Premessa
Oramai lo sanno anche le pietre: la graduale e persistente caduta (del tasso di crescita) della produttività aggregata dei fattori (o TFP), cominciata nei primi anni ’90, è il malessere macroeconomico principale dell’Italia. La produttività totale dei fattori è quella parte della crescita aggregata dell'economia che non può essere spiegata con la mera crescita nell'impiego di capitale e lavoro. Perciò è una misura dell’efficienza complessiva con cui i fattori di produzione vengono impiegati nel sistema economico, oltre che della loro qualita'. Nel lungo periodo la crescita di TFP spiega gran parte delle differenze di reddito pro capite tra paesi. Uno dei miti che circolano (pericolosamente) nel Paese è che, in Italia, il rallentamento della produttività sia dovuto, tout court, all’introduzione dell’euro. Questa tesi circola sulla stampa, nella blogosfera e nella pubblicistica nostrana.
Chiariamo subito un punto decisivo (spesso lasciato nel vago per comodità). Per “introduzione dell’euro” intendiamo la transizione a un sistema di cambi fissi per una piccola economia aperta(quale è l’Italia). Quindi, non intendiamo tutto l’apparato di politiche economiche complementari (si noti, non tutte strettamente necessarie) che la creazione dell’Unione Monetaria ha portato con sè (rapporto deficit PIL, debito-PIL, etc..). Questo chiarimento è cruciale perchè coloro che propongono la tesi “euro implica caduta produttività” sono anche coloro che richiedono a gran voce una uscita dall’euro, proprio per tornare a godere del margine della flessibilità del cambio. È per questo, ma solo per sintesi espositiva, che talvolta defineremo la tesi “euro-causa-caduta-produttività” la tesi di “euro-exit”.
La domanda che analizzeremo va quindi riformulata così:
L’adozione di un sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi ha causato una caduta del tasso di crescita della produttività? Che relazione può esistere tra flessibilità del cambio nominale e crescita della produttività?
La domanda è scientificamente molto interessante (studenti di PhD, prendere nota). Per cercare di rispondere distinguerò tra (i) come la tesi viene (seppur implicitamente) presentata in alcuni ambienti accademici italiani (e/o nella blogosfera, con un certo impatto nel policy discourse [1]), e (ii) come, modestamente, studierei io la questione che la domanda sottende.
Uno sguardo all’andamento di TFP nell’area euro
La tavole qui sotto riportano alcuni dati su (i) crescita della produttività totale dei fattori (TFP) nei paesi euro durante i primi anni della moneta unica, e prima della crisi del 2007-08; (ii) crescita della produttività del fattore lavoro (LP) in Italia. La distinzione tra TFP e LP è importante, torneremo a breve su questo punto.[2]
Tavola 1. Tasso di crescita della produttività totale dei fattori (TFP) (fonte OECD, Productivity Database. Frequenza: annuale) | |||||
1985-90 | 1990-95 | 1995-00 | 2000-05 | 2005-11 | |
Belgium | 1.6 | 1.5 | 1.4 | 0.4 | .. |
Canada | -0.5 | 0.7 | 1.3 | 0.5 | -0.1 |
Finland | 0.8 | 1.3 | -0.2 | -0.2 | 0.1 |
France | 1.7 | 1.1 | 1.3 | 0.7 | 0.1 |
Germany | .. | .. | 1.1 | 0.7 | 0.8 |
Ireland | 3.3 | 3.5 | 4.3 | 1.9 | 0.7 |
Italy | 1.4 | 1.2 | 0.3 | -0.4 | -0.6 |
Japan | 3.1 | 0.7 | 0.7 | 1 | 0.6 |
Netherlands | 1.1 | 0.5 | 1.2 | 0.9 | .. |
Portugal | .. | .. | 2.5 | 0.1 | .. |
Spain | 0.8 | 1.3 | -0.2 | -0.2 | 0.1 |
United Kingdom | 1.3 | 0.8 | 0.5 | -0.5 | 1.5 |
United States | 0.7 | 0.7 | 1.5 | 1.7 | 0.8 |
Tavola 2. Tasso di crescita della produttività del lavoro (LP) (fonte OECD Productivity Database. Frequenza: annuale, compounded) | |||||
1985-90 | 1990-95 | 1995-00 | 2001-07 | 2007-11 | |
Austria | 0.4 | 0.4 | 1.9 | 2 | 0.7 |
Belgium | 2.4 | 2.4 | 2.1 | 1.5 | -0.6 |
Canada | 0.3 | 1.6 | 2 | 1 | 0.5 |
Finland | 3.5 | 3.1 | 2.8 | 2.5 | -0.5 |
France | 2.2 | 2 | 2 | 1.5 | 0.3 |
Germany | 2.5 | 2.5 | 1.8 | 1.6 | 0.2 |
Greece | 1 | 0.4 | 2.9 | 3.1 | -1.4 |
Ireland | 3.6 | 3.8 | 6.1 | 2.5 | 2.8 |
Italy | 2.2 | 2.1 | 0.9 | 0.2 | -0.1 |
Japan | 4.5 | 2.1 | 2 | 1.6 | 1.8 |
Netherlands | 1.6 | 0.9 | 1.8 | 1.8 | 0.1 |
Portugal | 1.7 | 3.8 | 3.5 | 1.4 | 1.1 |
Spain | 1.4 | 2.6 | 0.2 | 0.7 | 1.6 |
United Kingdom | 1.4 | 2.9 | 2.5 | 2.4 | 0.2 |
United States | 1.2 | 1.2 | 2.4 | 2 | 1.5 |
Euro Area | 1.2 | 1.2 | 1.2 | 1.3 | .. |
È ben evidente (e ben nota) la riduzione del tasso di crescita sia di LP che di TFP in Italia. Ciò che colpisce, però, sono due dati. Primo, confrontando il periodo 1995-2000 (lustro pre-euro) con quello 2000-2005 (lustro post-euro), il rallentamento della produttività totale è trend diffuso tra le economie industrializzate, anche se non generalizzato. Secondo, confrontando gli stessi due periodi, la caduta della produttività (sia totale che del lavoro) riguarda quasi tutti i paesi dell’euro, sia quelli della cosiddetta periferia (esclusa la Grecia), che la Germania.
Da cui due osservazioni iniziali. Primo, se il problema è l’adozione dell’euro stricto sensu, perchè il rallentamento di TFP e LP dalla metà degi anni '90 in poi colpisce anche diversi paesi al di fuori dell'eurozona? Non sorge il dubbio che si tratti di un declino generalizzato e strutturale nelle economie industrializzate? Secondo, perche' il rallentamento delle misure di produttivita' italiane avviene tra i cinque ed i dieci anni prima delle altre?
Come vedremo dettagliatamente sotto, la tesi centrale di “euro-exit” è che sia stato l’eccessivo iniziale apprezzamento reale del cambio (dovuto a un errato tasso di conversione lira-euro) a generare (attraverso i canali che discuteremo) la caduta di produttività. Se questo vale per noi suppongo valga anche per quegli altri paesi dell'area euro la cui produttivita' ha rallentato nel periodo post-2000 (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Portogallo). Qui ci scontriamo subito con un quasi-teorema di impossibilità. Il tasso di cambio reale è un prezzo relativo. È quindi logicamente impossibile che tutti i paesi che hanno adottato l’euro abbiano simultaneamente fissato il tasso di cambio reale a un livello iniziale “troppo apprezzato”. In un mondo con 2 paesi, A e B, è ovvio che il cambio sovrapprezzato del paese A corrisponde a quello eccessivamente deprezzato del paese B. Se veramente la causa originale è il misallineamento del cambio reale, questa non può certo spiegare il fatto che la produttività sia rallentata in quasi tutti i paesi dell’unione monetaria. Non sembra possibile che tutti i paesi, con l’ingresso nell’euro, abbiano simultaneamente sovrapprezzato il loro tasso di cambio. Basterebbe questa evidenza per generare un iniziale scetticismo sul presunto effetto diretto che muove da adozione dell’euro a produttività. Il rallentamento del tasso di crescita di TFP e LP e è in realtà un trend strutturale di lungo periodo che riguarda tutti i paesi industrializzati (e l'area dell' euro in particolare), indipendentemente dal regime di cambio.
Euro e produttività: la visione degli Euro-exiters
Anche se mai presentata in questi termini, la tesi ”Euro implica caduta produttività” è metodologicamente scomponibile in due step teorici indipendenti, più un semplice corollario. Il primo step coinvolge la relazione tra cambio fisso e domanda. Il secondo step riguarda la relazione tra domanda e produttività. I due step della tesi “Euro implica caduta produttività” sono:
- Step 1. Passaggio a Euro (= introduzione cambio fisso) implica contrazione della domanda (in particolare nel settore dei beni commerciabili) per prodotti italiani.
- Step 2. Nel lungo periodo, la domanda è la determinante principale della produttività del lavoro (cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn).
- Corollario. Se step 1 e 2 sono veri, la contrazione di domanda dovuta all’ingresso dell’Italia nell’euro avrebbe causato la contrazione di TFP.
Per motivi logici ed espositivi, conviene discutere i due step in ordine inverso. Cominciamo in questo post dallo Step 2 e rimandiamo alla seconda parte la discussione dello Step 1.
Step 2: Breve periodo, lungo periodo e (presunta) legge di Kaldor-Verdoorn
Come detto, centrale nello step 2 della tesi di euro-exit è la cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn (KV)[3]. Senza divagare in storicismi, questa “legge” altro non è che una semplice ipotesi di rendimenti di scala crescenti. Vale a dire: la produttività marginale di un fattore (es: lavoro) cresce al crescere della quantità di quel fattore utilizzata nella produzione. Non discuterò certo qui la veridicità di questa ipotesi[4]. Mi limito a suggerire, per cominciare, alcuni elementi di criticità della cosiddetta legge KV, elementi a mio avviso molto forti.
Una prima serie di obiezioni
Quattro aspetti mi sembrano particolarmente problematici.
a) Produttività del lavoro vs. TFP. La legge di KV, nella sua formulazione originale, e per come è trattata nella letteratura cosiddetta post-keynesiana, postula una relazione tra crescita della quantita' prodotta e crescita della produttività del lavoro (LP); e non crescita di TFP. Eppure la tavole mostrate in precedenza indicano che la caduta in Italia (ma non solo in verità) è anche della produttività totale dei fattori (TFP). Mantenendo strettamente le lenti teoriche kaldoriane, come si spiega la più generale caduta di TFP, ben più cruciale da un punto di vista dell’evoluzione del sistema economico italiano?
b) Endogeneità. La legge KV postula una relazione tra crescita del PIL (dY)[5] e crescita della produttività del lavoro (dLP). L’assunzione decisiva è che dY causa dLP. Ma tale relazione (si veda Kaldor 1975, e tutta la letteratura seguente[6]) è testata via regressioni di forma ridotta (del tipo dLP = a + b dY) usando dati da diversi paesi. Perchè queste regressioni abbiano un benchè minimo senso statistico è noto che dY deve essere esogeno a dLP (cioé non deve essere causato da esso). Eppure, il problema di endogeneità è quasi abbagliante. È evidente che dY causa dLP, ma e' altrettanto evidente che vale anche il viceversa, cioè che dLP causa dY. Quest'ultimo nesso di causalita', infatti, e' un supposto della teoria stessa, inclusa la KV: che esiste una funzione di produzione secondo la quale i fattori generano prodotto e piu' produttivi sono piu' prodotto generano. In parole povere, per i non esperti, se anche raccogliessimo dati su crescita media di produttività e prodotto per 100 paesi, stimassimo la relazione suddetta, e trovassimo che la crescita della produttività del lavoro è associata positivamente a quella del PIL (e cioè stimassimo un coefficiente b positivo nell'equazione sopra), le conclusioni sul reale meccanismo microeconomico sottostante (rendimenti crescenti a livello di impresa, learning-by-doing, costi fissi di entrata sul mercato?) sarebbero vuote. Perchè si tratterebbe di sola e semplice correlazione statistica.[7] Notate che trucchi retorici come utilizzo di "Granger causality" per stabilire causalita' vanno bene, appunto, per la retorica anti-euro ma non possono risolvere la piu' profonda questione qui posta.
c) Domanda, offerta, e teoria dell’equilibrio. Da dove può provenire l’ipotesi Kaldoriana, apparentemente estrema, che dY sia esogeno rispetto a dLP nel lungo periodo? Nella formulazione di Kaldor, e nella letteratura seguente, l’ipotesi che dY sia esogeno rispetto a dLP è motivata dall’assunzione che, nel lungo periodo, dY non sia vincolata dal lato dell’offerta. Torneremo a breve su questo punto decisivo, ma l’idea che la crescita del reddito nel lungo periodo non dipenda da fattori di offerta è semplicemente il contrario di quanto tutta la macroeconomia moderna ritiene ovvio dagli anni ’70 in poi.[8]
Mi limiterò qui a chiarire un aspetto sul quale esiste, a mio avviso, una confusione gigantesca nel dibattito macroeconomico (soprattutto italiano, ma non solo). L’idea centrale è così riassumibile. Non si tratta, come ancora un certo mondo accademico keynesiano tradizionale pretende, di dover scegliere a quale campo, setta, o fazione si appartiene ex-ante: quello di chi crede che “il reddito sia determinato da fattori di offerta” da un lato; quello di chi crede che “il reddito sia determinato dalla domanda”, dall’altro. La macroeconomia moderna ha superato da tempo la necessità di doversi schierare. Lo ha fatto introducendo l’idea che il reddito (o altre variabili maroeconomiche rilevanti) è determinato in equilibrio. Cioè sia dalla domanda che dall’offerta e, quindi, dalla loro interazione attraverso il sistema dei prezzi[9]. È proprio dall’incontro con la teoria dell’equilibrio che nasce la rivoluzione copernicana avvenuta nella macroeconomia dagli anni ‘70 in poi[10].
Indicare quindi come insostenibile l’ipotesi centrale di Kaldor (secondo cui dY è esogeno a dLP perchè nel lungo periodo il lato dell’offerta è irrilevante nel determinare la crescita del reddito) non vuol dire automaticamente trasformarsi da “domandisti” a “offertisti”. Perchè oramai, come detto, la macroeconomia moderna non è fatta nè dagli uni nè dagli altri; ma semplicemente da “equilibristi”. A mio avviso è questo il punto decisivo che molte delle posizioni cosiddette non ortodosse nella letteratura faticano ancora a riconoscere. Posizioni per le quali, quindi, il mondo va sempre diviso ex-ante in neoclassici (“offertisti) e keynesiani (“domandisti”). Quando invece il progresso della disciplina ha individuato proprio nella teoria dell’equilibrio la sintesi superiore.
Torniamo quindi alla relazione tra reddito e produttività. Ovviamente, in un modello metodologicamente corretto, dLP e dY sono entrambevariabili endogene. Un approccio corretto di stima, quindi, richiederebbe un modello strutturale (a meno che non si pensi di trovare variabili adeguate che possano fungere da variabili strumentali per dY: correlate con dY ma non direttamente con dLP), in cui (appunto) dY e dLP sono determinati in equilibrio. Altrimenti, la relazione semplicemente non è testabile. Dedurne relazioni di causalità a livello macro è un salto metodologico che, mi sia permesso, lascia senza fiato.
d) Micro vs. macro. Ma supponiamo anche che il punto sub a) non sia rilevante. Nella letteratura esiste una tensione, ancora non risolta, tra la dimensione micro e quella macro che nella legge di KV viene trascurata. Non è chiaro, cioè, se rendimenti crescenti siano validi a livello micro (funzione di produzione della singola impresa, in interazione con la struttura di mercato prevalente) oppure a livello aggregato (macro). L’approccio di KV originale, basato su dati aggregati, presume che rendimenti crescenti valgano a livello aggregato (oltre che micro, anche se questo non è modellizzato o formalizzato in nessun modo). Il punto chiave però è questo: rendimenti crescenti a livello micro non implicano tout court rendimenti crescenti a livello macro. Il tema e' tecnicamente ostico e, se necessario, ci tornero' ma, credetemi, la implicazione logica proprio non esiste (per gli esperti: basta "convessificare" nel passaggio da piccole imprese con IR ad aggregato con CR). Ma in ogni caso: perchè la legge KV abbia plausibilità macro (e di questo c’è bisogno nello step 2), rendimenti crescenti devono valere a livello aggregato. E questo non è affatto detto. Quanto meno va dimostrato. Ed è un lavoro non indifferente che hanno provato a fare in tanti anche durante gli ultimi vent'anni ed arrivando a conclusioni opposte.
e) La legge vale nel breve o nel lungo periodo? Leggendo la formulazione originale di Kaldor e Verdoorn, è chiaro che l’ipotesi sottostante alla legge di KV sia che la crescita del reddito determina la crescita della produttività del lavoro nel lungo periodo. Quindi dLP nell’espressione sopra andrebbe interpretato come “crescita media della produttività del lavoro” e dY come “crescita media del reddito o PIL”. Questo punto non è cruciale di per sè, ma per un argomento sottostante. Il problema di endogeneità, infatti, anche in un’ottica di lungo periodo, rimane intatto nella sua fondamentale rilevanza.
Obiezioni macro
Prescindendo dalla specificità della legge di KV, aggiungo ora una serie di obiezioni macroeconomiche quasi immediate che riguardano la presunta relazione tra “crescita del reddito” e “crescita della produttività” (nella direzione di causalità dal primo verso il secondo).
a) Ancora su breve vs. lungo periodo. Come già detto, l’unica frequenza statistica in cui è plausibile parlare di relazione tra dY e dLP è quella di lungo periodo. Evidenza empirica recente mostra infatti che a frequenza cosiddetta di business cycle la correlazione tra produttività (del lavoro) e PIL (entrambi detrendizzati) ha mutato segno nei paesi industrializzati durante il periodo della Great Moderation (circa metà anni ottanta fino alla crisi recente): da positiva (quando crescita PIL aumenta, sale la produttività) a negativa. Vale a dire, la produttività del lavoro da prociclica è diventata anti-ciclica (o al massimo a-ciclica). Quindi, esattamente il contrario della legge di KV (se la volessimo applicare al breve periodo). Fernald (2013) (uno dei massimi studiosi mondiali di TFP e LP) mostra che la crescita della produttività (sia TFP che LP) negli USA è rallentata dal 2000 fino a pre-crisi negli USA. Cioè proprio in un periodo in cui la crescita media del PIL negli USA è stata molto sostenuta. Gali and Van Reins (2008) mostrano che un fatto stilizzato degli ultimi 20 anni è la cosiddetta vanishing procyclicality della produttività del lavoro. Barnichon (2010) mostra che, negli USA, la correlazione tra tasso di disoccupazione e produttività del lavoro ha cambiato segno, da negativo a positivo (quando la disoccupazione sale anche se la produttività sale).
b) È assodato quindi che la legge KV, ammesso che valga, vale solo nel lungo periodo. A frequenza di business cycle, la correlazione (non condizionata) tra dY e dLP è addirittura negativa da sempre in molti paesi europei. Già questo pone dei forti dubbi sulla relazione causale tra “euro e produttività”. Perchè? Assumiamo pure di fare il salto mortale da correlazione a “relazione causale”. Viene da chiedersi: è anche solo plausibile che una relazione causale che (se vale) vale strettamente solo nel lungo periodo, possa dispiegare i propri effetti istantaneamente? Vale a dire, è plausibile che entrando nell’euro l’Italia abbia un presunto shock negativo di domanda (vedi sotto), il quale a sua volta istantaneamente determina una caduta della produttività (del lavoro)?[11]
c) Il terzo punto macroeconomico è più ampio e lo discuto a parte nel seguito.
Il ruolo della domanda aggegata
Il tema scientifico più ampio, e direi decisivo, è però quello che riguarda il ruolo della domanda. Nelle tesi che alimentano le posizioni su euro-exit vale un principio centrale: la crescita del reddito è sempre determinata dalla domanda. Questa proposizione è una sorta di mantra della letteratura keynesiana tradizionale o delle cosiddette posizioni non ortodosse. Una specie di legge naturale.
Quando scrivo “crescita del reddito sempre determinata dalla domanda”, intendo sempre: cioè sia nel breve (a frequenza di business cycle) che nel lungo periodo. Il corollario è quindi che anche la crescita della produttività sia sempre determinata dal lato della domanda, sia nel breve che nel lungo. Queste conclusioni non sono sorprendenti: nell’universo scientifico keynesiano tradizionale, a differenza di tutta la macroeconomia moderna, la dinamica non esiste. Quindi la distinzione tra breve e lungo periodo è irrilevante. Meglio: è non data. Eppure, proprio nell’analisi di un problema come quello della transizione anticipata da un regime di cambi flessibili a uno di cambi fissi (l’euro), sembrerebbe ovvio, direi obbligatorio, che la dinamica e/o il ruolo delle aspettative fossero un elemento centrale di un qualsiasi modello.
Ne seguono però alcune criticità di fondo.
(i) Se il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, lo deve essere anche nel breve periodo. Eppure l’evidenza empirica (vedi sopra) ci dice che la correlazione tra dY e dLP nel breve periodo è negativa (o vicina a zero). Quantomeno a partire dalla cosiddetta Great Moderation (1985 in poi), che comunque include il periodo di inizio dell’euro.
(ii) Ma cosa vuol dire esattamente che il reddito è “determinato dal lato della domanda”? Abusando del ragionare per categorie, che questo sia vero nel breve periodo è visione coerente (nel senso che spiegherò sotto) con la macroeconomia moderna (e quindi con la teoria dell’equilibrio). In particolare, con tutto l’approccio cosiddetto New Keynesian (NK)[12]. Ciò che rende il reddito determinato dal lato della domanda è l’ipotesi congiunta che nel breve periodo la capacità produttiva sia data e che prezzi e/o salari nominali siano lenti nel loro aggiustamento.
Da qui una proposizione di base: il reddito è determinato dal lato della domanda se (e solo se) siamo nel breve periodo (cioè a frequenza di business cycle). In una parola: “breve periodo” e “reddito determinato dal lato della domanda” sono concetti logicamente intimi.
(iii) Breve ma importante digressione. In realtà il concetto di “ reddito determinato dal lato della domanda” è ben più complesso ed elaborato di quanto detto sopra. Lo spiego per dimostrare quanto sia fumoso invece nella letteratura keynesiana tradizionale (o eterodossa), in cui mancano del tutto (e direi per principio quasi) sia le microfondazioni, che (come già detto) la dinamica (cioè le due colonne portanti della macro moderna).
Ricorriamo ad un esempio. Supponiamo di essere in un mondo in cui i mercati sono imperfettamente concorrenziali e i prezzi sono rigidi nel breve periodo. Quindi le imprese hanno un minimo potere di mercato nel fissare i prezzi.[13] Supponiamo che si verifichi uno shock di offerta negativo: ad esempio, un aumento esogeno del prezzo del petrolio (che il prezzo del petrolio sia esogeno, cioè determinato sui mercati internazionali, è ipotesi ragionevole). Chiediamoci: che cosa succede in equilibrio a prezzi e produzione? E soprattutto: nel breve periodo, con prezzi rigidi, in che senso il reddito è determinato dal lato della domanda? Dopo tutto lo shock è dal lato dei costi di produzione, cioè proviene “dal lato dell’offerta”.
Con costi energetici più alti, le imprese subiscono un aumento dei costi marginali di produzione (correnti e futuri). A parità di impiego di lavoro, quindi, sarà per loro efficiente (cioè sarà “un equilibrio”) aumentare i prezzi. Siccome aggiustare i prezzi è costoso (per svariati motivi, anche qui la letteratura è immensa), le imprese decideranno di aumentarli meno di quanto farebbero se non ci fossero costi di aggiustamento (e in più sulla base di quanto ci si aspetta che saranno i costi marginali in futuro). Perciò parte della risposta dell’impresa sarà via i prezzi, parte via una riduzione della quantità di produzione.
Ad un dato sentiero dei prezzi fissato dall’impresa, corrisponderà una certa quantità di prodotto domandata dai consumatori (determinata a sua volta dalle scelte di consumo degli agenti). Poichè nel breve periodo la capacità produttiva è data, la quantità di produzione fissata dalle imprese sarà pari esattamente alla quantità domandata a quel dato (sentiero di) prezzo. In questo senso (e solo in questo senso) il reddito è “determinato dal lato della domanda”.
In risposta a un incremento del prezzo del petrolio (shock di offerta negativo) avremo quindi due implicazioni:
(i) Reddito (PIL) e prezzi si muovono in direzione opposta (incidentalmente, questo e' il fatto stilizzato noto come "stagflazione" che ha fatto crollare tutta l’impalcatura keynesiana negli anni ’70 quando le economie avanzate sono state colpite dagli shock petroliferi ed abbiamo avuto sia inflazione che caduta del reddito);
(ii) Il reddito è determinato dal lato della domanda anche se lo shock che colpisce l’economia proviene dal lato dell’offerta.
Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol direche possiamo vivere in un mondo in cui: (i) gli shock sono dal lato dell’offerta, (ii) reddito e prezzi si muovono in direzione opposta, e comunque (iii) il reddito è determinato dal lato della domanda (ma nel senso spiegato sopra).[14] E’ proprio questo il motivo per cui nella macroeconomia moderna la letteratura keynesiana tradizionale si è arenata scientificamente. Perchè non è stata in grado di far coesistere l’idea che il reddito sia determinato dal lato della domanda con il fatto che gli shock possano originare dal lato dell’offerta. Nel mondo keynesiano tradizionale, “reddito determinato dal lato della domanda” implica, sempre, che prezzi e produzione si muovano nella stessa direzione (se la domanda sale, produzione e prezzi salgono, e viceversa).
La macroeconomia moderna si è quindi affrancata da concetti come “demand-determined”, abbracciando la teoria dell’equilibrio. Proprio per poter spiegare che cosa succede al comportamento simultaneo di prezzi e produzione anche quando gli impulsi sono dal lato dell’offerta (tipo shock petroliferi). Il concetto prevalente diventa quello di produzione e prezzi di equilibrio, cioè il risultato endogeno (ottenuto attraverso l’aggregazione del comportamento individuale di imprese e consumatori) dell’effetto di shock esogeni simultanei ed alternativi (appunto, sia di domanda, che di offerta).
Torniamo ora al nostro tema. Il problema dello step 1 della tesi in discussione, non è quindi il breve periodo. Bensì, il lungo periodo. Perchè la legge di KV possa avere anche solo plausibilità, è necessario assumere che il reddito sia determinato dal lato della domanda nel lungo periodo. Se questo è vero, poichè la crescita del reddito determina la crescita di LP nel lungo periodo, allora segue che la domanda determina la crescita di LP nel lungo periodo.
Da cui la seguente obiezione: è plausibile che la crescita del reddito sia determinata dalla domanda sempre, cioè non solo nel breve periodo quando i prezzi nominali sono rigidi, ma anche nel lungo periodo, quando le rigidità di prezzi e salari sono irrilevanti? Evidentemente no. Poichè tale ipotesi richiederebbe assunzioni del tutto implausibili sul grado di rigidità di prezzi e salari. E incoerenti con tutte le stime micro (cioè a livello di varietà individuali di singoli prodotti) sulla frequenza di aggiustamento dei prezzi.[15]
Quindi, delle due l’una. O si crede che il reddito sia determinato dal lato della domanda, e quindi (per gli argomenti esposti sopra) l’ottica è necessariamente di breve periodo (cioè un orizzonte statistico lungo il quale è ragionevole immaginare che prezzi e salari siano lenti ad aggiustarsi). Oppure si crede nella legge di KV. Le due cose insieme non possono stare. Perchè nel breve periodo la legge di KV è confutata: come detto, la produttività del lavoro è (diventata) anti-ciclica[16]. Nel lungo periodo, possiamo anche ipotizzare che la legge di KV valga, ma allora logicamente l’idea che la produzione sia determinato dal lato della domanda è insostenibile.
Riassumendo su Step 2.
Per riassumere, l’illusione ottica di fondo che emerge nello step 2 della tesi post-keynesiana su euro-exit è molteplice. Schematicamente lo step 2 della tesi di euro-exit postula:
domanda --> dY --> dLP
Come detto, i problemi sono due. Primo, si assume una relazione “dY causa dLP” (con segno positivo), in base a una assunzione di esogeneità di dY statisticamente del tutto arbitraria. In un mondo con rendimenti crescenti nell’aggregato, può certamente aversi che dY e dLP siano legati positivamente nel lungo periodo.[17] Ma questo avviene appunto “in equilibrio”, il che vuol dire che dY e dLP si influenzano a vicenda.
Quindi la relazione tra dY e dLP va testata empiricamente ricorrendo a metodi econometrici strutturali, in cui entrambi le variabili sono potenzialmente endogene (cioè si influenzano a vicenda). Inoltre, tale approccio richiede che l’ipotesi di rendimenti crescenti valga nell’aggregato, e non solo a livello di singola impresa.
Secondo, se anche accettiamo che la relazione tra dY e dLP esiste, dY deve intendersi come output di equilibrio. E non come output determinato dalla domanda aggregata. Il problema è che nell’ottica keynesiana tradizionale, la distinzione tra “reddito determinato dal lato della domanda” e “reddito di equilibrio” semplicemente non esiste. Perchè in quel mondo, come detto, il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, anche in un orizzonte implausibile come il lungo periodo. Che però è esattamente quello in cui è postulata la legge KV.
Nel mondo keynesiano tradizionale è quindi meccanico concludere che se “dY causa dLP” (ammesso che ci dimentichiamo di tutti i problemi di endogeneità di cui sopra) questo voglia dire anche che “la domanda causa dLP”. Quando, in realtà, al massimo è il reddito di equilibrio che causa dLP, e non la domanda che causa dLP. E, come detto, il reddito di equilibrio altro non è che… il reddito di equilibrio! Il quale, quindi, può essere guidato sia da shock di domanda come da shock di offerta (o da entrambi).
Un esempio di confusione tra breve e lungo periodo.
Per fare un esempio, in questo post http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html, l’autore (Alberto Bagnai) mi sembra cada vittima della stessa confusione (o meglio non distinzione) tra breve e lungo periodo. Per corroborare la tesi secondo cui, con l’euro, il cambio sovrapprezzato avrebbe causato una caduta della domanda e quindi della produttività (nel settore dei beni traded), l’autore mostra l’andamento temporale di cambio reale ed esportazioni. Indicando (anche se in assenza di alcuna evidenza statistica) che nel 1996 un aprezzamento reale della lira ha causato una caduta delle esportazioni. Fin qui tutto accettabile, anche se solo supposto qualitativamente.
Il punto è in realtà un altro. E’ quasi ovvio che nel breve periodo un apprezzamento del cambio reale si accompagni a una caduta di export (domanda estera).[18] Ma appunto, nel breve periodo! Infatti è facile osservare che, nei trimestri successivi all’apprezzamento del 1996, il saldo della bilancia commerciale riassorbe lo “shock”. Eppure, poichè la caduta nel tasso di crescita di TFP e LP in Italia inizia circa in quel periodo (1995-96)[19], questo dato è utilizzato ad esempio di shock di domanda che causa la caduta di produttività (nel settore traded). In altri termini: una contrazione ciclica della domanda estera avrebbe causato un (quasi) immediato effetto sulla produttività. La contraddizione è evidente. Infatti, se tale effetto (da domanda a produttività) è mai possibile, lo è perchè vale la suddetta legge di KV. Ma la stessa legge di KV, come detto, vale solo nel lungo periodo. Come si possa spiegare una trasmissione così rapida, quasi immediata, rimane un mistero.[20]
E veniamo allo step 1: l’introduzione del cambio fisso ha determinato un persistente shock negativo di domanda nel settore dei beni commerciabili internazionalmente? La risposta nella puntata successiva, la prossima settimana.
[1] Si veda ad esempio l’enciclopedico sito http://goofynomics.blogspot.it/. Un compendio è presentato in Bagnai (2012). Un esempio di cosiddetta tesi “post-keynesiana” che spiega la caduta di TFP con una caduta della domanda è discussa qui http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html.
[2] La produttività del lavoro sintettizza il grado di efficienza con cui il fattore lavoro viene impiegato nella produzione. E’ solitamente misurata come prodotto per unità di ora lavorata (o di lavoratore impiegato). La produttività totale (TFP) misura l’efficienza complessiva di tutti i fattori di produzione, lavoro e capitale. La sua misurazione è più complessa e solitamente indiretta.
[3] Kaldor (1966), Verdoorn (1949).
[4] Diversi modelli cosiddetti di crescita endogena hanno ipotesi di rendimenti crescenti.
[5] D’ora in poi utilizzeremo i termini reddito, prodotto e PIL come sinonimi.
[6] Per una analisi empirica recente sulla legge di KV nei paesi OCSE si veda Ofria e Millemaci (2008). La metodologia applicata è la stessa di Kaldor (1975), cioè basata su una regressione di dLP su dY.
[7] Supponiamo che produttività sia misurata con LP. Tipicamente LP si misura come output (Y) per ora lavorata (N). Perciò le “regressioni kaldoriane” implicano regredire d(Y/N) = dY-dN, come variabile endogena, su dY, intesa come esogena. Come possa non darsi un problema di endogeneità, visto che dY compare da entrambi i lati della regressione, rimane un mistero.
[8] La letteratura (post o vetero) keynesiana tradizionale rifiuta l’idea che fattori di offerta influenzino la crescita dell’output, nel breve o nel lungo periodo. Tale idea viene ancora liquidata a priori come concettualmente errata semplicemente perchè parte del cosiddetto “paradigma neoclassico”.
[9] Ovviamente quanto e come pesino i fattori di domanda e/o offerta dipende dall’ottica temporale, breve vs. lungo periodo. Questo spiega perchè un altro degli elementi centrali della macroeconomia moderna sia stato quello di introdurre in modo esplicito, cioè attraverso strumenti matematici adeguati, il ruolo della dinamica.
[10] Si vedano gli sterminati contributi di Lucas, Sargent e Prescott (LSP). Enfatizzo quindi il fatto che più di ogni altro il contributo di LSP è proprio la teoria dell’equilibrio. Altri elementi del loro programma di ricerca, quale il ruolo della concorrenza perfetta, del contributo di shock di produttività al ciclo economico, etc., sono da tempo stati messi in discussione. Si noti, inoltre, che abbracciare le fondamenta della teoria dell’equilibrio non coincide (come spesso superficialmente suggerito) con “aspettative razionali”. Aspettative razionali implica teoria dell’equilibrio, ma il viceversa non è necessariamente vero. Infatti, molta della macroeconomia moderna lavora oramai in un’ottica di deviazione dalle aspettative razionali, ma certamente non di deviazione dalla teoria dell’equilibrio.
[11] Tralascio il fatto che, come già detto, se anche accettassimo la tesi dell’istantaneità, la legge KV non sarebbe in grado di spiegare la caduta di TFP.
[12] La letteratura è gigantesca, non mi dilungo, per tutti si vedano i libri di testo di Mike. Woodford, Jordi Gali, David Romer, i modelli DSGE utilizzati dalle banche centrali, o i lavori di Krugman con Gauti Eggertson.
[13] Ai lettori più attenti sarà già chiaro che se le imprese hanno “potere di mercato” per fissare i prezzi, già ci siamo allontanati dall’ipotesi di concorrenza perfetta dei modelli (cosiddetti) neoclassici.
[14] Vale a dire, la correlazione condizionata tra prezzi e reddito (condizionata, cioè, a shock di offerta tipo variazioni del prezzo del petrolio) è negativa. Si noti che nel mondo (post) keyenesiano il concetto di correlazione condizionata non esiste. In quel mondo, ogni correlazione fra variabili è per definizione incondizionata. Perchè il concetto stesso di correlazione condizionatarichiede la formulazione, alla base, di un modello strutturale (o microfondato che dir si voglia). E’ questa una delle ragioni principali della svolta nella macroeconomia moderna negli anni ’70.
[15] La letteratura al proposito è voluminosa, crescente, e ben nota. Si veda ad esempio Bils e Klenow (2005), Nakamura e Steinsson (2006).
[16] Esiste una letteratura molto attiva su questo appunto, imperniata sul ruolo delle imperfezioni nel mercato del lavoro. Si veda Gali e Van Reins (2010), Barnichon (2010), e più generalmente il libro di testo di R. Shimer (2010).
[17] Ad esempio, è altamente plausibile che la relazione tra dY e dLP abbia un vettore di cointegrazione. Ma questo non implicherebbe ovviamente nulla sulla relazione di causalità tra le due variabili.
[18] Nello stesso post l’autore discute le ipotesi alternative: cambio reale causa export, o viceversa. Dimenticando che la via corretta è sempre la terza via, cioè che entrambe le variabili sono endogene.
[19] Ogni affermazione sulla presenza di un break strutturale nella TFP dovrebbe ovviamente essere supportata da test econometrici adeguati.
[20] Senza contare il fatto che, nel breve periodo, e come già ricordato, la produttività del lavoro è anti-ciclica (o a-ciclica).
Ci vuole molto per digerire tutte queste portate e comunque non possiedo assolutamente gli strumenti necessari per porre questioni di rilevo a quanto scritto, ma da grande appassionato al tema "crisi europea" sono contento che qualcuno abbia finalmente intrapreso una critica alle (legittime) tesi anti-euro con i toni e gli argomenti giusti. Attendo con impazienza il seguito e la (spero adeguata) replica da chi si fa portatore delle tesi opposte. Pongo solo una domanda, da perfetto ignorante: perchè ritiene che la Granger causality sia un "artificio retorico"? Non ha una sua validità scientifica nel determinare la direzione di causalità? Grazie Gianluca Frattini
Granger causality è un test debole, spesso inconclusivo, per testare la esogeneità di una variabile rispetto ad un'altra. La debolezza di GC è stata ampiamente dimostrata da Sims negli anni '70, che quindi ha lanciato il programma di di ricerca degli structural VARs (vector autoregression) proprio per superare il problema. Nei VAR non c'è nessuna assunzione ex ante sulla endogeneità o esogeneità di una variabile, ma "tutto è endogeno a tutto". Il caso di dY e dLP è un caso macroscopico di due variabili endogene. Usare GC test per stabilire che una è esogena rispetto ad un'altra è come stabilire che una donna sia incinta semplicemente guardandole la pancia