce che in quella regione dell'universo vi sia un campo magnetico che ha disturbato gli strumenti del satellite. Viene invia­to un nuovo satellite. Se il campo magnetico venisse scoperto, i newto­niani celebrerebbero una vittoria strepitosa. Ma ciò non accade. Si consi­dera forse questo fatto come una confutazione della scienza newtoniana? No. O si propone un'altra ingegnosa ipotesi ausiliare o... l'intera storia viene seppellita nei volumi polverosi dei periodici e non viene mai più menzionata.


E non è detto che sia un atteggiamento scorretto, perchè, seguendo Popper, la meccanica newtoniana doveva essere abbandonata, dato che non si accordava con la 'anomala' precessione del perielio di Mercurio! Il punto è che la teoria aveva un utilità enorme e spiegava quasi tutto ciò che si conosceva della natura fino ad allora, con buona pace di Mercurio e della sua orbita.
Una teoria è tanto buona quanti più fatti riesce a spiegare, ovvero, quanto più è confermata empiricamente. Alla faccia di Popper.

Viste le premesse, difficilmente qualcuno dei Duecento ammetterà di aver scritto boiate (cit.), anzi prevedo che sul moribondo (la teoria) si perpetrerà un impietoso accanimento terapeutico ad opera dei vari dott. Balanzone che accorreranno al suo capezzale per prolungarne la vita in maniera artificiale.

Quindi, mi aspetto correzioni, integrazioni, nuove assunzioni e mirror climbing estremo, per cui invito i nostri ad armarsi di pazienza per espungere retorica e sofismi vari (le armi preferite dei parolai) dalla dialettica tenzone.

 

 

La premessa metodologica è assolutamente errata.. I dati non devono essere utilizzati per verificare, ma per falsificare.

 

Mi sembra un'affermazione di carattere tanto generale quanto discutibile.  Limitandomi al mio settore, la fisica delle particelle elementari, le teorie vengono elaborate per spiegare i fatti e nuove misure vengono progettate sia per falsificare le teorie sia per confermare predizioni non ancora misurate sperimentalmente. L'assenza/debolezza delle correnti neutre fece elaborare una teoria che prevedeva l'esistenza di una nuova particella, non ancora osservata (il quark charm).  L'osservazione dei mesoni con charm e' stato un elemento importante per confermare la teoria. La teoria elettrodebole prevedeva bosoni massivi carichi e neutri (W, Z0): questi sono stati cercati e trovati, e chi l'ha fatto e' stato anche premiato col Nobel.

 

La premessa metodologica è assolutamente errata.. I dati non devono essere utilizzati per verificare, ma per falsificare. 

raf, non ho scritto che si usano i dati per verificare la teoria, rileggere la "premessa metodologica" per credere. Ho scritto che se l'evento esplicativo dei fatti in una teoria non si e' verificato la teoria ha qualche problema.

 

 

la interpretazione dei grafici ( non dei fatti quindi :)   )  rischia sempre di essere fuorviante.

Interessante il tipping point sull'indice di produttività, dove sembra proprio che dal 2001 in Italia qualcuno abbia combinato qualche grosso pasticcio...

io penso che siamo stati governati da una associazione a delinquere che ha tirato fuori il peggio dagli italiani, ma un simile "disastro" in produttività mi sembra troppo anche per i ns. politici....

Infatti, se non sbaglio,  l'indice di produttività  considera l'occupazione al denominatore...quindi la revisione dei parametri per il conteggio della disoccupazione ( altro grafico fuorviante nella interpretazione dei "fatti" ) oltre che legge biagi ed altri fattori incidono pesantemente .

Altro grafico mal interpretato potrebbe essere quello sul lavoro autonomo...prima di trarre conclusioni da questo grafico ( tutti capitalisti e rentiers ! ) consiglio la sua lettura "allargata".

 

GreciaItaliaPortogallo...per alcuni  PIG, lo stesso podio del sommerso.

 

 

 

 

 

 l'indice di produttività  considera l'occupazione al denominatore...quindi la revisione dei parametri per il conteggio della disoccupazione ( altro grafico fuorviante nella interpretazione dei "fatti" ) oltre che legge biagi ed altri fattori incidono pesantemente 

Quello che riporto mette le ore lavorate al denominatore, che mi pare la cosa giusta da fare: uno potrebbe voler lavorare meno se e' piu' produttivo (cioe' comprarsi "tempo libero" anziche' consumo con i guadagni di produttivita').

Altro grafico mal interpretato potrebbe essere quello sul lavoro autonomo...prima di trarre conclusioni da questo grafico ( tutti capitalisti e rentiers ! ) consiglio la sua lettura "allargata".

Da dove vengono i dati che riporti e cosa c'e' sull'asse verticale? Il dato per l'Italia qui e' la meta' di quello che riporto io, che e' definito del post.

Ho letto l'intervento e non ho la presunzione di averlo capito del tutto, tuttavia mi pongo delle domande

1) se la crisi e' "mondiale" che senso ha concentrarsi sull'Italia, che e' tutto sommato un paese marginale?

2) Se la capacita' di spesa degli US workers e' rimasta intatta, come mi pare di capire dai grafici e dall'articolo, perche' questi han smesso di pagare i mutui?

 

 

Giulio, mi dispiace davvero che non puoi partecipare alla Tenzone!

Contavo che come al solito, senza volerlo, mi dessi una mano.

In ogni caso lo hai già fatto. Basta aggiungere due ovvie parentesi alla frase:

 

questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro (in Cina) e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori (in America)

e i tuoi dati costituiscono un valido supporto alla tesi dei 100!

Fatta questa precisazione (che pensavo essere davvero inutile per chiunque abbia seguito l'evoluzione della crisi!) firmi anche tu?

Abbracci!

 

 

Quindi una maggiore spesa pubblica la trasferiremmo ai cinesi ? Se la capacità di consumo dei lavoratori occidentali è in declino, e cerchiamo di rafforzarla con robuste iniezioni di spesa pubblica stò dando soldi ai cinesi. O no?

Ma se i cinesi producono di piu` guadagneranno di piu`, o no? E cosa se ne fanno dei soldi, consumano o li mettono sotto il materasso?

Ugo, lo sai che sono sempre felice di dare una mano :-)

Ma le tue parentesi non bastano. La labor share in USA e' pressoche' costante a 2/3 da almeno il 1970 e la government share si e' ridotta, il che significa che la capacita' di consumo dei lavoratori americani e' cresciuta per 40 anni, mediamente, a un tasso di crescita superiore a quello del PIL.

ohmioddio Ugo, davvero sara' questa la tua teoria? Ohmioddio ....

No dai, cambia idea, davvero.

Abbracci.

 

 

Interessante il tipping point sull'indice di produttività, dove sembra proprio che dal 2001 in Italia qualcuno abbia combinato qualche grosso pasticcio...

 

Visto che:

 

l'indice di produttività del lavoro [...] rappresenta l'andamento del valore aggiunto lordo a prezzi costanti per ora lavorata per l'economia nel suo complesso.

 

e che il tipping point della produttività in Italia (fig. 1) è sovrapposto a quello della government share (fig. 5), io porrei 2 domande concatenate:

1) sbaglio o se aumento la componente di lavoro dipendente "pubblico", che di valore aggiunto ne produce pochino, ottengo proprio quello stop brutale alla crescita della produttività che si è vista in Italia dalla seconda metà degli anni 90 a causa dell'aumento del denominatore, piuttosto che del calo del numeratore?

2) Se 1) è corretto, posso pensare che almeno parte delle spiegazioni che indicano in un apparato industriale vecchio e poco innovativo il principale responsabile del disastro italiano (as opposed ai mitici tedeschi che invece loro sì che hanno saputo interpretare al meglio la sfida della competitività globale), siano capziose e fuori bersaglio?

In altre parole, se aumento brutalmente la spesa pubblica e la spendo per assumere 1 milione di nuovi dipendenti pubblici che comunque forniscono grossomodo lo stesso livello di servizi di prima, forse diminuisco la disoccupazione (cosa che è effettivamente avvenuta in Italia), ma non producendo un maggiore valore aggiunto, mi ritrovo con una produttività complessiva minore. Poi, non avendo voglia di spiegare ai neodipendenti pubblici e più ancora ai privati a cui ho dovuto aumentare le tasse che questi lavori non sono altro che assistenzialismo, inizio a dire che gli imprenditori italiani non sanno fare il loro mestiere ed è colpa loro se la produttività del Belpaese non aumenta. Dove sbaglio?

Io tutta questa innovazione nei tedeschi non la vedo, vedo che, ad esempio, il loro segmento auto è orientato verso le macchine di segmento C e D (fascia alta), dove i margini sono più alti (tranne che per la Lancia Thesis: 5.000 € di perdita per ogni auto venduta..), ma dove l'innovazione è relativa (ed hanno anche modelli costati lacrime e sangue, come ad esempio la Maybach).

I tedeschi sono molto forti nella chimica e le materie plastiche, ma nella meccanica sono alla pari con gli italiani, hanno una buona produzione di acciai speciali, ma quella è frutto di una tradizione centenaria, comunque a livello discorsivo generico posso dire che i prodotti tedeschi si contraddistinguono per una migliore qualità intrinseca (alla pari di quella giapponese), ma non certo per l'innovazione.

Si fanno pagare la qualità (e fanno bene), ma non certo l'innovazione.

In altre parole, se aumento brutalmente la spesa pubblica e la spendo per assumere 1 milione di nuovi dipendenti pubblici che comunque forniscono grossomodo lo stesso livello di servizi di prima, forse diminuisco la disoccupazione (cosa che è effettivamente avvenuta in Italia), ma non producendo un maggiore valore aggiunto, mi ritrovo con una produttività complessiva minore. Poi, non avendo voglia di spiegare ai neodipendenti pubblici e più ancora ai privati a cui ho dovuto aumentare le tasse che questi lavori non sono altro che assistenzialismo, inizio a dire che gli imprenditori italiani non sanno fare il loro mestiere ed è colpa loro se la produttività del Belpaese non aumenta. Dove sbaglio?

modesto parere:

1° errore... partire nelle congetture da un "segnale grafico" . La divergenza dell'indice di produttività dell'Italia ( dati Ocse ) dal 2001 può avere diverse spiegazioni.

I grafici non sono i "fatti". Sono una loro parziale e limitata rappresentazione ( senza scomodare Schopenauer ) foriera di potenzialmente infinite illusioni ottiche.

L'indice di produttività OCSE ha al denominatore le ore lavorate. Fino al 2004 ( se non mi sbaglio ) l'indice di produttività Eurostat aveva al denominatore gli occupati  e produceva bellissime carte come quelle in questo documento 

 .. hanno introdotto il calcolo (stima) delle ora lavorate per conteggiare meglio il lavoro a tempo parziale ed ora segnalano che il dato è poco comparabile in confronti cross countries

 

"..Comparability of total hours worked is based on the application of the same concept and definitions (ESA 95) across countries. The full implementation of the ESA95 concept to hours worked is not yet fully achieved across all countries. Awaiting the full compliance of all Member States, figures for some countries are derived from the annual average of hours worked per worker as calculated by the OECD multiplied by total employment. This procedure affects also the comparability across countries..."

 

il mio sospetto è che anche il database OCSE che comunque dipende dai national account... possa indurre in qualche errore interpretativo delle comparazioni tra nazioni.

Come esempio incollo un grafico ricavato dai dati ocse della variazione di produttività, anno su anno, ( dati di gennaio, non aggiornati a oggi ) .

  

 

   

 

L'avreste  detto che in questa crisi la Spagna è er mejo ? :)

come dicevo... grafici fuorvianti da maneggiare con attenzione.

 

2° errore : cercare conferme a tesi predeterminate ( il giudizio sui dipendenti pubblici, mi sembra, questo si, un po' capzioso  ) costruendo ipotesi su dati inventati..

che la disoccupazione  sia "fittiziamente" diminuita dal 2001 grazie all'assunzione di un milione di dipendenti pubblici è un dato facilmente verificabile. Non è vero. punto

Utilizzando sempre i dati ocse ( per omogeneità )

9. Employment in general government and public corporations as percentage of labour force (1995-2005)

Italy 
199514,2%
200514,2%

 

 

Spero mi perdoni l'autore nel caso citi un suo testo a sproposito. Pero' mi piacerebbe capire come mai non trovi traccia nei dati riportati in questo articolo, limitatamente agli USA, della tesi di Phastidio del post

phastidio.net/2009/09/11/lamerica-si-e-rotta/

Riporto alcune frasi significative, invitando alla lettura integrale:

 

Pubblicato il rapporto annuale del Census Bureau su reddito e copertura sanitaria negli Stati Uniti. Tra le evidenze più interessanti, non tanto la diminuzione del reddito reale mediano delle famiglie (circostanza che si verifica ad ogni recessione), quanto il fatto che tale reddito reale, nel 2008, risulta inferiore a quello del 1999.  Gli anni Duemila si riveleranno il decennio in cui gli americani sono diventati più poveri. [...]

Il tasso di povertà è anch’esso al massimo dal 1997, al 13,2 per cento. Il numero di persone sotto la soglia di povertà è al massimo dal 1960, a 39,8 milioni. Questi dati si riferiscono al 2008, ed escludono quindi l’anno corrente, caratterizzato da continua distruzione di occupazione.

Riguardo la mancata crescita dei redditi reali in questo decennio, che si contrappone all’andamento esplosivo dei profitti (limitando lo sguardo alle imprese non finanziarie, in modo da depurare il dato dagli effetti della leva finanziaria che ha causato la bolla), questo è il problema della politica: la forte crescita della produttività non si è tradotta, in un arco temporale sufficientemente esteso, in crescita delle retribuzioni reali, come invece ci viene insegnato nei libri di testo. Imperfezioni dei mercati?

Questa è la conferma che compito del legislatore e della politica è quello di presiedere al corretto funzionamento dei mercati, che è cosa assai diversa dal benign neglect travestito da laissez faire che favorisce il consolidamento degli oligopoli e soffoca innovazione e creatività. Ed è proprio questa benevola trascuratezza che, dati alla mano, pare aver caratterizzato gli otto anni dell’amministrazione Bush.



 

Phastidio parla di diminuzione del reddito mediano, io ho parlato di labor share. Primo, il reddito mediano include anche il reddito non da lavoro. Secondo, il reddito puo' diminuire quando la quota sul PIL e' costante, basta che diminuisca il PIL come appunto avviene in recessione.

Sui profitti, la "capital share" che riporto non permette di vederli disaggregati.

Analisi molto interessante e circostanziata. Tuttavia vorrei porre una questione: mi sembra, francamente, che la distinzione labour/capital sia molto, molto semplicistica nel contesto economico attuale. Un banker, professional o CEO che prende svariati mega$ di compensi, è forse classificabile  come labour? cio è francamente grottesco. E scendendo la scala gerarchica, più modestamente, i vari bonus ed ESOP per dirigenti e quadri? E le milionarie fees o consulenze ad avvocati, etc? A me pare che queste siano, nella sostanza economica,  quote di "profitti": cinicamente, la "cresta" del croupier; più elegantemente, il profitto sul "capitale umano"- Ma a parte ciò (non è questo il punto che intendo  fare), a me sembra che la vera questione più che labour vs capital sia unskilled/skilled, laddove la mia congettura è la seguente: la globalizzazione ha reso  molto più concorrenziale il mercato unskilled, e provocato una forte sperequazione retributiva a vantaggio della componente skilled + redditi da capitale + redditi assimilabili al profitto, a scapito del labour properiamente detto. Che cosa ne pensa?

 

Ciò che mi sembra, da semi-profano, è che la distribuzione funzionale del reddito sia un feticcio solo per la parrocchia dei "100".

Un banker, professional o CEO che prende svariati mega$ di compensi, è forse classificabile  come labour? cio è francamente grottesco. E scendendo la scala gerarchica, più modestamente, i vari bonus ed ESOP per dirigenti e quadri? E le milionarie fees o consulenze ad avvocati, etc? 

La labor share che mostro include solo redditi da lavoro dipendente. Se sono CEO il loro reddito finisce li' dentro essendo dipendenti, ma se sono professionals (inclusi gli avvocati) no, quello e' reddito misto (da capitale e da lavoro) che viene convenzionalmente classificato nella capital share.

la globalizzazione ha reso  molto più concorrenziale il mercato unskilled, e provocato una forte sperequazione retributiva a vantaggio della componente skilled + redditi da capitale + redditi assimilabili al profitto, a scapito del labour properiamente detto. 

Questi dati non mostrano cosa sia successo all'interno della labor share, ma mostrano che non c'e' stata una forte redistribuzione da labor share a capital share.

 

 

C'e' da aggiungere a questo proposito che i dati sono distorti dai "profitti" delle piccole e medie imprese (soprattutto di tipo familiare). E' ovvio che un piccolo imprenditore potra' classificare la sua retribuzione sotto la voce dividendi oppure sotto la voce retribuzioni. Dipende dal vantaggio fiscale (o di altro tipo) tra le due soluzioni.

Esatto, tipicamente l'ing Brambilla della Bramibilplastic che fa 25 mn di fatturato si paga un bello sitpendio da AD, con auto aziendale e spese di rappresentanza, anche perchè comunque a parità di carico fiscale gli secca uscire con un utile troppo alto non foss'altro che per motivi sindacali, clienti che poi gli abbassano i prezzi, etc. E parlo naturalmente solo di cose del tutto legali / in chiaro, se aggiungo eventuale "nero" si crea un bias supplementare!

  

Raccolgo l'invito di Giulio a confrontarsi sui dati. Non mi focalizzo sulle cause della crisi,  ma sul tema piu' generale dell'interpretazione dei dati e sul metodo "scientifico" in Economia.
In particolare, vorrei mostrare come gli stessi dati si prestino a letture diverse ("modelli observationally equivalent", per esempio) e a conclusioni differenti da quelle tratte da Giulio (conclusione2), come chi lavora con i dati sa bene.

D'altronde noi economisti ci accapigliamo spesso non solo sulle teorie ma anche sull'interpretazione dei dati e sui metodi empirici da utilizzare (si veda l'ultima issue del JEL, per gli specialisti o i non
specialisti interessati). Si  citi ad esempio il dibattito su immigrazione e effetti sui salari dei nativi,
ma di esempi ce ne sono veramente molti. Mi focalizzo sull'Italia, per il suo valore esemplificativo:

 

Caduta (e risalita) labour share.

 La labor share negli ultimi trenta anni è stata pressoché costante in USA e UK, crescente in Giappone e in declino in Italia. Tuttavia in Italia la labor share è visibilmente aumentata negli ultimi 10 anni, proprio mentre la produttività del lavoro  ristagnava, il contrario di quello che si legge nella citazione riportata sopra.

Potrei rigirare la frittata, ovvero e' abbastanza intuitivo (per me) che in un paese con vincoli al licenziamento, e con maggiori regimi di protezione dell'impiego, la labour share tenda ad aumentare, o quanto meno non cada, quando la crescita della produttivita' rallenta o addirittura quando il PIL
cade (dopo la linea rossa). Invece, mi chiedo il motivo del perche' la labour share sia scesa in Italia per 30 anni consecutivi (dal 1970 al 2000) quando la produttivita' del lavoro  stava invece aumentando a ritmi superiori a quelli di tutti i paesi nel grafico 1  (prima del 2000). Inoltre
una labour share in caduta per 30 anni avra' pure un effetto maggiore di una "risalita" (direi molto piatta) negli ultimi 10 sulla "capacita' di spesa" dei lavoratori. Lo sa chi investe in borsa, dopo che un titolo e' calato per 30 anni,  difficile recuperare le perdite in 10. I mancati redditi sono anche mancati risparmi (e minore ricchezza accumulata) dei lavoratori (se non mancati
consumi grazie all'indebitamento, poi quando il consumo non e' finanziato dal risparmio ma dall'indebitamento sappiamo quali  sono i rischi che si corrono, nella realta'. Tra l'altro in Italia le famiglie tendevano meno che altrove ad indebitarsi mi pare,  semmai non  consumavano).

Labour share e capacita' di spesa dei lavoratori. La labour share mi sembra un migliore indicatore dell'andamento della "capacita' di spesa dei lavoratori" (sul PIL),  rispetto al salario orario.

Ad esempio, in recessione il salario orario potrebbe aumentare perche' i lavoratori piu' produttivi (o cone maggiore seniority) sono quelli non licenziati dalle imprese. Ovviamente, con l'aumento della disoccupazione la capacita' di spesa dei "lavoratori" si riduce. Quindi il salario orario potrebbe aumentare ma la "capacita' di spesa dei lavoratori" (diciamo di occupati e coloro che cercano un'occupazione) ridursi. Inoltre, la capacita' di spesa dipende dalle ore e giorni lavorati, non solo dal salario orario. Sempre per fare un esempio, se tra un anno esce un articolo dicendo che pure col blocco delle progressioni di carriera, dell'adeguamento ISTAT, ecc.. gli stipendi medi del personale universitario sono aumentati, cio' e' normale visto che le Universita' non hanno i soldi per dare contratti ai giovani precari, i quali avevano stipendi molto bassi ed abbassavano la media. Da questo non concluderei comunque che la capacita' di spesa di chi lavora in universita' sia aumentata.

Cause  (piu' o meno remote) ed effetti.  Con "C causa E" non si intende necessariamente
che "Ct causa Et" (C e E al tempo t, rispettivamente) o "Ct-1 causa Et" e cosi' via. Una dinamica molto pregressa potrebbe  causare un effetto ora (ad esempio la somma degli C negli ultimi 30 anni), o potrebbero manifestarsi degli effetti di soglia  (es. il deficit pubblico causa un problema solo
quando e' persistente, per cui si accumula un debito pubblico troppo elevato, per restare sul "vostro" terreno, oppure un individuo potrebbe morire di cancro ai polmoni, qui la toccata e' d'obbligo, dopo aver fumato 30 anni, non 2 anni).  Quindi correlare la crisi con quello che e' avvenuto immediatamente prima della crisi non e' necessariamente un buon espediente empirico per confutare una teoria (se uno ha fumato 30 anni, ha smesso da un anno, ed e' crepato, non si puo' dire che il fumo non ne abbia causato la morte perche' l'anno che e' morto non fumava piu'!).

Stessi dati, conclusioni diverse.

 

Non sono stati i (ben pasciuti, por supuesto) capitalisti e rentiers nostrani ad espropriare i  lavoratori italiani di 10 punti di PIL dalla fine degli anni 70 a oggi, ma sono stati i nostri governi.  Questo è evidente dall'esplosione della government share in Italia riportata nella figura 5.

 

Qui rigiro la frittata, e faccio l'avvocato del diavolo (in perfetto stile NFA). Dalla fig. 6 e' macroscopica (e meriterebbe 100 papers)  la maggiore incidenza del lavoro autonomo in Italia (+10 punti % dal secondo classificato).  Se gli individui sono razionali e rispondono agli incentivi del mercato, evidentemente in Italia e' piu' conveniente che altrove svolgere attivita' di lavoro autonomo rispetto a quella di lavoro dipendente. Avanzo un'ipotesi: in Italia i redditi netti degli autonomi sono maggiori e la ragione e' che in Italia e' piu' facile che altrove evadere il fisco da lavoratori autonomi (per questi l'equivalenza ricardiana ovviamente non vale). Allora potrei
concludere che sono stati i lavoratori autonomi non pagando il dovuto negli ultimi 30 anni (causa) a non consentire allo Stato di ridurre la pressione fiscale generale (effetto), la quale ha espropriato i lavoratori dipendenti italiani di 10 punti di PIL dalla fine  degli anni 70 a oggi  (lo so, e' un po' il gatto che si morde la coda, ma sul rapporto causa-effetto ci sarebbe molto da dire se fosse cosi' facile non avremmo piu' lavoro). Oppure potrei egualmente concludere che e' stato lo Stato, lasciando troppa liberta' ad alcuni cittadini di non pagare le tasse (a differenza della patria del liberismo, gli Stati Uniti, dove chi non paga va in galera), che ha ridotto la crescita del PIL
(lo so, lo so, le tasse pagate in aggregato sarebbero le stesse, ma gli effetti potrebbero essere molto diversi se gli individui sono eterogenei, o se la distribuzione del reddito conta per la crescita, ma questo "voi" di NFA sembrate escluderlo a priori, mi sembra). Ciascuno scelga la causa che piu'
gli garba.


Cross plot, scatter plot e teorie fantasiose (sull'evidenza empirica e le "facili teorie")
. I grafici riportati, tra l'altro, darebbero pure appiglio al gruppo degli Euro scettici in Italia (che non mi annovera tra i suoi supporter, specifico che gia' cosi' rischio il linciaggio mediatico in "casa" NFA!). Sembra che per l'Italia, infatti, la crescita del VA orario, prima del 2000 tra le piu' elevate ('na bomba praticamente),  si sia azzerata con l'entrata nell'euro. Ma che mica mica la scasa crescita sia colpa dall'euro???? Mi fermo qui, anche se alcune regressioni preliminari, in cui ho correlato VA per addetto, redditi orari, labour share a temperature medie, provano senza ombra di dubbio che tutto possa essere spiegato.....dal buco nell'ozono.

P.S. se non ci si mette d'accordo sulle cause della "grossa crisi", possiamo chiedere a lui, tu come lo vedi?

P.S.2 staro' sicuramente confondendo qualcosa.

Se gli individui sono razionali e rispondono agli incentivi del mercato, evidentemente in Italia e' piu' conveniente che altrove svolgere attivita' di lavoro autonomo rispetto a quella di lavoro dipendente. Avanzo un'ipotesi: in Italia i redditi netti degli autonomi sono maggiori e la ragione e' che in Italia e' piu' facile che altrove evadere il fisco da lavoratori autonomi

Se quello che dici e' vero, quando la pressione fiscale aumenta dovremmo vedere incrementi nella quota di self-employed sul totale dell'occupazione: quando aumenta il beneficio di evadere, ti trasformi piu' volentieri in lavoratore autonomo. Negli anni '80 la pressione fiscale e' aumentata di circa 12 punti percentuali. Ma la figura 6 mostra che la quota di lavoratori autonomi e' sostanzialmente piatta. La quota che invece aumenta negli anni '80 (circa nella stessa proporzione) e' la percentuale di spesa pubblica sul PIL.

1) Era un'ipotesi, non la mia ipotesi. La tua spiegazione alternativa, per spiegare le differenze cross-country, qual e'? Forse che l'Italia e' l'unico tra i paesi riportati nel grafico dove c'e' una maggiore preferenza per il lavoro autonomo (eterogeneita' nelle preferenze), di ben 10 punti percentuali. Questo tradisce un po' lo spirito di NFA che gli individui rispondono agli incentivi.

2) Presumo che ci siano pure dei limiti alla capacita' degli individui di passare con disinvoltura da un settore all'altro. Ad esempio in alcuni settori, ed alcune professioni, l'offerta e' vincolata. In altre, si trasmette da padre in figlio. Inoltre, generalmente avviare attivita' di lavoro autonomo richiede dei capitali iniziali, che non tutti hanno.

(e due...risposta a Giuseppe Bottacin, 29 Giugno 2010, 19:30, ma non riesce nelle modifiche a modificare la posizione dei posts??)

Beh, allora abbiamo scoperto l'arcano (incidenza elevata di lavoro autonomo):

1) quando scelgono il tipo di lavoro, in Italia gli autonomi guardano i redditi correnti e non scontano il flusso attualizzato dei redditi futuri, ivi comprese le future pensioni che riceveranno (eh eh....);

2) in realta' hanno ragione a non scontare le pensioni, perche' pure i dipendenti non le riceveranno (sig....).

Scherzo, hai fatto sicuramente bene a fare il lavoratore autonomo! Certo, non sono tutti gli autonomi  a non pagare le tasse, ma spero che concorderai con me che da dipendente e' proprio difficile non pagarle. Il calcolo corretto (per individui forward-looking), per valutare la convenienza o meno di una professione rispetto ad un'altra dovrebbe considerare tutti i redditi futuri attesi, anche appunto le pensioni, non basarsi semplicemente sull'ammontare dei contributi pagati (o sul netto ricevuto ora). Questo e' quanto predice l'economia mainstream. Come vedi tra modelli economici e realta', qualche volta c'e' un gap.

 

 

1) quando scelgono il tipo di lavoro, in Italia gli autonomi guardano i redditi correnti e non scontano il flusso attualizzato dei redditi futuri, ivi comprese le future pensioni che riceveranno (eh eh....);

 

Non è così. Le pensioni di Inarcassa (la cassa di previdenza di ingegneri e architetti) sono uguali o meglio di quelle INPS (non ho tempo per recuperare i dati, ma non dovrebbe essere difficile).

Non nego che il tuo punto 2 mi ha semplificato ulteriormente la scelta, ma il punto principale è che con l'allora 8% la cassa degli ingegneri riusciva a pagare le pensioni e a essere in attivo. Poi negli anni 90 hanno imposto una parziale "fusione" con l'INPS (credo riguardasse alneno in parte il patrimonio, ma non la platea dei destinatari delle pensioni) e sono iniziati gli aumenti graduali dei contributi, che oggi sono al 12% ed è appena arrivata comunicazioni che verranno portati al 14%.

Credo che il "trucco" sia che l'ingegnere medio lavora finché può. Molti liberi professionisti continuano a lavorare fino alla morte.

L'INPS deve pagare la pensione anche a mia zia, che ha insegnato lettere dai 26 ai 41 anni e da allora viene mantenuta dallo stato.

La mia situazione è grossomodo equivalente a tutte le casse previdenza dei liberi professionisti.

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Sul perché i salari italiani siano più bassi di quelli dei paesi europei comparabili, non credo c'entrino differenze nella qualità media della produzione.

La responsabilità è dell'assurdo contratto nazionale. Le differenze fra diversi livelli di inquadramento sono ridicole. La progressione di carriera tipica di un impiegato va dai 1000 euro ai 1500-1700.

E' vero che è possibile dare i "superminimi", ma il fatto che di base il contratto nazionale preveda una paga miserrima e un aumento offensivo quando qualcuno viene promosso costituisce un potente freno psicologico al chiedere un aumento proporzionato all'aumento delle competenze.

 

Ho vissuto anche questo in azienda quando ho contrattato il compenso del mio terzo anno e sono stato paragonato al costo aziendale di un collega dipendente di assoluta eccellenza, la cui produttività era senz'altro molto sopra la media, ma il cui salario era molto basso, dato che lui non aveva ritenuto opportuno "metterla giù dura" con l'ufficio personale, visto che gli davano comunque (un po' di) più di altri colleghi meno bravi. Io avevo contatti quotidiani con colleghi stranieri, ma lui non aveva altri termini di paragone che lo stipendio di altri ingegneri italiani, per cui non si rendeva neanche conto di quanto poco si faceva pagare in rapporto a quanto produceva.

 

Mio padre mi diceva che non era così prima degli anni 70, neo senso che la progressione c'era.

Personalmente penso che le basse paghe italiane siano l'effetto dell'integrale dei compromessi tra le richieste dei sindacati e di confindustria dal 1970 in poi, considerando la condizione al contorno principale: il contratto di categoria su base nazionale.

Vado fuori tema, ricollegandomi alla prima sezione dell'articolo e non ai successivi, non perché non li abbia letti, ma perché le opinioni dei millanta economisti della famosa lettera non mi interessano granché.

Mi chiedo: che relazione c'è tra fatti e teorie nella teoria economica (e nelle teorie sociali in generale)? Parlo di relazione reale, frutto delle attività quotidiane di economisti veri, non di lip service a qualche paradigma metodologico alla moda.

Secondo me la compatibilità con i fatti è una cosa abbastanza semplice da ottenere: basta avere una base teorica sufficientemente flessibile per poter inglobare, con qualche ipotesi aggiuntiva, con qualche modifica funzionale, o con qualche cambiamento parametrico, i dati che si devono spiegare.

Mi spiego: se dico "non ci sono recessioni inflazionistiche" dico una cosa falsificabile e, dagli anni '70 in poi, palesemente falsificata. Di conseguenza la mia tesi non è solo falsificabile, ma anche falsa. Se invece dico "le crisi possono essere sia inflazionistiche che deflazionistiche" faccio un'affermazione senza contenuto informativo, che è vera sempre per motivi prettamente logici.

In mezzo ci sono tutte le teorie economiche, però: qualcosa dicono, ma riferendosi a decine di fattori causali rilevanti, è sempre possibile evitare di essere falsificati cambiando qualche dettaglio. Se un modello non va bene, faccio maquillage e ne ottengo uno che ingloba nuovi fatti, che poi modificherò ulteriormente all'arrivo di nuovi fatti. Questa critica è stata fatta da David Romer nel suo libro di testo riguardo i new-keynesiani, ma mi sembra applicabile sempre.

Io - da austriaco - non ci metto niente a formulare ipotesi in cui una qualsiasi tesi è vera o falsa a seconda di cosa voglio dimostrare, con tutte le pressioni inflazionistiche e deflazionistiche che ci sono è facile fittare i dati, basta dire che di (almeno) due forze contrapposte una si è (relativamente) indebolita o rafforzata. I prezzi salgono? Ah, la scarsità di fattori di produzione. I prezzi scendono? Ah, il deleveraging. I prezzi stanno fermi? Ah, le due forze si bilanciano, ma io ho ragione comunque, è solo che l'effetto è inosservabile.

E se dicessi che la teoria delle aspettative razionali è stata falsificata dalla crisi del 1980-1983, mi si risponderebbe che non è vero: mancava la credibilità dei governi, senza riforme fiscali vere la disinflazione non era credibile e quindi costosa in termini reali. Anche qui, si può sempre salvare la situazione.

L'esempio però più lampante è la neutralità monetaria. Il paper di Christiano, Eichenbaum e Evans sul VAR è considerato la prova della non-neutralità monetaria. Ma no!, dicono King e Plosser, le stesse correlazioni si trovano pure senza supporre la non-neutralità, basta endogenizzare la produzione di moneta. Poi arriva Mankiw (credo) e dice che i prezzi non si muovono nel modello come nella realtà (pazienza, dico io, cambiamo due equazioni, no?). E allora Prescott e Kydland rispondono che la critica in questione è solo un mito monetario e non un fatto reale. Infine arriva Gali, fa un libro di testo sui new-keynesiani, e critica la teoria del ciclo reale per non fittare i dati di Christiano, dimostrandolo usando un modello di money-in-the-utility, senza citare neanche King e Plosser (il che mi fa pensare che la refutation by amnesia sia più facile di quella by facts).

Io, da spettatore, ho come l'impressione di trovarmi di fronte a tizi che si parlano addosso. Da economista dilettante però mi rendo pure conto che è un problema riconosciuto da molti che la realtà economica è troppo complessa per permettere facili confutazioni, e quindi alla fine i cranks sopravvivono sempre, e ricicciano non appena si abbassa la guardia. Ma senza fatti, cosa distingue chi è "crank" da chi non lo è?

Fosse tutto così semplice come confutare la lettera degli economisti... mi sembra che ciò che era falsificabile è già stato falsificato.

"a seconda di cosa voglio dimostrare" (sono su IE al momento e blockquote non funziona, chiedo venia)

Una scienza, naturale - e quindi scienza in senso stretto - o sociale che sia non si deve occupare di cosa vuole dimostrare, ma di capire e spiegare il fenomeno che studia. E' chiaro che nelle scienze naturali si ha, in generale, la falsificabilita' e allora tutto e' piu' semplice (sebbene l'esempio di Lakatos nel commento di Astrologo qui sopra dimostri la possibilita' del contrario). Ma lo scopo ultimo non cambia: cercare di capire il fenomeno.

Nelle scienze sociali la linea d'ombra e' spesso difficile da identificare, non foss'altro per il fatto che qualsiasi teoria ha un possibile impatto sulla vita delle persone.

A me pare che qui Giulio - e gli altri in altri articoli - usino argomentazioni proprio di questo genere: cercano di capire (cioe' si comportano da scienziati) invece di cercare di dimostrare qualcosa a priori (cioe' non si comportano da politici). Mentre gli "economisti" fanno l'opposto. (In realta' taglio in modo troppo netto: Giulio e compagni non sono necessariamente perfetti, mentre gli "economisti" non sono necessariamente disonesti - vedi gli interventi di Ugo Pagano qui sopra.)

 

Secondo me la compatibilità con i fatti è una cosa abbastanza semplice da ottenere: basta avere una base teorica sufficientemente flessibile per poter inglobare, con qualche ipotesi aggiuntiva, con qualche modifica funzionale, o con qualche cambiamento parametrico, i dati che si devono spiegare.

Mi spiego: se dico "non ci sono recessioni inflazionistiche" dico una cosa falsificabile e, dagli anni '70 in poi, palesemente falsificata. Di conseguenza la mia tesi non è solo falsificabile, ma anche falsa. Se invece dico "le crisi possono essere sia inflazionistiche che deflazionistiche" faccio un'affermazione senza contenuto informativo, che è vera sempre per motivi prettamente logici.

 

Io direi che è più facile sfuggire alla falsificazione. Chi vuole difendere aprioristicamente una teoria T che implica una previsione X falsa di solito introduce una o più ipotesi ausiliarie I, per cui

T & I ==> X 

in modo che è possibile scaricare la falsificazione su I per salvare T.
Sebbene sia un atteggiamento furbo non è detto che debba essere sbagliato. L'orbita di Urano, che non si accordava con la legge gravitazionale e con la meccanica di Newton, fu spiegata dalla presenza di un pianetino perturbatore allora ancora sconosciuto. Ed infatti c'è e si chiama Nettuno.

Non tutti i fatti contribuiscono allo stesso modo in una falsificazione o in una conferma. Prevedere i fatti è condizione necessaria ma non suffucuente affinchè una teoria sia una buona teoria. Ci sono teorie che predicono fatti banali e, in questo senso, possono essere assimilate alle tautologie, cioè sono prive di contenuto informativo pur avendo un contenuto empirico.
L'approccio che cattura meglio questa complessità è forse quello Bayesiano, per cui una teoria è confermata se p(T|X) > p(T) (nota, se p(X)=1, non c'è conferma). In questo modo, invece della dicotomia vero/falso esistono un'infinità di sfumature che colgono meglio il potere di una teoria di rappresentare la realtà.
Inoltre, se p(T & I | X)=0 cioè T & I sono falsificati, si può dimostrare come la falsificazione possa agire molto asimmetricamente su p(T) e p(I) singolarmente, salvando una e bocciando l'altra, ma andiamo troppo OT...

 

Ma cosa vi fumate quando, al contrario di noi, non vi passate le serate bevendo limoncello di qualità?

Qualcuno ha detto: è successo X. Nei dati disponibili X NON è successo.

I modelli non c'entrano, non c'è nulla da interpretare. Se X FOSSE stato confermato dai dati sarebbe valsa la pena discutere di modelli consistenti con X, che sono probabilmente svariati.

Ma X, nei dati disponibili, non c'è.

Fine della discussione. Rimangono solo tre alternative:

- trovate altri dati che evidenzino che X è successo;

- ridefinite X come X' e controlliamo se X' è riflesso nei dati;

- smettete di fumarvi robaccia e provate a studiare.

Quando avete finito, il limoncello è a carico nostro.

Ma cosa vi fumate quando, al contrario di noi, non vi passate le serate bevendo limoncello di qualità?

Evidentemente "i fatti" sono coloro che hanno fumato troppo la sera e prendono fischi per fiaschi...

Per quanto mi riguarda, il discorso era riferito alla pratica di cambiare le ipotesi iniziali con altre ad hoc, p.es. in questo intervento:

Giulio, mi dispiace davvero che non puoi partecipare alla Tenzone!

Contavo che come al solito, senza volerlo, mi dessi una mano.

In ogni caso lo hai già fatto. Basta aggiungere due ovvie parentesi alla frase:

 

questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro (in Cina) e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori (in America)


Saluti.

 

p.s. io fumo solo Davidoff Classic

p.p.s. che immagine triste la rimpatriata di paisa' con il limoncello.

Nel mio piccolo, ho fatto il seguente (forse maldestro?) tentativo, appunto, di ridefinire X come X', in un mio post l'altro giorno, che riproduco in calce per semplicità e che ho qualificato come congettura in quanto non ho avuto occasione di verificare i dati (prometto che studierò di più in futuro, però)

Analisi molto interessante e circostanziata. Tuttavia vorrei porre una questione: mi sembra, francamente, che la distinzione labour/capital sia molto, molto semplicistica nel contesto economico attuale. Un banker, professional o CEO che prende svariati mega$ di compensi, è forse classificabile  come labour? cio è francamente grottesco. E scendendo la scala gerarchica, più modestamente, i vari bonus ed ESOP per dirigenti e quadri? E le milionarie fees o consulenze ad avvocati, etc? A me pare che queste siano, nella sostanza economica,  quote di "profitti": cinicamente, la "cresta" del croupier; più elegantemente, il profitto sul "capitale umano"- Ma a parte ciò (non è questo il punto che intendo  fare), a me sembra che la vera questione più che labour vs capital sia unskilled/skilled, laddove la mia congettura è la seguente: la globalizzazione ha reso  molto più concorrenziale il mercato unskilled, e provocato una forte sperequazione retributiva a vantaggio della componente skilled + redditi da capitale + redditi assimilabili al profitto, a scapito del labour properiamente detto. Che cosa ne pensa? 

chiedo scusa a chi mi ha rivolto domande (direttamente o meno) per non aver ancora riposto: sono in apnea per un paio di giorni, ma rispondero'. grazie.

Dopo avere visto i vari commenti ho riletto lo stimolante articolo cercando anche di ampliare alcune ricerche e sono pervenuto ad alcune conclusioni :

I dati dei grafici , se non dichiarata altra sorgente , provengono dalle tabelle EUROSTAT.

--- trarre conclusioni dai grafici delle shares riportate mi pare incauto : le shares rappresentano somme di componenti non omogenei , i.e.:

 

Labor = retribuzioni lorde + contributi a carico del datore di lavoro

Capital = risultato di gestione netto + depreciations

Government = tasse / ( produzione e importazioni ) - sussidi alla produzione

Vedere in fondo la ricostruzione delle componenti di cui sopra. ( tabella 1 ) 

--- Conclusione 2.

Non sono stati i (ben pasciuti, por supuesto) capitalisti e rentiers nostrani ad espropriare i lavoratori italiani di 10 punti di PIL dalla fine degli anni 70 a oggi, ma sono stati i nostri governi. Questo è evidente dall'esplosione della government share in Italia riportata nella figura 5


Dissento

Se si guardano gli andamenti delle shares dividendo per la government shares le tasse e dai sussidi alla produzione  (fig 1 ) si vede che il calo della labor share è stata sì colpa del governo ma non attraverso l'aumento delle tasse bensì molto indirettamente attraverso la riduzione dei sussidi.  Le tasse sono rimaste sostanzialmente costanti.

Se dal 75 al 96 labor e capital avessero mantenuto costanti le loro parti in valore ( con rivalutazione secondo il PIL ) le share % sarebbero calate per entrambi : invece il labor è calato ed il capital è rimasto sensibilmente costante.Ciò che il capital perdeva in sussidi lo recuperava togliendo share al labor.Il meccanismo è spiegato in fondo dalla tabella 2.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                FIG 1

 

--- Per quanto riguarda le variazioni di share labor e capital sono riuscito a costruirle , divise nelle componenti di primo ordine ,  dal 2003 al 2009 ( FIG 2 ) :                                                                                                                                                                                                                                                                   TAB 2

FIG 2

La LABOR share saliva nel periodo di 2,7 punti ( 40,2--->42,9)

Dalle componenti si vede che le retibuzioni lorde sono aumentate solo di 2,2 punti : l'altro mezzo punto è costituito da aumento dei contributi sociali a carico del datore di lavoro.

Analogamente il CAPITAL è diminuito di 2,3 punti ( 47,0 ---> 44,7 ) realizzato con una diminuzione del CAPITAL NETTO di ben 4,3 punti ed un aumento delle DEPRETIATIONS di 2 punti.

Non avrei mai detto che in ITALIA gli investimenti fossero in aumento. ( gli ammortamenti seguono con qualche ritardo l'andamento degli investimenti.                                                              

Per curiosità ho voluto vedere gli andamenti in Europa. ( FIG 3 )

Italia e Germania hanno la share più alta che denota la loro vocazione manifatturiera.Nel grafico dell'Italia fra il '75 e l''85 si vedono le perturbazioni dovute alle varie "Visentini".In Italia le depreciation sono in aumento con la stessa pendenza della Francia , che parte più bassa.Per UK si vede il passaggio negli anni '90 da un'economia manifatturiera ad una di servizi.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                            FIG 3

 

Continua ( non riesco più a scrivere sotto fig 3 )

--- Le tasse non hanno colpito le shares lorde ma con i contributi personali hanno massacrano il lavoro.

Da : 

RGE 2009 e RUEF 2010 dati x 2008

Http://www.tesoro.it/documenti/open.asp?idd=24392 e http://www.tesoro.it/documenti/open.asp?idd=24353

e da : http://www.finanze.gov.it/stat_anticipazioni2008/stat_2008.htm

nel 2008 il gettito contributivo ammontava a 215,9 di cui a carico LD 48,8 mld.

Il gettito fiscale ammontava a 456,2 mld che cerco di attribuire al meglio :

--- governement share : 221,1

--- IRE lavoratori dipendenti 91,4 ( comprese addizionali ) miliardi 

---  IRE lavoratori autonomi 28,1 ( comprese addizionali ) miliardi

La FIG 4 mostra il risultato ( gross e gross before personal taxes and social contributions in valore si possono dedurre dalla tabella 1 :                                                                                                                                                                                                                                                                                              FIG 4

 

TABELLA 1 ( controllo corrispondenza dati in % Eurostat con dati in valore 2008 da RGE 2009 )

Tabella 2 - meccanismo di trasferimento della perdita per diminuzione dei sussidi dal capital al labor.( L'esempio costruito ad hoc concentra il processo ( ipotesi PILy2 = PIL y1 ).

 


 

 

a) labor e capital si sobbercano prioporzionalmente la sospensione dei sussidi

b) capital mantiene invariata la sua share


 

 

Ottimo lavoro, lallo, grazie.

Pero' la conclusione non cambia. Cioe', tu dici:

Se si guardano gli andamenti delle shares dividendo per la government shares le tasse e dai sussidi alla produzione  (fig 1 ) si vede che il calo della labor share è stata sì colpa del governo ma non attraverso l'aumento delle tasse bensì molto indirettamente attraverso la riduzione dei sussidi. 

Il fatto che il governo abbia ridotto i trasferimenti alle famiglie vuol dire che si e' tenuto una fetta piu' grande per i propri consumi. Cambia la sostanza?

 

anche l'iri sottoscrivo se servisse: perché l'iri del dopoguerra non era il carrozzone degli anni '80 e quindi mi interesserebbe capire come poter recuperare l'efficacia del primo evitando le storture del secondo (credo nel pubblico e nei civil servants pur riconoscendo che l'italia esprime quanto di peggio nel primo caso e quasi niente nel secondo....suppongo starai sogghignando beffardo e sconsolato). ribadisco: non vado per nulla in difficoltà a evocare l'iri al cospetto di chi inneggia alla riforma gelmini; se slogan contro slogan ha da essere....beh meglio l'iri!

 

Verissimo che il primo iri era diverso dal secondo.  Come si fa ad avere il primo ed evitare il secondo? semplice, non è dato in natura se il modello è quello di petrilli-saraceno e non quello di beneduce. I primi tirarono fuori la teoria dell'onere improprio. Con quel meccanismo l'agente IRI dice al capataz di turno: che ti serve? Un acciaieria ad alta quota? Una fabbrica di panettoni sottomarina? Una fabbrica specializzata in pettinini decorati da perline colorate? No problem: è destinata ad operare in perdita per x, basta che poi qualcuno caccia fuori esattamente quell' x. Naturalmente dalla sommatoria degli x viene fuori un mostro inguardabile e col trascorrere del tempo anche ingestibile. I principali (i politici) hanno tutto l'interesse a far si che l'agente vada da loro con il cappello in mano, diventa più docile. L'agente (il singolo manager) si può rifiutare di eseguire, mna allora perde il posto e avanti un altro (la fila è lunga). Poichè chi chiede quelle cose (in realtà i richiedenti sono parecchi e quindi di favori bisogna farne tanti) è anche quello che nomina, chi vuole massimizzare la probabilità di essere rinominato fa favori a destra e manca. Certo uno potrebbe sostenere che il modello è quello beneduce: se l'iniziativa produce una perdita x non si fa, punto e basta. Ho però la sensazione che non sia precisamente questo il modello d'intervento pubblico che ha in testa chi propone la riesumazione del cadavere.

Cerchiamo di evitare atti di necrofilia: il mostro è scomparso, per fortuna del cielo. Volerlo riportare in vita dimenticando quello che è stato, perchè lo è stato, è un atto di sadismo che questo sciagurato paese non merita.

 

riporto parte del risvolto di copertina del libro di Mucchetti "LICENZIARE I PADRONI"

Tra il 1986 e il 2001, la Fiat, primo gruppo industriale del paese, ha distrutto ricchezza per 27.000 miliardi di lire, la Montedison per 9.000, la Olivetti per 14.000, la Pirelli per 4.000. Contrariamente ai pregiudizi, lo Stato imprenditore può vantare ottimi risultati: l’Eni ha creato ricchezza per 66.000 miliardi, l’Enel per 13.000, la Telecom, addirittura, per 94.000 miliardi di lire; ma ha avuto il vantaggio del monopolio, e dunque non rappresenta il modello vincente” (“Licenziare i padroni?”, dal risvolto di copertina)

Trovo che in questo sito si disquisisca come se l'Italia fosse un paese normale.

Qualcuno ricorda la Telecom di Rossignolo ( era ancora in monopolio ) ed ha il coraggio di paragonarla a Telecom IRI.

Molte aziende ex-IRI dopo la privatizzazione hanno smesso di investire perchè i nostri prenditori privati vogliono solo cash-cows

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Ho trovato un commento di Antonella Stirati piuttosto critico nei confronti di questo articolo. Contesta la modalità di calcolo per i redditi e respinge le conclusioni di Zanella. Se si potesse avere un chiarimento mi sarebbe d'aiuto per capirci un pochino di più. Qui sotto il link.

economia e politica

 

 

 

 

Ho trovato un commento di Antonella Stirati piuttosto critico nei confronti di questo articolo. Contesta la modalità di calcolo per i redditi e respinge le conclusioni di Zanella. Se si potesse avere un chiarimento mi sarebbe d'aiuto per capirci un pochino di più. Qui sotto il link.

economia e politica

 

Ho letto l'articolo di A.Stirati e mi sembra del tutto sensato. C'e' un punto tuttavia che mi insospettisce: l'autrice svicola completamente (non calcola, non commenta) sulla parte di PIL consistente nelle tasse del governo al netto dei sussidi, la "government share" di Giulio, e si limita a considerare solo come si divide il PIL dei fattori (PIL al netto dell'intermediazione statale) tra lavoro e rendite.

L'articolo è CONFONDE quattro cose:

- La distribuzione funzionale del reddito con la disuguaglianza del medesimo tra individui;

- I cicli nella distribuzione funzionale del reddito con il trend della medesima;

- Come attribuire la quota di "reddito da lavoro" degli autonomi;

- L'affermazione fatta da Giulio, e che io condivido, secondo cui lo stato ha "preso" dal fattore debole ed immobile (il lavoro) e non dal fattore forte e mobile (il capitale).

Poi ci sono anche giochetti da quattro soldi con i numeri, ma questi per essere chiariti richiedono un articolo dettagliato.

Siccome richiede tempo spiegare ai non addetti ai lavoro dove la Stirati fa il gioco delle tre carte, la cosa non si può fare in modo sommario in un commento. Vediamo se Giulio ha del tempo e ci si torna sopra di nuovo.

Comunque no, non è convincente quanto scrive, tutto al contrario. Palesa una confusione non consona ad una che è nientepopodimenoche professore ordinario ...

 

Grazie per la segnalazione, Nicola.  Preparo un post ASAP, spero questa settimana: la questione e' molto interessante.

Ultimamente mi è capitato di leggere un paper di Maffezzoli, in cui calcola la labor share (Fig. 5, pag. 12) e conclude che non è costante (l'argomento principale del paper è altro, comunque). Non so.

Ma per definire trend e ciclo non si dovrebbero fare analisi dei dati a piu' lungo termine, e usando tecniche piu' avanzate che non "guarda il grafico"?