Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito. Parte 2

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Dove si discute dello step concettuale a monte della tesi di "euro-exit", ossia quello che spiega la caduta della domanda nel settore traded (e quindi poi la caduta di produttività, vedi Parte 1) in Italia con un eccesso di apprezzamento del nostro tasso di cambio reale. In conclusione si discute anche delle possibili cause della crisi dell'euro e del ruolo delle imperfezioni nel mercato del credito nello spiegare la stagnazione italiana.

Un passo indietro. Lo Step 1 della tesi post-keynesiana su euro-exit.

Nonostante quanto chiarito finora, assumiamo comunque che sia valida l’ipotesi che nel lungo periodo la crescita del PIL in equilibrio causi la crescita della produttività. Questa implicazione emerge in modelli con rendimenti crescenti nell’aggregato, o perché, ad esempio, esiste una qualche forma di learning-by-doing.[1] Non solo. Digeriamo anche che il reddito sia determinato dal lato della domanda nel lungo periodo, così che la domanda determina anche la produttività nel lungo periodo. Cioè dimentichiamoci di tutte le critiche precedenti. Veniamo allo step 1 della tesi su euro-exit. Lo ricordo per comodità qui sotto:

 

Step 1: introduzione Euro --> shock negativo di domanda (nel settore traded)

 

Secondo lo step 1, l’introduzione del cambio fisso avrebbe determinato un persistente shock negativo di domanda (nel settore traded). Quindi, se diamo per buono lo step 2, la contrazione della domanda avrebbe poi comportato una contrazione del reddito, che a sua volta ha comportato una contrazione della produttività.

Tornando allo step 1, il punto ovviamente è: perchè l’introduzione dell’euro (inteso come passaggio da cambi flessibili a fissi) avrebbe determinato uno shock negativo di domanda?

Le ipotesi al proposito sono diverse. Ne elenco tre.

  • Primo, il sentiero di transizione all’euro ha comportato politiche monetarie e fiscali di austerità (deficit/Pil al 3%, riduzione dell’inflazione, etc..) che hanno ridotto la domanda aggregata.
  • Secondo, il cambio da lira a euro ha causato un incremento esogeno (una tantum) del livello generale dei prezzi, con conseguente caduta della domanda.
  • Terzo, il cambio nominale lira-euro ha comportato, per dati prezzi relativi, un apprezzamento iniziale eccessivo del tasso di cambio reale. Questo eccesso iniziale di apprezzamento reale ha eroso la competitività del settore export, contraendo la capacità di espansione sui mercati internazionali, e quindi la domanda estera.

Di seguito tralascio le prime due ipotesi. La prima perchè suppone che la causa della contrazione della domanda sia l’austerità fiscale, cioè qualcosa di logicamente diverso dalla fissazione del cambio.[2] La seconda (“con l’euro è aumentato tutto”) perchè è stata discussa a lungo nei primi anni della moneta unica. Con la conclusione che il presunto aumento discreto nel livello dei prezzi è stato in realtà ampiamente ridimensionato nei dati. In ogni caso, sono passati 13 anni da allora e, secondo questa teoria, l'effetto maggiore avrebbe dovuto esserci al momento dell'introduzione dell'euro e avrebbe dovuto essere decrescente nel tempo. Impossibile pensare che la recessione in corso e il rallentamento di produttività che andiamo osservando da un decennio sia dovuto ad una caduta di domanda che sarebbe avvenuta nel 2000 con la sua intensità massima.

Veniamo quindi alla terza supposta causa di una contrazione della domanda: lo squilibrio nel tasso di cambio reale.[3] Questa tesi va riespressa nel modo seguente.

(i) Un tasso di cambio eccessivamente apprezzato ha causato una caduta di competitività del settore dei beni commerciabili (traded), perciò una contrazione della domanda estera, e quindi una caduta della produttività nel settore traded.

(ii) La contrazione della domanda nel settore traded ha dirottato la domanda nel settore non-traded (servizi, eccetera). In questo settore, però (nonostante un plausibile incremento della domanda) la produttività non è salita, perché le riforme del mercato del lavoro introdotte in Italia a partire dal 1997 avrebbero favorito verso quel settore un flusso di lavoratori a bassa produttività.

La contrazione aggregata della produttività è quindi il risultato di (i) + (ii). La parte più controversa di questa tesi è la (i), cioè quella che riguarda il settore traded. È riformulabile così:

  • a) rivalutazione iniziale eccessiva del tasso di cambio reale 
  • b) caduta domanda nel settore traded →
  • c) caduta produttività settore traded.

Alcuni spunti di questa tesi sono plausibili e interessanti, anche se ben noti.[4] Ad esempio, l’effetto composizione tra settore traded e non-traded come motore della dinamica della produttività. Non interessa per ora discutere questo punto. La chiave di tutto, e da cui quindi muove tutta la tesi di euro-exit, è che la causa primaria sia la fissazione del tasso di cambio nominale (e quindi anche reale, per dati prezzi iniziali o rigidi nei periodi succesivi). Quindi i punti a) e b) di cui sopra. Il punto c) altro non è che una applicazione settoriale della tesi di KV (la cui dubbia validità statistica abbiamo già discusso in precedenza).

Discuto a) e b) qui di seguito.

a) Rivalutazione eccessiva del cambio reale?

È centrale nelle tesi di euro-exit l’idea che il tasso di cambio nominale della lira con l’ECU ristabilito nel 1996 (e quindi il tasso di cambio successivo con l’euro) abbia determinato, per dati prezzi relativi iniziali, un tasso di cambio reale (relativamente al resto dell’Unione) eccessivamente apprezzato. Abbiamo già indicato all’inizio l’impossibilità logica di una tesi di questo genere. Da un lato, la caduta di LP riguarda quasi tutti i paesi dell’euro. Ma questo è ovviamente inconciliabile con l’idea che tutti i paesi possano avere simultaneamente “sovrapprezzato” il loro tasso di cambio reale effettivo.

Un primo aspetto che rimane totalmente indefinito (ma che richiederebbe un’analisi statistica) nelle tesi di euro exit è il seguente: l’apprezzamento reale del cambio (posto che sia la causa esogena di tutto), e il presunto shock di domanda che ne consegue, è da intendersi come temporaneo o permanente? Si noti subito la difficoltà metodologica nel rispondere a questa domanda nel “mondo post-keynesiano”, dove la dinamica non è concettualmente data nè formalizzata. Interpretando le tesi di euro-exit, mi sembra di poter dire che si debba intendere come shock permanente di domanda negativo. La cui causa esogena è appunto un permanente sovrapprezzamento del cambio reale.

Da cui due domande iniziali: (i) può darsi il concetto di shock di domanda permanente? (ii) E quindi: può il tasso di cambio reale essere permanentemente sovrapprezzato?

La risposta ad entrambe le domande è negativa. O meglio, i due concetti possono darsi se e solo se si assume che i prezzi nominali siano permanentemente rigidi. Ma questo, come detto, non solo è logicamente incoerente, è anche contrario a ogni evidenza empirica. E in più, se lo shock iniziale di domanda deve essere uno shock permanente al tasso di cambio reale, ciò implica che il cambio reale dell’Italia sia una variabile non stazionaria. Il che, oltre a confliggere con l’idea che nel lungo periodo valga la parità dei poteri d'acquisto (PPP, secondo la sigla inglese comunemente usata), andrebbe dimostrato con test econometrici.[5]

Il “gap” nel tasso di cambio reale

Nel dettaglio, ciò che rimane sempre vago nella locuzione “cambio sovrapprezzato” è: eccessivamente rispetto a quale parametro? Rispondere a questa domanda richiede una misura (o stima) del tasso di cambio reale di equilibrio rispetto al quale il tasso di cambio reale iniziale effettivo sarebbe stato fissato “troppo apprezzato”. A sua volta, costruire una misura del tasso di cambio reale di equilibrio richiede un modello quantitativo. A quanto mi risulta, non c’è traccia di queste stime nelle tesi di euro-exit.

Ma c’è di più. È risultato econometrico ben noto (e si lega al concetto appena richiamato di PPP) quello secondo cui il tasso di cambio reale esibisce, nei dati, un comportamento di reversion to the mean, cioè un comportamento stazionario che implica che se il punto di partenza è “troppo alto” rispetto al valore di equilibrio di lungo periodo, entro un certo periodo (nel medio periodo, la cosiddetta half-life) il tasso di cambio reale tenderà a riallinearsi al suo valore di equilibrio di lungo periodo. Il motore dell’aggiustamento nel medio-lungo periodo sono, ovviamente, i prezzi relativi. Che possiamo certamente assumere “rigidi” nel breve periodo. Ma che, ancora una votla, è implausibile assumere rigidi per periodi superiori a quattro/cinque trimestri (secondo le stime più accurate), anche per l’area euro.[6]

Ebbene, assumiamo pure che il tasso di cambio reale di partenza fosse per errore eccessivamente apprezzato. Resta da spiegare un punto cruciale: perchè poi negli anni successivi all’ingresso nell’euro il tasso di cambio reale ha continuato ad apprezzarsi? O meglio, perchè non c’è traccia di reversion to the mean? Non è forse già debole l’ipotesi iniziale sub a), da cui muove tutta l’impalcatura dello shock di domanda nel settore traded? Ancora una volta bisogna appellarsi a rigidità nominali di prezzo del tutto implausibili nel lungo periodo per spiegare questo fatto stilizzato.

In ogni caso, il punto sull’eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale è la premessa di tutto. Sul quale essere molto prudenti e rigorosi (con modelli ed econometria) prima di saltare ai punti (b) e (c). In una parola, il ricercatore, prima di ogni altra cosa, dovrebbe prima mostrare che il tasso di cambio reale iniziale dell’Italia fosse eccessivamente apprezzato (e abbia continuato ad esserlo) rispetto al suo valore di lungo periodo. Cioè produrre una stima del cosiddetto real exchange rate gap (la differenza tra cambio reale effettivo e di equilibrio). È solo in presenza di “gaps” positivi che si può parlare di “eccessivo” apprezzamento

Una prevedibile iniziale contro-obiezione potrebbe essere: ma è stato l’afflusso di capitali dal centro verso la periferia, e successivo alla nascita dell’euro, che ha generato un persistente apprezzamento del tasso di cambio reale. Questo canale, certamente plausibile per il resto della periferia dell’euro (i cosidetti PIGS), non sembra plausibile per l’Italia, in cui la crescita del differenziale di inflazione rispetto all’unione non può certo assumersi sia stata dovuta a un boom di domanda come conseguenza di un boom nei flussi di capitale. Innanzitutto perchè di boom in Italia non c’è traccia da parecchio tempo. In secondo luogo, perchè un presunto boom di domanda contraddirebbe la premessa stessa di partenza della tesi di euro-exit (cioè lo shock permanente negativo di domanda).

Torneremo su questo punto tra poco. Ma è evidente che la logica della teoria economica già qui ci porta a presumere l’opposto di quanto assunto dalla tesi di euro-exit (“apprezzamento cambio” causa “caduta produttività”). Cioè che sia la caduta di lungo periodo della produttività in Italia la causa principale del persistente apprezzamento del tasso di cambio reale (con conseguente drammatica perdita di competitività).

In realtà, una risposta più sofisticata alla contro-obiezione è la seguente. Certamente la dinamica dei flussi di capitale ha contribuito in modo decisivo all’apprezzamento del cambio reale nei PIGS (con un forte dubbio sull’Italia, come già detto).  Questo genera però il problema di stimare, ancora una volta, l’effetto sul tasso di cambio reale di equilibrio della transizione al nuovo sistema euro. Per semplificare: non sarebbe corretto assumere che, con la transizione ad un’area valutaria comune, il tasso di cambio reale di equilibrio dei PIGS, o dell’Italia, sia rimasto costante. Ad esempio, perchè con la moneta unica l’integrazione dei mercati dei beni e finanziari (seppur imperfetta) è certamente progredita. Come si vede, questo aspetto complicherebbe di molto la stima econometrica del gap nel tasso di cambio reale. Perchè entrambi gli elementi del gap sarebbero non costanti nel tempo.

b) Shock negativo di domanda nel settore traded?

Ma proviamo anche a tralasciare il punto precedente sull’eccesso iniziale di apprezzamento del cambio reale. La premessa rimane comunque che il settore traded avrebbe subito uno shock negativo di domanda. È plausibile questo punto? Soprattutto, è plausibile quantitativamente in modo da spiegare poi il punto c), cioè la drammatica discesa di LP (ma anche di TFP) in Italia?

b.1) Export e rivalutazione del cambio.

La figura qui sotto mostra, a partire dal 1995, l’andamento del tasso di cambio effettivo reale (misurato come costo relativo unitario del lavoro[7]) e delle esportazioni reali (di beni e servizi) in Italia. Si noti che mostro le esportazioni, e non il saldo della bilancia commerciale (cioè la differenza tra export e import), perchè mi interessa valutare se esista un effetto specifico di lungo periodo sul settore traded della presunta persistente rivalutazione del cambio reale.

In questo caso è utile guardare al trend nelle due variabili. Si nota chiaramente il trend di apprezzamento del tasso di cambio reale. Ma allo stesso tempo si nota anche un trend crescente delle esportazioni, cioè della misura di output del settore traded. Da un primo superficiale sguardo ai dati non è affatto chiaro dove emerga un effetto permanente negativo “di domanda” di lungo periodo sull’export italiano, che possa fare anche solo da premessa a una contrazione nel tasso di crescita della produttività nel settore traded. [8]

         tasso di cambio

b.2)  Effetto pro trade vs. effetto contra trade.

Esistono in realtà ottime ragioni di pensare che l’introduzione dell’ euro sia stato anche uno shock positivo di apertura al commercio internazionale per una piccolo economia aperta come l’Italia. Qui i riferimenti teorici sono ai cosiddetti “nuovi modelli di trade” con eterogeneità tra imprese e (si noti) produttività endogena, lungo le linee di Melitz (2003) e letteratura seguente. In questa tipologia di modelli, oramai la frontiera dei modelli di trade, le imprese sono eterogenee e la produttività (si noti) è endogena. In questi modelli, uno shock del tipo “riduzione della volatilità del cambio” (cioè l’adozione di un cambio fisso) è equivalente a uno shock che riduce le barriere al commercio internazionale. Nel modello, e in risposta a un shock che riduce le “barriers to trade”:

(i) è più profittevole accedere al mercato dell’export;

(ii) la produttività aggregata aumenta endogenamente, perchè sono le imprese più produttive quelle che, al margine, si auto-selezionano nel mercato dell’export.

Se accettiamo il punto a) discusso a lungo in precedenza, un eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale comporta certamente uno shock negativo di domanda. Ma, allo stesso tempo, è plausibile che la compressione della volatilità del cambio nominale che si accompagna all’adozione dell’euro (per giunta dopo un processo lungo anni di integrazione del mercato comune) sia un potenzialmente importante effetto pro-trade. [9]

Per fare un punto quantitativamente rilevante un ricercatore dovrebbe considerare entrambi gli effetti: un “effetto negativo contra trade” (per presunto eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale) da interagire con un “effetto positivo pro trade” (dovuto alla riduzione permanente della volatilità dei cambi intra Unione[10]).   

È plausibile che l’effetto netto sia un forte shock negativo di domanda? Ho molti dubbi (anche se non si tratta di una impossibilità logica). Ancora una volta, il quesito è interessante. Ma richiede, prima di trarre alcuna conclusione, un modello stimato, quantitativo, e con microfondazioni, per misurare con precisione l’interazione dei due effetti sul livello di trade.[11]

b.3) Discesa dei tassi di interesse.

Secondo, assumiamo pure che l’effetto contra trade dell’euro sia di molto superiore all’effetto pro trade (punto che rimane tutto da valutare con grande rigore e attenzione). Sottolineo “di molto”. Ricordiamo infatti che l’obiettivo finale rimane quello di avere tra le mani uno shock negativo di domanda così forte da riuscire a spiegare un fatto aggregato macroscopico quale la caduta aggregata di TFP in Italia.[12] 

Molti sembrano dimenticare che, simultaneamente all’ingresso nell’euro, è successo qualcos’altro di macroscopico in Italia: una riduzione massiccia dei tassi di interesse. Poco importa se la discesa dei tassi sia stato un riflesso di un trend al ribasso mondiale nei tassi a lungo termine oppure un effetto specifico dell’ingresso nell’euro (per una compressione di diverse componenti del premio al rischio). È certamente vero, comunque, che la discesa relativa dei tassi a lungo termine nei paesi della periferia euro (inclusa l’Italia) sia stata decisamente superiore che in altri paesi.

Rimane un semplice fatto: che una discesa dei tassi a lungo termine (sostanzialmente esogena per una piccola economia aperta come l’Italia) altro non è che un forte shock di domanda aggregata positivo. Eccoci quindi di fronte all’ipotesi di “due shock di domanda”:

(i)  Shock di domanda presunto negativo nel settore traded (se, in base a quanto discusso sotto b.1, si assume che “shock against trade” sia molto più forte di “shock pro trade”).

(ii) Shock di domanda aggregata fortemente positivo dovuto alla discesa dei tassi di interesse (e non presunto, ma oggettivo, perchè chiaramente esogeno per l’Italia).

Ne sorge una nuova domanda di ricerca (pur ignorando tutte le perplessità iniziali sul canale “domanda causa produttività”). Combinando lo shock negativo in (i) con lo shock positivo in (ii), qual è l’effetto netto su produttività aggregata?  E’ quantitativamente plausibile immaginare che l’effetto netto sia ancora uno shock negativo di domanda così forte da essere in grado di spiegare la massiccia caduta aggregata di TFP in Italia?

Se anche concludessimo che l’effetto netto è uno shock esogeno di domanda negativo, nella migliore delle ipotesi sarebbe uno shock piccolo. Può tutto questo spiegare il più imponente fatto macroeconomico italiano degli ultimi 25 anni?

È un’ipotesi che vale la pena indagare seriamente. Va da sè che questo richiede un modello strutturale in cui entrambi gli shock interagiscono. Ma appunto. Ci vuole un modello rigoroso: dinamico (perchè l’effetto della discesa dei tassi richiede di modellare un effetto di sostituzione intertemporale tra consumo corrente e futuro), microfondato (per valutare l’effetto a livello di singola impresa di pro trade vs. against trade effect), e stimato con metodi strutturali (per avere una idea empirica quantitativa dell’effetto finale su produttività). Ho accennato a questa ipotesi di modello e progetto di ricerca in una nota a piè di pagina precedente.

Il ruolo dei flussi di capitale

Si dirà (nuovamente). Ma è stato per colpa (o grazie) all’euro che si è avuto uno shock esogeno così forte di riduzione dei tassi a lungo termine nella periferia. Questo effetto ha comportato un afflusso di capitali verso la periferia, e una spinta all’apprezzamento del tasso di cambio reale nella periferia.[13]

Certamente, e infatti tutto questo punta nella direzione della mia spiegazione preferita per la crisi recente della periferia dell’euro: cioè un sudden stop nell’afflusso di capitali.[14] Ma il punto rimane. Che cosa c’entra l’euro inteso come adozione di un cambio nominale permanentemente fisso? Possiamo pensare che sia stata esclusivamente l’ eliminazione del rischio di cambio a favorire un massiccio afflusso di capitali dal centro verso la periferia? Per giunta in un mondo in cui la “copertura” dal rischio di cambio è accessibile a ogni impresa o istituzione finanziaria? E se anche fosse: dovremmo ritenere una sciagura l’euro per aver favorito flussi di capitale verso la periferia meno sviluppata dell’area?

Tutto questo ha invece a che fare con una delle questioni di policy più importanti del nostro tempo: che cosa determina e come si gestiscono i flussi di capitali tra paesi? Vanno tassati? Vanno sussidiati? Che esternalità macro generano? Qual è il regime di cambio ottimale in presenza di massicci afflussi di capitale? Come giudichiamo se flussi di capitale sono eccessivi per una piccolo economia aperta?

Soprattutto. In un’area valutaria comune, come si gestiscono, ex-ante ed ex-post, i flussi di capitale? Dovremmo avere dei target sugli squilibri di bilancia (ad esempio) su deficit/PIL? Quand’è che uno squilibrio di bilancia dei pagamenti è da giudicare eccessivo/inefficiente? [15]

E’ chiaro che tutte queste sono ipotesi e domande ben diverse da “euro = cambio fisso”, e quindi (soprattutto) dal suo (azzardato) corollario: usciamo dall’euro e riprendiamoci la flessibilità del cambio. È altresì vero che massicci (e potenzialmente pericolosi) flussi di capitale colpiscono le economie in ogni parte del mondo, indipendentemente dal fatto che abbiano adottato cambi fissi o flessibili. Esempi macroscopici recenti di paesi con cambi flessibili e con importanti problemi di gestione dei flussi di capitale sono la Turchia e il Brasile. È paradossale notare che molti dei paesi che fronteggiano flussi di capitale massicci tendono ad adottare ex-post regimi di cambio fisso o semi-fisso, proprio per evitare l’eccesso di apprezzamento della valuta.

Ma l’Italia ha avuto un boom o una contrazione della domanda aggregata?

Il dibattito “Italia e euro” è fonte di grandi stimoli. Uno spunto che mi sembra di grande interesse è il seguente. I dati sulla crescita anemica del PIL in Italia negli ultimi 15-18 anni sono sotto gli occhi di tutti. Anche di fronte alla discesa dei tassi di cui detto, certamente non è possibile sostenere che l’Italia abbia avuto un boom di domanda. (Infatti il mio punto precedente è sulla presunta, e tutta da misurare, magnitudo netta dello shock negativo di domanda.)

Tutto questo ci consegna un puzzle di estremo interesse: nonostante una così forte contrazione dei tassi di interesse a lungo termine, perchè l’Italia è l’unico tra i paesi della periferia euro che non ha avuto un boom nei primi anni dell’euro (a differenza di Spagna, Irlanda, e in parte Portogallo e Grecia)? Quanto meno questi paesi hanno goduto, per una certa fase, di un boom di consumi e investimenti. In un parola, in Italia, stiamo avendo oggi l’ “hangover” senza avere neanche fatto il “party” la sera prima.

Anche questa mi sembra una possibile, appassionante, ipotesi di ricerca. La mia ipotesi preferita sul perchè l’Italia non sia stata in grado di trarre alcun vantaggio dalla discesa dei tassi di interesse riguarda le imperfezioni finanziarie. Credo quantomeno che troppo a lungo il dibattito in Italia sulle cosiddette riforme strutturali si sia concentrato solo sul mercato dei beni e del lavoro, e pochissimo sul mercato del credito. Una manifestazione drammatica dello sviluppo ancora primitivo dei mercati finanziari in Italia lo stiamo vivendo oggi con la realtà del cosiddetto “credit crunch”. Incidentalmente, ed in linea con Reis (2013), credo che imperfezioni finanziarie siano anche cruciali per spiegare la mis-allocazione di capitale tra settore traded e non-traded che è una delle ipotesi plausibili per la caduta di TFP in Italia.[16]

Nuovamente, niente a che fare con cambio fisso o flessibile stricto sensu. E se ciò è anche solo minimamente vero, forse vale la pena riflettere un momento prima di invocare scenari di euro-exit. Magari senza una minima proiezione dei costi catastrofici che ciò avrebbe per il nostro sistema bancario.

Nessuno nega che l’euro sia una costruzione molto imperfetta. Ma un conto è valutarne l’imperfezione ex-ante (per l’assenza di meccanismi di risk-sharing a vari livelli, per l’assenza di una vera unione bancaria, etc.). Un altro, e ben diverso, è anche solo concepire, per una economia vulnerabile dal punto di vista finanziario come l’Italia, di uscire ex-post condizionatamente al fatto di averne fatto parte per 13 anni. Soprattutto quando gli argomenti scientifici sull’effetto negativo aggregato dell’euro sulla nostra economia sono ancora così fragili.

Riferimenti bibliografici

  • Arellano C. and E. Mendoza (2003), “Credit Frictions and 'Sudden Stops' in Small Open Economies:An Equilibrium Business Cycle Framework for Emerging Markets Crises”,  Ch. 7 of Dynamic Macroeconomic Analysis: Theory and Policy in General Equilibrium ed. by S. Altug, J. Chadha and C. Nolan, Cambridge U. Press.
  • Bagnai A. (2013), “Il Tramonto dell’Euro”, Imprimatur Editore.
  • Barnichon R. (2010) “Productivity and Unemployment over the Business Cycle”, Journal of Monetary Economics.
  • Bils M. and P. Klenow (2004), “Some Evidence on the Importance of Sticky Prices”, Journal of Political Economy.
  • Gali J. and T. van Rens (2010), The Vanishing Procyclicality of Labor Productivity, CREI and Universitat Pompeu Fabra.
  • Ghironi F. and Marc J. Melitz, 2005. "International Trade and Macroeconomic Dynamics with Heterogeneous Firms",  Quarterly Journalof Economics.
  • Kaldor N. (1985)‘Economic growth and Verdoorn law: a comment on Mr. Rowthorn article’,
  • Economic Journal, vol. 85, 891-6.
  • Melitz M. (2003). The Impact of Trade on Intra-Industry Reallocations and Aggregate Industry Productivity. Econometrica, Vol. 71, No. 6.
  • Mendoza E (2008), “Sudden Stops, Financial Crisis and Leverage”, American Economic Review.
  • Nakamura E. and J. Steinsson, “Five Facts About Prices: A Reevaluation of Menu Cost Models”, Quarterly Journal of Economics, 123(4), 1415-1464, November 2008.
  • Kaldor, N. (1966). Causes of the Slow Growth in the United Kingdom. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Reis R. (2013), “The Portuguese Slump and Crash and the Euro Crisis”, Brookings Papers on Economic Activity.
  • Shimer R. (2010), “Labor Markets and the Business Cycle”, Princeton University Press.
  • Thirlwall, A. P. (1979). The balance of payments constraint as an explanation of international growth rate differences. Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, March.
  • Verdoorn, J. P. (1949), “On the Factors Determining the Growth of Labor Productivity,” in L. Pasinetti (ed.), Italian Economic Papers, Vol. II, Oxford: Oxford University Press, 1993. 

Note

[1]↑ Si veda ad esempio l’ambio contributo di P. Romer , o il libro di testo di Barro e Sala-i-Martin (1994).

[2]↑ Questa interpretazione meriterebbe una nota a parte. Perchè concludere che il rallentamento del tasso di crescita della produttività sia dovuto, in Italia, a una contrazione della spesa pubblica equivarrebbe a un’ipotesi eroica. In ogni caso, secondo il modello di KV, perfettamente coerente: una contrazione del tasso di crescita della spesa pubblica, in quel modello, causa una caduta del tasso di crescita della produttività.

[3]↑ Questa è la tesi centrale in http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html, e una delle tesi discusse in Bagnai (2012).

[4]↑ Reis (2013) discute, per il Portogallo, il ruolo delle frizioni finanziarie nell’allocazione distorta dei flussi di capitale verso il settore non traded, e quindi nel causare una caduta della produttività via un effetto composizione. Non c’è traccia del ruolo delle frizioni finanziarie nelle tesi su euro exit.

[5]↑ Esiste la versione “in livelli” della PPP, ma anche la versione nei “tassi di crescita”. La prima non è coerente con la non-stazionarietà del cambio  reale. La seconda sì. Ma tutto questo andrebbe ovviamente documentato con test econometrici per l’Italia prima di procedere a qualsiasi conclusione.

[6]↑ Si veda per l’area euro l’ampio studio coordinato dalla Ecb e denominato European Inflation Persistence Network.

[7]↑ L’andamento sarebbe simile per il tasso di cambio effettivo reale se misurato in unità di CPI

[8]↑ Anche in questo caso l’approccio metodologico corretto sarebbe più sofisticato. Il ricercatore dovrebbe studiare, infatti, utilizzando un modello teorico stimato, se la dinamica delle esportazioni, seppur crescente, sia stata superiore (o inferiore) relativamente a quella che sarebbe stata in assenza di transizione all’euro. Per definizione, una stima controfattuale del genere, richiede la formulazione di un modello strutturale.

[9]↑ Ad esempio Berthou and Fontaigne (2008), utilizzando dati micro francesi a livello di impresa, e distinguendo (proprio nella logica di un modello a la Melitz ) tra “intensive margin” di trade (quanto export per ogni data varietà di prodotto) ed “extensive margin” (quante varietà di prodotto), concludono che “estimation results point to a strong negative effect of the nominal exchange rate volatility on both the intensive and extensive margins of trade, which suggests a large - positive – effect of the euro related to the reduction of firm-level uncertainty. Volatility indeed reduces the number of varieties that are shipped to trade partners, as well as the value of exports by variety“. Ho citato uno studio serio che utilizza dati micro non a caso. Perchè è ben noto che la stima degli effetti pro-trade delle currency unions con dati aggregati è soggetta a problemi di ogni tipo (si vedano a tal  proposito i molto criticati papers di A. Rose).

 [11]↑ Quella descritta è un’ ipotesi di progetto di ricerca. Che richiederebbe, nell’ordine, di: i) adottare un modello macro del tipo Ghironi-Melitz (2005), che contiene le fondamenta del modello di Melitz 2003; ii) estendere il setup alla presenza di rigidità nominali sui prezzi, affinchè il regime di cambio nominale non sia neutrale; iii) stimare il modello e valutare quantitativamente l’effetto su TFP  di “shock against trade” (eccessivo apprezzamento del cambio reale iniziale rispetto al valore di lungo periodo) vs. “shock pro trade” (azzeramento permanente della volatilità del cambio nominale). O quantomeno questo è il modo in cui, secondo me, l’ipotesi “adozione euro ha causato caduta TFP” andrebbe indagata.

[12]↑ Tutto ciò ammesso ovviamente che valga poi lo step 2, cioè che una caduta della domanda determini una caduta di TFP nel lungo periodo (legge KV). Su questo si veda la discussione sopra.

[13]↑ In realtà l’ipotesi “riduzione dei tassi” può spiegare il flusso di capitali verso la periferia solo nell’ambito del fenomeno del carry trade. Cioè la possibilità per le istituzioni finanziarie di indebitarsi a tassi quasi zero in alcune valute (ad esempio lo Yen) e poi di prestare a tassi relativamente più elevati nella periferia dell’euro, dove il rendimento reale atteso era certamente più alto.

[14]↑La trattazione di questo tema è rimandata, per ragioni di spazio,  a un’altra nota. Per la letteratura su sudden stops e flussi di capitali si veda Arellano e Mendoza (2003), Mendoza (2008), e tutti i riferimenti bibliografici contenuti.

[15]↑ Economisti di tutto il mondo sono alle prese con queste domande (incluso me). Con pazienza e modestia.

[16]↑ Altre ipotesi sulla caduta di TFP riguardano ovviamente le inefficienze strutturali delle istituzioni economiche italiane, il ruolo della specializzazione produttiva obsoleta dell’economia italiana di fronte all’apertura al commercio delle economie emergenti, della size-distribution delle imprese italiane, e così via. Non è quest il luogo, per ragioni di spazio, per discutere queste ipotesi.

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Commenti

Ci sono 105 commenti

Il tema dello shock negativo (presunto) dovuto all'Euro è molto usato da sostenitori dell'uscita dall'Euro, purtroppo è poco dibattuto. Trovo questo pezzo molto importante per  una divulgazione più oggettiva sul tema; altro bel pezzo dopo il precedente.

Un'altra ipotesi è che l'Italia sia andata al party, ma sia entrata già in hangover. In altre parole, l'abbassamento dei tassi ha mitigato il declino, magari senza di questo il 2008-2013 sarebbe potuto accadere nel 1996-2001.

Difficile. La discesa dei tassi è un quasi esperimento naturale. Una dimiminuzione esogena, anche se difficile da definire "non anticipata". In ogni caso rimane il conundrum del perchè questo non abbia favorito una crescita di consumi e/o investimenti in Italia (quelli residenziali solo in parte). E' questo il dato che più di ogni altro mi fa pensare a frizioni dal lato del credito. Troppo spesso ignorate e sottovalutate nel dibattito pubblico in Italia.

 

È paradossale notare che molti dei paesi che fronteggiano flussi di capitale massicci tendono ad adottare ex-post regimi di cambio fisso o semi-fisso, proprio per evitare l’eccesso di apprezzamento della valuta.

 

E' vero, ma o limitano i flussi di capitale eliminando la convertibilita' della valuta in conto capitale, Bretton Woods-style (Cina, Malaysia post-Asian Crisis) o hanno elevate  flessibilita' salariali che permettono di assorbire gli shock tramite aggiustamenti strutturali. John Greenwood, che nel 1983 fu l'architetto del currency board di Hong Kong, in un articolo su FT di due anni fa ha elencato otto condizioni per la stabilita' di un sistema monetario a cambi fissi con liberta' di flussi di capitale:

1. Economia molto aperta
2. Elevata flessibilita' di prezzi e salari. (Nota che invece la "stickiness" dei salari e' un assunto centrale per i keynesiani di ieri e di oggi, e anzi una conquista da tutelare per i cosiddetti post-keynesiani nostrani.)
3. Poco welfare e trasferimenti fiscali (che disincentivano l'aggiustamento dei salari e la riallocazione della forza lavoro in aree dove l'offerta di lavoro e' maggiore)
4. Forte disciplina fiscale (dal 1984 a oggi il governo di Hong Kong ha mantenuto un surplus di bilancio medio annuo dell'1.4% del PIL)
5. Alta capitalizzazione del sistema bancario (in Hong Kong il capital ratio si aggira sul 14% - 19%, ben superiore a quello dell'Eurozona)
6. Mantenimento di bilanci attivi delle banche con la banca centrale
7. Bassa leva finanziaria nel settore immobiliare residenziale (dal 1991 in Hong Kong sono stati limitati al 70% del valore dell'immobile, e recentemente anche a meno)
8. Bassa leva finanziaria nel settore immobiliare commerciale, che indirettamente limita l'indebitamento delle ditte private

Ora, con questo non voglio dire che senza Euro si starebbe meglio: anzi, io sono un sostenitore dell'Euro non perche' lo veda come uno strumento di maggiore integrazione politica (che aborrisco per varie ragioni, non ultima quella che implica armonizzazione che e' nemica della concorrenza tra i vari governi) ma perche' spero che forzi l'adozione di almeno parte delle condizioni su elencate, che considero desiderabili in se'. E comunque,  ormai e' tardi per tornare indietro: chi le trova inaccettabili avrebbe dovuto pensarci prima.

Sono diventato un fan dei "like" anche per i commenti e non solo per gli articoli. Questo di Enzo (anche se non concordo con l'idea di generalizzare a partire dall'esperienza di HK) merita un paio di "like", specialmente per le conclusioni! 
:-) 

Questi spunti sono interessanti. Ma solo suggestivi. Ognuna delle ipotesi andrebbe formalizzata meglio, magari in un modello. Per capire fino a che punto ciascuna condizione sia necessaria (e/o sufficiente). Su twitter mi sono sentito dare del c..glione (ovviamente dal solito Borghi, sic!) per aver impostato un paragone tra EA e USA.

Il punto era, e ancora è: un'area valutaria comune è qualcosa di diverso da un sistema di cambi fissi. Questa era l'intuizione originaria che ha spinto i paesi europei ad abbandonare il sistema dello SME e a fare un salto in avanti "strutturale" nel tentativo di coordinare le loro politiche economiche.

Ma che cosa realmente necessita un'area valutaria comune? E' sufficiente dire: gli USA "funzionano" perchè sono uno stato unitario? E' questo l'aspetto cruciale? A me sembra un pò tautologico. O forse è il mitico sistema dei trasferimenti tra Stati degli USA la chiave? (Tutti i fanatici di euro-exit si riempiono la bocca con questo mito dei trasferimenti. Certo ci sono. Ma nessuno che tiri fuori uno straccio di studio che mostri come funzionano, che effetti hanno, e soprattutto quanto decisivi siano per la "viability" del dollaro come currency area.)

Oppure quello che è veramente necessaria è una vera unione bancaria? O una politica fiscale centralizzata?  O servono tutte queste cose insieme? (anche una lingua comune?).

Attenzione: perchè questo è il vero punto cruciale. Quale deve essere il passo successivo della costruzione dell'euro (ammesso che si voglia andare avanti)? Certamente deve essere qualcosa di strutturale: ma che cosa, veramente?

 

o meno esplicit. si richiamano tutti. Ossia, il presupposto implicito e': l'Italia e' una paese disastrato ormai al conto (quello surrealmente scaricato sulle spalle incolpevoli delle generazioni future, per intenderci, dalla Kasta, capace unicamente di rinviare/portare a nuovo, devaluing). l'Unico modo per indurre cambiamenti e' il bastone. Aut fai le riforme Aut fai la fine della Costa guidata da Schettino....La domanda pero' e': l'Italia ce la fara'? 120k espatriati da codesto paese solo nel 2012. Sarebbe interessante calcolare quanti scrivano dall'estero-

f.to un n espatriato)

Che bello che è essere così tanto specializzati. Complimenti, mi vien da piangere.

 

Resta da spiegare un punto cruciale: perchè poi negli anni successivi all’ingresso nell’euro il tasso di cambio reale ha continuato ad apprezzarsi?

 

Ancora una volta complimenti per l'esposizione e per le riflessioni che il testo propone.

Una domanda: l'apprezzamento del tasso di cambio reale necessita per essere valutato di un termine di riferimento esterno. Immagino quindi sia il dollaro (nel senso di beni e servizi usa). Corretto?

Ora andando indietro nel tempo e lavorando di memoria, ricordo che la transizione alle valute nazionali al l'euro comporto' un po' di problemi per il grande volume di sommerso e di capitali ad esso connessi. Di fatto appena fu chiaro che la Lira sarebbe diventata Euro ci fu il problema della conversione dei capitali nascosti che già non fossero stati depositati all'estero. Non si potevano convertire istantanealmente alla luce del sole e mi fu spiegato che quindi già un paio di anni prima del passaggio ufficiale ci fu un trasferimento verso il dollaro che riguardò non solo la Lira ma anche il Marco tedesco, moneta di riferimento per le economie ex-cortina in cui il sommerso viaggia attorno al 40% del PIL (da noi è il 27% considerando attività lecite ed illecite, che anche loro generano profitti da convertire).

La transizione a quanto pare (non sono cose di cui si parla apertamente) fu organizzata in modo diluito nel tempo, con importi mensili ridotti ma pur sempre di miliardi. Vendendo costantemente Lire e Marchi per comprare Dollari  le prime due valute persero un po' del loro valore ed il dollaro si apprezzò (tanto che molti analisti allora non capivano il perché, dato che i fondamentali sottostanti al dollato indicavano un valore piu' basso). Una volta arrivato l'euro fu innescato gradualmente il percorso inverso, da dollaro ed euro, anche qui non tutto in un colpo. Il risultato fu un deprezzamento del dollaro ed un apprezzamento graduale dell'euro.  Che volume fu coinvolto. Non è dato a sapere ma se il sommerso da noi è il 27%, come flusso, quale puo' essere lo stock accumulato nei decenni in beni non mobiliari?

Tutto questo tuttavia spiega solo i due anni precedenti ed i due successivi ma puo' essere una parziale risposta all'apprezzamento dell'euro (e per il tasso nominale, non reale)  negli anni successivi alla sua nascita. Ma solo quelli.

Ritengo anche che i tecnici che allora fissarono i rapporti di conversione fossero consapevoli del meccanismo, avessro anche alcune stime del volume coinvolto e che quindi per esempio sapevano che la Lira era momentaneamente deprezzata e che poi la situazione sarebbe tornata normale nel giro dei mesi seguenti. Adottarono quindi un cambio che puo' essere considerato sovrapprezzato rispetto al momento stesso della decisione (innescando le polemiche che sappiamo) ma che rispettava la media e la realtà. Da qui forse nasce la favola del sovrapprezzamento iniziale.



Il nero al 27% e al 40% riguarda i flussi interne delle economie, gli stock esportati (che sono decisamente inferiori)  sono tipicamente finiti in svizzera e caraibi, e non sono mai stati detenuti in Lire o Marchi, mentre quelli "domestici" non hanno avuto alcun bisogno di essere convertiti materialmente in altre valute: semplicemente si è smesso di usare le lire e si è cominciato a usare l'euro, come per le transazioni ufficiali.

Credo che l'iniziale apprezzamento del dollaro (l'euro partì praticamente alla pari, è sceso fino a 0,80 sul dollaro, e anche peggio per la sterlina) sia stato dovuto ai dubbi sull'euro in sè agli inizi, per cui i capitali finanziari hanno semplicemente preferito  essere denominati in valute "sicure".

Sulla stima dello stock di nero detenuto all'estero credo che può valere la stima fatta ai tempi dell'introduzione dello scudo, e che fu anche dibattuta su nFA. Fra i 100 ed i 200 miliardi di €, a memoria.

Ecco, il testo sembra buono, ma sinceramente è troppo difficile da capire fino in fondo per me che sono un profano.

L'altro articolo (prima parte) sono riuscito a seguirla, questo invece non sono riuscito a seguirlo fino alla fine.

 

La divulgazione scientifica, e questo articolo lo vuole essere, deve per forza di cose volgarizzare il messaggio.

Certo, un professore direbbe: se uno vuole capire, deve studiare.

Ma il volgo ha altro da fare che studiare economia (magari studia e lavora su altro) e, per capire rapidamente, necessita di una volgarizzazione.

 

A mio parere potrebbe essere utile far fare una pre-lettura di questi articoli ad un non-specialista, così da capire dove la discussione va semplificata (magari ad uno con formazione scientifica, così non si perde la rigorosità del discorso).

Fermo restando che non e' sempre possibile "volgarizzare", come dici tu, potresti dirci dove ti sei fermato? Semplicemente puoi copiare le frasi che ti sono rimaste oscure, anche solo qualcuna, poi vediamo se riusciamo a rispondere.

Fai come ti ha chiesto A Moro. Hai aperto una breccia forse e' la volta che si smuove la montagna. Non perdere questa occasione. Il punto che hai sollevato e' di vitale importanza se da elite si vuole passare ad educare la massa.

 

 

Una prevedibile iniziale contro-obiezione potrebbe essere: ma è stato l’afflusso di capitali dal centro verso la periferia, e successivo alla nascita dell’euro, che ha generato un persistente apprezzamento del tasso di cambio reale. Questo canale, certamente plausibile per il resto della periferia dell’euro (i cosidetti PIGS)

 

 Capisco che la risposta probabilmente richiederebbe post altrettanto lunghi ma mi domando se nei casi di Portogallo, Irlanda e Spagna, in particolare questi ultimi due che a lungo sono stati considerati i "bravi bambini della UE" (mercato del lavoro, rapporto deficit/PIL ecc.) non sia invece più corretto riferirsi al "ciclo di Fraenkel" o, a quello che Bagnai chiama "Romanzo di centro e periferia" e pensare che l'Euro (o magari l'Euro + la non regolamentazione dei flussi di capitali) sia il principale colpevole della crisi PIGS. Non mi riferisco alla "tesi forte" per cui cambio fisso avrebbe determinato diminuzione produttività (che nel caso non mi sembra neanche ci sia stato o comunque non in misura così forte come in Italia).

La Spagna in particolare si avvia al sesto anno consecutivo di crisi (mica bruscolini...) e non mi sembra si intraveda una via di uscita (quali riforme dovrebbero fare? quelle che si chiedono in Italia le avevano già fatte prima...).  Quanto deve essere grande il danno prodotto dal "sistema imperfetto" per giustificare l'uscita dal sistema imperfetto?

Tocca chi sostiene la necessità di uscire dall'euro trovare un modo fattibile e conveniente, ma l'unica cosa che sento dire di fronte alla elementare osservazione dei possibili rischi è un alzata di spalle e l'assoluta mancanza di proposte fattibili.

Dato che il fine dichiarato di chi propone l'uscita dall'euro è una svalutazione tocca a chi lo propone dimostrare che sia possibile l'ipotesi da paese dei balocchi di un paese che svaluta senza avere né inflazione né recessione né aumento della disoccupazione, e senza problemi di finanziamento della spesa pubblica.

Ricordo che ogni anno ci sono nelle tasche di investitori esteri 120 miliardi di titoli che scadono e vanno pagati se hai una moneta che si svaluta dovrai per forza pagare interessi sufficienti a compensare la svalutazione , oppure prender quei soldi dalle tasche degli italiani.

Il punto è che tocca a chi vuole l'uscita dall'euro dimostrare di aver risolto e prevenuto tutti i grossi possibili danni, non semplicemente negare che esistano.

Quello del cd. ciclo di Frenkel, appunto, è un romanzo. Una storia costruita ex post. Un'ipotesi argomentativa. Niente di più. Non certo una teoria coerente costruita sulla base di un modello e di una conseguente verifica empirica. Anche questo fa parte del "mito di euro-exit". Essersi impossessati di una narrazione, del tutto qualitativa, che razionalizza  esattamente quello che ci si vuole sentire dire. Dalle mie parti questa si chiama, banalmente, bad economics (ammesso che si possa chiamare economics at all).

 

Concordo al 100 percento con l'impostazione dell'articolo del prof. Monacelli. La spiegazione e' perfetta. Su certi argomenti non si puo' abbassare troppo il livello di trattazione perche' le conclusioni sarebbero semplicistiche. Per me che le ho studiate al dottorato sono risultate molto utili perche' nessuno le aveva trattate cosi' bene da un punto di vista divulgativo. comunque le premesse e le conclusioni sono comprensibili a tutti i livelli. Per la parte sugli strumenti scientifici e' chiaro che i non adetti ai lavori capiscono solo in parte ma e' cosi' per tutte le discipine scientifiche.  Credo che pochi capirebbero gli strumenti tecnici per capire perche' un ponte e' crollato ma il concetto lo capirebbero

Quando due post ptretendono di spiegare ai molti che le teroie dell'altro sono una mensogna, dovrebbero porsi dalla parte dei più.

Ciò che interessa ai molti è se il tutto incide sull'occupazione e sul livello del  salario.

Bagnai cerca di dire che le NON sue teorie quantomeno cercano di attenuare il fenomeno.

Qui chi ci capisce qualcosa è bravo! Voi siete un gruppo di  élite, di conseguenza da voi ve le dite e quasi da voi ve le cantate (diversamente Fare mica faceva il fisco politico che ha fatto. Lo scandalo di Giannino è uscito ad arte perchè avete annusato il declino, altrimenti che élite sareste).

FOCUS sul problema.

"Fabbrica trasferita in Polonia durante le ferie"

Anche per chi scrive è un mistero il fatto che si preferiscano teorie di economisti  scollegate dalla realtà viva del corpo sociale. F.Caffè per molti è passato di moda le sue riflessioni (oggi va di moda il termine narrazione economica) non stanno dendro un modello econometrico.

Mentre, l'homo Economicus che agisce  "razionalmente" dando efficienza al mercato, in quale modello stava? La crisi del 2008 dei mutui sub-prime che diversificavano il rischio del credito  in quale modello stavano?

Come se non ci fosse più spazio per l'Uomo sociale, e alle sue piccole riflessioni tipo:

- a cosa serve una  scienza sociale che dimentica la socialità dell'uomo?

- a cosa serve una teoria sociale incapace di capire ciò che realmente sta accadendo alla società e in particolare a una istituzione sociale chiamata "mercato/i"?

- il mercato spiegato da Einaudi è lo stesso  spiegato  Monti a Porta a Porta?

Tutte queste domande banali e comuni, ci stanno dentro a un modello econometrico?

E' ovvio che io non ho risposte altrimenti non ponevo le domande.

Ma di una cosa sono quasi certo! alla gente comune (i molti), interessa sapere quanto ancora inciderà la situazione socioeconomica sulle loro condizioni di vita, se questo spiega le fughe delle industrie in Polonia e quali politiche adottare per mantenere i livelli di qualità della vita acquisiti. 

Tutto il resto è noia, provare per credere, magari una sera a cena con amici metalmeccanici spiegategli cosa sta succedendo. Poi se vi dicono che una svalutazione temporanea delle moneta attenuava il colpo non date la colpa della loro ignoranza a Bagnai o a Borghi, perchè loro le asimmetrie le stanno vivendo sulla loro pelle.

Il problema è questo "se vi dicono che una svalutazione temporanea delle moneta attenuava il colpo" vi stanno raccontando favole senza nessun fondamento nella realtà.

Dopo la svalutazione del 1992 la disoccupazione è aumentata del 3% e i consumi sono calati del 3,5%, sono questi gli effetti positivi?

In 20 anni dal 1975 al 1995 il marco è passato da 200 lire a 1000 lire, il dollaro da 600 lire a 1700 lire ma il reddito reale in Germania e USA è aumentato di più che in Italia.

Certo che dire coma fa Bagnai che sia possibile contemporaneamente svalutare, aumentare la spesa pubblica, obbligare le banche a comperare i titoli di stato senza che alla fine NESSUNO paghi il conto è la solita favoletta dei pasti gratis che può essere comodo raccontare agli amici metalmeccanici, ma non darà mai da mangiare a nessuno.

Dove è stata applicata ha SEMPRE portato miseria e scaffali vuoti nei negozi.

Se le imprese scappano ANCHE dove si pagano più tasse che in Italia un motivo ben diverso dalle scemenze che raccontano i vari Landini e Camusso ci sarà pure!

Keynesiano, con rispetto, non condivido ciò che lei ha scritto, il suo post mi è sembrato dettato dalla frustrazione di non riuscire a rispondere nel merito di quanto scritto da Monacelli perché, evidentemente, non si hanno conoscenze adeguate per farlo.

Inoltre trovo scorretto usare la dialettica per mettere in cattiva luce qualcosa che di negativo non ha nulla; la competenza.

Cito poi una parte di un post di qualche riga sopra firmato Andrea Moro che rende meglio l'idea del mio punto di vista:

 

E' vero che un blog cerca di divulgare, ma questi post in particolare erano necessariamente più tecnici, perché non c'è altro modo di smascherare chi cerca di divulgare via slogan o, nel peggiore dei casi, via grafico postato su un blog con quattro dati messi in croce senza che vi sia una minima seria riflessione sul perché si sono scelti quei dati e quelle variabili, quale sia il ragionamento logico di riferimento, etc.... Dico nel peggiore dei casi, perché dati (e ragionamenti raffazzonati) danno una parvenza di accademicità al ragionamento logico che purtroppo può confondere i non specialisti (e anche gli specialisti, a volte).  

 

Vorrei chiedere un approfondimento al prof. Monacelli sulla parte relativa ai beni non commeciabili. Quando lei dice che la diminuzione della domanda dei beni traded (T) ha dirottato la domanda verso il settore non traded (NT) ma la produttività NT non è aumentata a causa di frizioni finanziarie (più o meno mi sembra questo il concetto) si riferisce alla formula che esprime il tasso di cambio reale in rapporto sia alla ragione di scambio, sia al rapporto tra prezzi dei beni T e prezzi dei beni NT (che si trova nell sue slides)? Poi alcuni aggiungono anche un legame al premio al riscio per il mercato finanziario. Cioè mi dica se è giusta la mia interpretazione: se la ragione di scambio migliora c'è un apprezzamento reale; se diminuisce il prezzo dei NT c'è un apprezzamento reale. Naturalmente vanno considerate anche le elasticità prima di affermarlo. I paesi sviluppati (secondo Balassa e Samuelson) hanno la produttività dei T (es. settore manifatturiero) che cresce più velocemente rispetto al settore NT (es. servizi) ed i prezzi dei NT più alti (crescono più velocemente rispetto a quelli del settore T) rispetto ai PVS e sperimentano un apprezzamento reale. A ciò vanno aggiunti gli studi sul pass-through del tasso di cambio: il pass-through nel breve periodo è parziale (deviazioni dalla PPP) e nel lungo periodo è completo (vale la PPP). Il grado di pass-through indica in quale proporzione una variazione del tasso di cambio si trasmette ai prezzi alle importazioni in valuta locale (anche qui bisognerebbe precisare se il regime è LCP - local currency pricing- o PCP - producer currency pricing- o PTM - pricing to market). La mia domanda è la seguente: come si legano i discorsi relativi alla letteratura sul pass-through e sui prezzi relativi dei beni NT alla parte dell'articolo che tratta dei beni non commerciabili nella risposta alle teorie euro-exit? Mi rendo conto che ho messo insieme varie cose ma è difficile trovare spiegazioni esaustive e convincenti su questo argomento molto importante.

Confesso di non aver capito la sua domanda. In ogni caso le frizioni finanziarie non hanno relazione con la decomposizione del tasso di cambio reale a cui lei accenna tra "ragioni di scambio" e "prezzo relativo di beni T e N" (che è una mera riscrittura di una identità). Non capisco anche quando parla di "miglioramento" delle ragioni di scambio. Dipende come le definisce (prezzo imports /p beni domestici, o viceversa?), e in ogni caso l'unico concetto che capisco è "apprezzamento relativo" o deprezzamento.  Ragioni di scambio che si apprezzano, migliorano o peggiorano? MOlti pensano che ragioni di scambio che si apprezzano siano una sciagura, perchè la perdita di competitività, etc.. (solita storia).

Bottom line: quando si parla di prezzi relativi, tassi di cambio reali, etc.. sempre bene definire a monte esattamente di che si parla.

1) Per quanto riguarda le ragioni di scambio volevo dire che in presenza di PTM (prezzi fissati nella valuta del mercato locale) a seguito di un deprezzamento del tasso di cambio farà aumentare il prezzo in valuta nazionale delle esportazioni lasciando invariati i prezzi delle importazioni (questo viene definito miglioramento delle ragioni di scambio). Con PTM oltre all'effetto sulle ragioni di scambio abbiamo che: la redistribuzione del reddito avviene a favore del paese domestico a causa della variazione dei profitti e ci sono deviazioni dalla legge del prezzo unico nel breve periodo. Il ragionamento cambia se siamo in presenza di LCP o PCP. Questo primo punto è corretto?

2) in merito ai beni NT volevo dire che quando il prezzo dei beni NT aumenta relativamente al prezzo dei beni T il RER si apprezza (il rapporto diminuisce); avevo scritto questo perchè pensavo che fosse collegato al fatto che quando è aumentata la domanda nel settore NT non c'è stato un aumento della produttività ma evidentemente non ho capito bene il ragionamento nell'articolo; ma non avevo collegato le frizioni finanziarie alla formula (le vedo come una ragionamento a parte).

3) ho citato il PT del tasso di cambio perchè in base alla presenza di LCP,PCP, PTM varia il suo grado. Inoltre varia a seconda se viene misurato sui prezzi al consumo o sui prezzi all'ingrosso.  Con LCP il PT sui prezzi al consumo è basso nel breve periodo a causa di rigidità nominali sul mercato di destinazione dei beni (lo dice Engel se non erro); altri (Aurora Ascione, Corsetti) affermano che sul grado di PT (in presenza di LCP) misurato sui prezzi al dettaglio incidono anche i servizi distributivi. In presenza di PCP invece il PT è pari a zero (Aurora Ascione, Corsetti) misurato sui prezzi all'ingrosso (ed il tasso di cambio ha una funzione riallocativa). Con il PTM i prezzi delle esportazioni vengono fissati nella valuta del mercato locale, a livelli diversi nei mercati di sbocco, facendoli varirare poco. In presenza di PTM i mercati sono segmentati c'è potere di mercato nella fissazione dei prezzi. Aumenta la variabilità del tasso di cambio e c'è scarsa riallocazione delle risorse. Il PT è incompleto. In questo terzo punto mi volevo riallacciare al discorso dei cambi fissi perchè alcuni economisti affermano che la teoria del PCP ritiene preferibile il regime di cambi flessibili mentre la teroia del LCP ritiene preferibile il regime di cambi fissi (perchè il regime di cambi flessibili genererebbe devizioni dalla legge del prezzo unico e non svolgerebbe un ruolo riallocativo delle risorse).

Queste sono le tre cose che volevo dire anche se mi sono espresso sicuramente male. Mi interessa molto capire il perchè il mancato aumento della produttività nel settore NT è dovuto a frizioni finanziarie o più in generale da cosa dipende la produttività nel settore NT.

Non commento nel merito sulla questione centrale dell'articolo di Monacelli (la relazione tra ingresso nella moneta unica e produttività) perché, al di là dello zelo di alcuni fautori di euroexit, credo che sia poco interessante, e per il resto l'articolo la tratta in modo più che esauriente.  Mi limito invece a segnalare alcuni aspetti che sono risultati non del tutto chiari, nell'eventualità che questo susciti discussioni interessanti.  Anzitutto: (dalla seconda parte, sez. b.3):

 

E’ chiaro che tutte queste sono ipotesi e domande ben diverse da “euro = cambio fisso”, e quindi (soprattutto) dal suo (azzardato) corollario: usciamo dall’euro e riprendiamoci la flessibilità del cambio. È altresì vero che massicci (e potenzialmente pericolosi) flussi di capitale colpiscono le economie in ogni parte del mondo, indipendentemente dal fatto che abbiano adottato cambi fissi o flessibili. Esempi macroscopici recenti di paesi con cambi flessibili e con importanti problemi di gestione dei flussi di capitale sono la Turchia e il Brasile. È paradossale notare che molti dei paesi che fronteggiano flussi di capitale massicci tendono ad adottare ex-post regimi di cambio fisso o semi-fisso, proprio per evitare l’eccesso di apprezzamento della valuta

 

Qui non ho ben capito se Monacelli intenda dichiararsi a favore delle politiche di questi paesi - ma potremmo aggiungere altri casi più recenti, come l'Indonesia. In tutti questi casi, non si tratta esattamente di paesi all'avanguardia nel campo della stabilizzazione macroeconomica.

Dalla discussione su Twitter ricavo il link ad un interessante paper: Engel C. (2011) Currency Misalignments and Optimal Monetary Policy: A Reexamination, che effettivamente sembra rivalutare la non completa flessibilità dei cambi, almeno nella misura in cui si suggerisce il targeting dei prezzi al consumo (che è effettivamente una politica più "rigida" rispetto ad altre possibilità, ad esempio il prezzo dei beni prodotti).  Ma non mi è chiaro come questo possa spiegare le politiche dei paesi emergenti.  Piuttosto, c'è da temere che il perseguimento della stabilità del cambio da parte di questi paesi abbia avuto altre motivazioni, che per intenderci non sarebbero neanche troppo dissimili da quelle che Bagnai ha ipotizzato per l'Italia.

Certamente più rilevante è il ruolo dei cambi fissi come semplice politica di commitment contro l'inconsistenza dinamica, ma resterebbe da paragonare questa politica ad altre possibilità, altrettanto non-discrezionali e rules-based. (Ad esempio molte economie emergenti sono esportatrici di commodities, e ciò ha portato alcuni autori a suggerire "peg the export price" come una migliore approssimazione alla stabilizzazione economica.)  Quella del cambio fisso come politica di commitment per eccellenza (lasciando a parte il caso delle unioni valutarie) potrebbe essere nulla più che una moda per certi aspetti dannosa.

E in ogni caso, sembra quantomeno intuitivo che la causalità vada nel senso [rigidità più o meno accentuata del tasso di cambio] --> [effetto destabilizzante dei flussi di capitale e opportunità di politiche di stabilizzazione].  Il paragrafo citato sembra dare per scontato che sia vero l'opposto, e sarebbe utile una spiegazione a riguardo.

Un altro punto non del tutto chiaro è nella prima parte, dove si discute dello shock petrolifero.  Anche se in quel contesto è un esempio puramente illustrativo, mi sembra che venga affrontato in modo così sintetico da risultare poco chiaro se non ingannevole, soprattutto per una questione che per certi aspetti è di stretta attualità.  Nella prima parte dell'articolo si legge:

 

Con costi energetici più alti, le imprese subiscono un aumento dei costi marginali di produzione (correnti e futuri). A parità di impiego di lavoro, quindi, sarà per loro efficiente (cioè sarà “un equilibrio”) aumentare i prezzi. Siccome aggiustare i prezzi è costoso (per svariati motivi, anche qui la letteratura è immensa), le imprese decideranno di aumentarli meno di quanto farebbero se non ci fossero costi di aggiustamento (e in più sulla base di quanto ci si aspetta che saranno i costi marginali in futuro). Perciò parte della risposta dell’impresa sarà via i prezzi, parte via una riduzione della quantità di produzione.

 

Ora, in un regime di concorrenza imperfetta, dove il caso normale è che il costo marginale sia minore del prezzo fissato dall'impresa, non sembra empiricamente rilevante il caso in cui una resistenza all'aumento dei prezzi da parte della singola impresa causa un calo del PIL.  Di solito uno shock petrolifero viene considerato come shock di markup (nel modello NK) con un meccanismo un po' più complesso, che in particolare potrebbe prestarsi a politiche di stabilizzazione.

E in ogni caso, tutta quella discussione sembra dare quasi per scontato che gli shock petroliferi siano stati la causa dell'inflazione galoppante degli anni '70, ad esempio degli Stati Uniti.  Questa tesi viene talvolta ripetuta come una sorta di vulgata nei manuali di macroeconomia, ma ben guardare i dati (ad esempio la crescita piuttosto sostenuta del PIL reale negli Stati Uniti, 2.6% dal 1973 al 1981), sembra che la responsabilità principale sia da attribuire alla politica monetaria che in quel periodo appariva completamente disancorata.  Sarà un caso, ma il prezzo del petrolio negli anni 2000 è passato da 20$ a oltre 140$, in un ambiente di inflazione bassa.