Horror Economics (II)

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Dove sostengo che - al di là delle enormità che proferisce, nonostante l'opacità dei suoi ragionamenti, al di sotto del borioso registro della sua prosa da compito in classe al classico – Giulio Tremonti è per una volta riuscito a dire una cosa mezzamente saggia. Usando un minimo di economia e un paio di fatti cercherò di spiegare perché è così.

Non escludo che GT (noto ai lettori di questo blog come il "commercialista da Sondrio")abbia profferito tal saggezza per caso. Brani d'economia dell'orrore come i seguenti lo suggeriscono.

È finita in Europa l'"età dell’oro". È finita la fiaba del progresso economico continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la “cornucopia” del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro. I prezzi – il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari – invece di scendere, salgono. [...] Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni. [...] Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare peggio chi stava già peggio. Sta meglio solo chi stava già meglio. E non è solo questione di soldi. Perché la garantita sicurezza del benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale.

Se non siete pasciuti consiglioPolitica”, è uno spasso. Il mio obiettivo, però, è di argomentare che GT ha ragione sulla questione del libero commercio con l’Asia - e torto su tutto il resto, ma questo lasciamolo per la terza puntata di Horror Economics.

Mi dichiaro dunque (lo sono da tempo: mi convinse Ed Leamer 18 anni fa) a favore di un moderato e transeunte neo-protezionismo.

 

Sul piano economico la "globalizzazione liberista" è, in via di principio, una cosa vantaggiosa per tutti. Lavoro e capitale sono liberi di muoversi laddove le “condizioni ambientali” (i “fixed factors”, come li chiama Ron Jones) sono più favorevoli all’attività produttiva che intendono svolgere, minimizzando il costo di qual che sia il bene/servizio (bene, d’ora in poi) ch’essi intendono produrre. Poiché i beni si commerciano liberamente e sono prodotti ai costi minimi, essi andranno ai consumatori che meglio li valutano, massimizzando quindi il benessere sociale. Detto altrimenti: a globalizzazione funzionante ognuno produce nel posto giusto ed a costi minimi il bene che sa produrre relativamente meglio di qualsiasi altro, ed i consumatori consumano quello che vogliono pagandolo al minor prezzo. Il giardino dell’eden (con la minuscola), insomma.

La globalizzazione liberista è dovuta ad una sequenza d’innovazioni. Rinfreschiamoci la memoria: le riforme economiche avviate in vari paesi asiatici ed est-europei dagli anni ’80 in poi; la creazione del WTO e l’adesione al medesimo di paesi precedentemente chiusi al commercio internazionale, India e Cina soprattutto, ma anche Messico, Brasile, Russia ...; lo sviluppo del sistema di comunicazioni digitali via internet; un incessante progresso nel settore dei trasporti aerei e navali; innovazioni finanziarie che hanno portato alla creazione di “banche” planetarie e che permettono di muovere capitali su scala mondiale a costi di transazione infinitesimi. Sia chiaro: contrariamente a quanto i teorici dell’orrore economico vogliono farci credere, tutte queste sono ottime e benefiche innovazioni.Però, c’è un però.

 

Quest'insieme di innovazioni ha avuto le seguenti conseguenze. Più di tre miliardi di persone (chiamiamoli "A") ha cominciato a produrre, consumare e vendere beni secondo metodi e criteri che prima erano l'appannaggio di un numero più ristretto di persone, i circa 700 milioni che sino a fine degli anni '80 vivevano in Nord America, Europa dell'ovest e Giappone (chiamiamoli B). Il costo opportunità del lavoro offerto da (una frazione molto grande di) questi 3 miliardi di persone è enormemente basso; anche la loro produttività è bassa, ma non altrettanto perché in molti dei paesi in cui A vive esistevano sistemi educativi di massa ragionevolmente efficienti, oltre che tradizioni millenarie di frugalità, dedizione al lavoro, senso del commercio e della libera iniziativa. Grazie alle altre innovazioni descritte sopra è oggi relativamente semplice - lo è da un decennio e lo sarà ancor più fra un altro - trasferire la produzione di un'enorme quantità di beni di medio-alta qualità in questi paesi, ed agevolmente finanziare l'investimento che questo comporta. In pratica, solo i beni tecnologicamente più avanzati (gran parte della ricerca scientifica, l'educazione superiore, le attività finanziario-assicurative sofisticate, la ricerca e sviluppo legate ai settori informatico, farmaceutico, bio-ingeneristico, avionico-spaziale, dei trasporti, la parte progettuale del sistema moda e disegno, e poche altre cose) rimangono un chiaro vantaggio comparato di quei 700 milioni (che ora sono 850) che vivono nelle zone del mondo in cui sino agli anni '80 il sistema di libero mercato era confinato. Per un numero sempre più alto di beni il vantaggio comparato di produrli sta passando ai tre miliardi di nuovi arrivati, mentre i vantaggi comparati degli 850 milioni di B si stanno riducendo.

Nessun problema, dice la teoria economica "acquisita": il fatto che molti di quelli che erano i vantaggi comparati di B siano ora passati ad A è un bene, non un male. Gli stessi beni, o un numero maggiori di beni, vengono ora prodotti a costi più bassi. Poiché questi beni vengono liberamente commerciati essi arriveranno anche nei negozi di B ad un prezzo inferiore all'anteriore. Giustissimo, dico io, questo ragionamento non fa una grinza, ed infatti è vero che un numero enorme di beni di medio-alta qualità sono ora a disposizone in quantità maggiori che 20 anni fa, e ad un prezzo più basso. Il problema è, aggiungo, che una fetta sempre più ampia degli 850 milioni di B sembra incapace di comprarseli perché non sa produrre nulla di nuovo e ciò che produce deve venderlo a prezzi che implicano un valore aggiunto molto basso.

Impossibile o al più temporaneo, dice di nuovo la teoria economica "acquisita", e ti spiega il perché. L'innovazione rende A più produttivo e questo mette in difficoltà B. Questo dura per poco: se B si sforza, stimolato dalla concorrenza, diventa tanto produttivo quanto A ed il mercato per il bene che ora producono entrambi cresce perché il costo di produzione cala rapidamente. Mal che vada il capitale e lavoro di B si separano, vanno ognuno per la propria strada, cercano qualcos'altro da fare e diventano così bravi a farlo che rende loro un reddito uguale o maggiore (perché i prezzi dei beni son scesi) di quello anteriore all'arrivo di A; anche in questo caso sia A che B stanno meglio di prima. Insomma, al più ci sono dei temporanei costi di aggiustamento ma, una volta superato lo shock iniziale tutto funziona per il meglio.

In effetti, se uno guarda l'esperienza storica dal 1948 in poi risulta difficile dare torto alla teoria economica "acquisita". Dopo la seconda guerra mondiale sei paesi europei sono entrati nella CEE, hanno cominciato a commerciare uno con l'altro e le cose sono andate come la teoria economica "acquisita" predice: qualche costo di aggiustamento, ma dopo pochi anni tutto meglio. La CEE ha cominciato a commerciare sempre più liberamente con gli USA - lentamente, a dire il vero, e molto "un pelino alla volta": sessant'anni dopo i "cieli" tra USA ed Europa stanno finalmente aprendosi ... - e ad aggiungere un paese europeo dietro all'altro, sino a diventare la EU27, e tutto ha funzionato come la teoria economica "acquisita" suggerisce, anche se c'è stato qualche costo d'aggiustamento extra e qualche sussidio o compenso qua e là si son spesi. Gli USA han fatto lo stesso: han liberalizzato il loro commercio con vari paesi asiatici, il Giappone in particolare, ed anche in questo caso tutto ha funzionato meravigliosamente. Beh, insomma, qualche problema c'è stato: un presidente Bush ci è rimasto così male che ha vomitato in pubblico per cercare di attenuare i costi di aggiustamento, ma da almeno quindici anni possiamo dire che tutto è sotto controllo. Idem per NAFTA, anche se son altri quindici anni che la stiamo "implementando" e non abbiamo ancora finito di farlo (chiedere, per esempio, ai camionisti ed ai produttori d'arance, limoni e barbabietole da zucchero ...). Insomma, è andata più o meno come la teoria economica "acquisita" predice per sessant'anni, perché dovrebbe cambiare ora?

Perché? Perché 100/300 (NAFTA) =1/3; perché 70/210=1/3 o 50/300=1/6 o 75/375=1/5 (vari allargamenti EU); perché 300/450=2/3 (USA ed EU, più o meno), e via elencando. Ed invece 3000/750=4, e quest'ultimo rapporto (un po' a spanne per ottenere un numero intero) descrive l'arrivo di A nel mondo di B a partire dal 1990! Gli ordini di grandezza contano, eccome che contano, nei processi di aggiustamento. Quattro è DODICI volte più grande di un terzo e VENTIQUATTRO volte più grande di un sesto: e se NAFTA (che pure stiamo ancora "implementando") ha creato il casino che ha creato negli USA, chiediamoci cosa il Big Bang dell'arrivo di A nel mondo di B possa creare e stia creando.

Quando le cose hanno un ordine di grandezza dieci o venti volte più grande, il processo di transizione descritto tre paragrafi prima può andare diversamente. In particolare, può (dopo che il lavoro ed il capitale di B si son separati) continuare così. Il capitale di B scopre che vi sono in A lavoratori produttivi abbastanza da fare un prodotto che compete con quello che i lavoratori in B prima facevano, ma costosi un decimo dei medesimi. Nel frattempo, i lavoratori di B cercano di trovare delle cose da fare in cui siano di nuovo i primi del mondo, ma scoprono di non riuscire a trovarle. Sarà perché hanno tra i 40 ed i 50 anni, sarà perché hanno fatto solo la scuola media inferiore in un paese in cui t'insegnano il latino e Leopardi ma non come funziona un sistema operativo, sarà perché trasferirsi a 300 km di distanza è una specie di salto nel buio in un paese dove l'intero sistema è costruito per impedire la mobilità territoriale, sarà perche in giro per il paese di chimici e biologi buoni che mettano su una farmaceutica d'avanguardia e magari t'assumano come autista di camion, o addetto al riscaldamento, o factotum in laboratorio, non ce ne sono poi molti anzi quasi nessuno perché tutti fanno gli avvocati, i notai ed i commercialisti oppure emigrano, sarà perché Malpensa invece d'essere un aeroporto è una vergogna per cui i grandi congressi internazionali li fanno altrove e la tua idea di fare il catering con il Mario e l'Elisa non sembra funzionare, o sarà perché in giro per Napoli ci sono le spazzature da dieci anni e quindi i turisti milionari han rinunciato di venirci, sarà come sarà ma tu il nuovo vantaggio comparato non lo trovi proprio. Per cui t'accontenti di cercare di produrre ancora le cose che producevi prima accettando lo stesso stipendio reale di dieci o quindici anni fa perché, ripete ogni mattina il principale prima di mettersi a lavorare al tornio di precisione, "ea concorensa dei cinesi me copa, porca mastea".

Cose del genere, ovviamente, accadono in tutte le transizioni. E la teoria economica "acquisita" suggerisce che da un lato si possono attenuare con appropriati "trasferimenti" e che, dall'altro, sono quantitativamente piccole rispetto ai guadagni globali. Questo è perfettamente logico, ma a volte lo è solamente. I trasferimenti, questa volta, non ci sono stati. C'erano stati, e fin troppo, sia con la CEE che con i suoi progressivi allargamenti; ci son stati con NAFTA e ci son stati in Italia ed in Europa quando sono arrivati giapponesi e coreani (la "riconversione industriale" degli anni '70 e primi anni '80) ma questa volta non ci son stati per nulla. Che sia anche perché continuiamo a farli, i trasferimenti, alle persone sbagliate, tipo gli agricoltori che stiamo proteggendo da una transizione finita da due decenni? Sia quel che sia, i trasferimenti compensativi della teoria "acquisita" nessuno li ha visti, ed A è venti volte (cento volte, se si controlla per i differenziali nel costo del lavoro) maggiore di prima. Per questo sono cavoli amarissimi, e per questo il maledetto momento in cui si comincia tutti a guadagnarci dalla globalizzazione liberista sembra non arrivare mai!

La teoria economica "acquisita" ama gli stati stazionari ed i mondi senza "frizioni". Personalmente - sia quando penso alla politica che alla ricerca - io preferisco studiare le dinamiche di transizione nei mondi con le "frizioni". Le "frizioni", in economia, NON sono quelle cose che ti fa il barbiere sui capelli dopo lo shampoo e che ti piacciono tanto, né quel pedale che schiacci per cambiar marcia. Sono cose del tipo: spostare 5000 lavoratori dalla produzione di maglioni alla produzione di computers richiede anni di riqualificazione professionale, mobilità territoriale ed investimenti in nuovi impianti; oppure: spostare 500 artigiani che producono mobili all'attività di scrittura di software per videogiochi richiede un tempo ... infinito, perché è impossibile farlo. Le frizioni, detto in due parole, sono il mondo reale che la teoria economica "acquisita" tende a scordarsi. E qui chiarisco perché continuo a mettere "acquisita" fra virgolette: perché c'è abbondante ricerca economica d'ottima qualità che le transizioni e le frizioni non le considera perdite di tempo poco eleganti ma aspetti rilevanti del mondo in cui viviamo, aspetti da tenere in considerazione quando si cerca di valutare una politica o l'altra. Che non goda della simpatia dell'establishment, non ci piove. Che venga frequentemente scordata quando si ricorre alla "teoria economica acquisita" per dibattere un avversario politico, anche su questo non ci piove. Ma è buona economia, e non ho ancora trovato qualcuno capace di dimostrarmi convincentemente che, quando si studiano le riforme, i costi di transizione non dovremmo inserirli nel calcolo del benessere sociale.

Se così facciamo e veniamo all'Italia (in particolare, ma anche all'Europa ed in misura minore agli USA) scopriamo che la scelta tutta politica di lasciare che la Cina (e l'India e svariati altri) entrassero con un big bang nel WTO, non è stata particolarmente illuminata e va probabilmente rivista. Per la banalissima ragione detta sopra, nel caso dell'Europa e degli USA: la grandezza dell'impatto rende enormi i tempi ed i costi di aggiustamento, lasciando decine di milioni di lavoratori incapaci di aggiustare i propri vantaggi comparati in tempo utile (utile dal loro punto di vista, ossia prima di morire). Per un paio di addizionali e drammatiche ragioni (ma sempre banalissime per i lettori di questo blog) nel caso italiano. Perché in Italia i soggetti economici esposti all'impatto della globalizzazione liberista NON sono i quasi quattro milioni di dipendenti pubblici, né la grande maggioranza dei più di sei milioni di lavoratori autonomi e professionisti, né i circa tre milioni (qui vado a naso, i conti esatti non ho avuto tempo a farli) di lavoratori dipendenti molto protetti dei settori dei grandi servizi (telefonia, trasporti, elettricità, acqua, gas, banche ed assicurazioni, ...), né (ma questi sono qualche centinaio di migliaia al più) i molto sussidiati coltivatori diretti, né i quasi tre milioni che operano nel turismo e nelle costruzioni (moltissimi dei quali sono poi immigranti da A). No, quelli che devono fare i conti con A sono i 7-10 milioni di lavoratori dell'industria e dei servizi commerciabili (e non protetti) privati. Quelli che sono esposti da sempre alla concorrenza internazionale, quelli che pagano le tasse per quasi tutti, quelli che cinquant'anni fa hanno fatto il miracolo economico e che poi, miracoletto dopo l'altro, han tenuto in piedi il paese, quelli che dovrebbero innovare ma non ci riescono per le tante ragioni che anche su nFA abbiamo documentato e che non sto a ripetere. Insomma, esposta al big bang è la classe operaia, che suda che soffre e lavora assieme ai managers, i tecnici industriali, ed i piccoli imprenditori. Questa, signore e signori, è B: quella parte del paese che la Casta va massacrando da decenni.

La colonna portante dell'economia italiana è stata esposta ad uno shock competitivo cento volte maggiore dei precedenti proprio negli anni in cui il carico fiscale su di essa saliva, la qualità dei servizi pubblici scendeva, la scuola e l'università pubblica si disfacevano e la capacità del sistema Italia di offrire supporto a processi di riconversione, adattamento ed innovazione veniva brutalmente meno. In questa situazione estremamente sfavorevole - e di cui B è in parte responsabile perché, alla fine, l'orrenda Casta che da decenni massacra il paese anche B ha collaborato ad eleggerla - la capacità di ristrutturarsi, d'innovare e di pagare quei costi d'aggiustamento che possano generare nuovi e migliori vantaggi comparati, tale capacità viene meno. In tale situazione risulta quindi non solo immorale, ma anche poco utile e controproducente, spiegare che nello stato stazionario staremo tutti meglio e che occorre aumentare e non ridurre il grado di liberalizzazione e concorrenzialità a cui B è esposta. In primo luogo perché o ben il grado di liberalizzazione e concorrenzialità dell'economia si comincia ad aumentarlo per davvero ed in modo brutale, riducendo drasticamente il carico fiscale che B sopporta, licenziando un milioncino di dipendenti pubblici e facendo lavorare i rimanenti, eliminando i privilegi dei sei milioni di autonomi e professionisti (ed un paio di milioni di essi così facendo), imponendo che il Sud si mantenga, eccetera, eccetera, oppure è meglio smetterla di far praticare la moralità concorrenziale solo ad una minoranza della popolazione, e sempre la stessa perdippiù. In secondo luogo perché, come le tensioni continuamente crescenti sia negli altri paesi europei che negli USA confermano, anche laddove il sistema pubblico è altra cosa, la Casta è solo classe politica e le categorie protette sono meno e meno protette, anche in quei paesi il processo di aggiustamento allo "stato stazionario" della globalizzazione liberista predetto dalla teoria economica "acquisita" sembra molto, ma molto duro da sopportare per svariate decine di milioni di persone.

Perché, poi, nella realtà allo stato stazionario non si arriva mai: siamo sempre in transizione e le innovazioni sono troppo frequenti per permettere il raggiungimento d'una situazione stabile. La politica dovrebbe governare i processi e le transizioni, non aspettare gli stati stazionari, che sono poi altamente instabili. Non solo: nella realtà le scelte politiche le dovremmo fare per massimizzare l'utilità di quelli che esistono hic et nunc, non di quelli che verranno. Ricordatevi San Michele aveva un gallo: quando li portano alla prigione attraversando in barca la laguna, Manieri spiega che "non noi, ma i figli dei figli dei nostri figli vedranno la luce del socialismo ...". Ecco, non vorrei che per difendere l'idea della globalizzazione a scapito della realtà dei processi di transizione non ci traformassimo in ideologhi socialisti del XIX secolo. L'ideologia, di qualunque colore sia, non la trovo affatto interessante.

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Commenti

Ci sono 64 commenti

Caro Michele, benvenuto (o bentornato, o benrimasto-ma-non-avevi-mai-dato-l'-impressione-di-esserci) nel mondo gradualista di di Ferdinando Galiani. Son lieto di apprendere che anche gli economisti Euclidei conoscono... Ginevra (cfr. http://socserv2.socsci.mcmaster.ca/~econ/ugcm/3ll3/galiani/bleds.htm , Second dialogue).

Il punto metodologico è: qual è il confine entro il quale tener conto dei costi di transizione? Perché, ad esempio e fatte le debite proporzioni, non dovrebbero essere parimenti considerati anche nel caso microeconomico di tutte quelle famiglie a cui porteranno via la casa perché per molti anni degli pseudo-notaio-fai-da-te, frutto immediato di una liberalizzazione avventata di quellaspecifica professione, sbaglieranno a registrare il relativo atto di compravendita?

 P.s.: Solo una piccola obiezione: finché nelle scuole italiane si insegneranno latino e Leopardi continueremo ad avere un (piccolo) vantaggio comparato (o credi forse che i nostri stilisti e designer non siano figli della nostra cultura classica?). Quando insegnaranno (solo) ad usare un sistema operativo, saremo alla pari dei cinesi... e quindi del tutto rovinati!  

 

 

Il tuo post scriptum però secondo me è consolatorio e poco aderente alla realtà (D&G hanno una formazione classica? Magistretti, Ponti o Castiglioni hanno beneficiato così tanto del latino e di Leopardi?)

 

 

100/300 per Nafta e 3000/750 per la Cina vuol anche dire che se in A (Europa-US) riesco a fare un frip-frop (qualunque prodotto) competitivo ne vendo 100 in Mexico e Canada (Nafta) e 3000 in CIna. Se capisco bene questo non entra nei tuoi conti, ma potrei sbagliarmi.

 

Concordo naturalmente sul fatto che in Italia chi paga la Cina sono i lavoratori dell'industria, che sono anche quelli che  pagano tasse sempre piu' alte. Le transizioni, per evitare che qualcuno ci muoia abbisiognano di trasferimenti da chi vince a chi perde, e ad oggi i trasferimenti in Italia stanno andando da chi perde a chi non gliene frega nulla perche' protetto a vita da tutte le Cine. 

 

Articolo molto bello, è da parecchio che cerco qualcuno che esprima in modo chiaro l'anello di congiunzione tra i vantaggi espressi dalle teorie liberiste e la quotidianità di chi è costretto a "riconvertirsi".

Se possibile ti chiedo di indicarmi le tue fonti e qualche lettura divulgativa, grazie.

 

 

Il punto metodologico è: qual è il confine entro il quale tener conto dei costi di transizione? Perché, ad esempio e fatte le debite proporzioni, non dovrebbero essere parimenti considerati anche nel caso microeconomico di tutte quelle famiglie a cui porteranno via la casa perché per molti anni degli pseudo-notaio-fai-da-te, frutto immediato di una liberalizzazione avventata di quella specifica professione, sbaglieranno a registrare il relativo atto di compravendita?

 

in astratto, secondo me, non esiste un confine ottimale. il confine lo definisce la politica. tenendo conto spiegato da Boldrin. voglio dire: se parti dal fatto che non è vero che la globalizzazione è solo bene (come qualcuno ha voluto credere per anni), allora da politico (e da cittadino quando voti) devi decidere anche quale sia il tuo confine accettabile.

con riferimento a Boldrin:

 

La politica dovrebbe governare i processi e le transizioni, non aspettare gli stati stazionari, che sono poi altamente instabili. Non solo: nella realtà le scelte politiche le dovremmo fare per massimizzare l'utilità di quelli che esistono hic et nunc, non di quelli che verranno.

 

intanto questa frase (non so perché) mi fa venire in mente quanto ripetuto da un economista spesso attaccato su nFA (something like: nel lungo periodo saremo tutti morti...). più nella sostanza, io ci andrei molto, ma molto piano con certe affermazioni. altrimenti poi ti ritrovi con certi sistemi pensionistici che ti pagano baby pensioni dorate e non-baby pensioni "immeritate". a scapito di chi? a scapito di quelli che quando venivano fatte quelle leggi erano i "quelli che verranno" del post.

a parte questa osservazione, concordo con l'idea di fondo di Boldrin. il mondo è in perenne transizione, è tutt'altro che statico (o stazionario).

 

 

in astratto, secondo me, non esiste un confine ottimale. il confine lo definisce la politica. tenendo conto spiegato da Boldrin. voglio dire: se parti dal fatto che non è vero che la globalizzazione è solo bene (come qualcuno ha voluto credere per anni), allora da politico (e da cittadino quando voti) devi decidere anche quale sia il tuo confine accettabile.

 

Concordo. E quindi ribadisco che sono MOLTO contento di leggere un articolo di questo tipo su nFA. Diciamo che, per quanto mi riguarda, va a colmare l'unico - o uno dei pochi (ché sennò qui si montano la testa...) - punti deboli dei magnifici autori di questo blog, ovvero la loro a volte eccessiva fiducia nelle ricette automatiche derivanti dai modellini analitici "back-of-the-envelope" (anche se a volte la envelope è moooooolto grande...). Ricette che, invece, come molto bene dice Michele, vengono meno non appena si complicano un pochino i modelli stessi, p.e. includendo i costi di transizione oppure, aggiungo io, anche elementi di incertezza non quantificabile (la true uncertainty di Keynes e Knight, in quanto diversa dal mero risk) o di non completa razionalità degli agenti (who is the representative agent?). Come già ho scritto una volta, l'economia NON è una scienza come la fisica, e neppure come la medicina, baby, and there's nothing you can do about it (All the President's Men, 1976). In questo la lezione del buon Galiani 1770 è ancora perfettamente valida.

 

 

Ottimo articolo, persino troppo. Però quando fu definita la scaletta dei tre articoli "Horror Economics", probabilmente questo non era stato pensato poichè la polemica tremontiana è venuta dopo (anche se in effetti Tremonti è anni che gira sull'argomento). Sembravano essere articoli più orientati ad una analisi del sistema finanziario. Poco male, anzi, benissimo, perchè per quel che mi riguarda mi è stata offerta una prospettiva che non avevo considerato che accresce il mio tentativo di comprensione delle cose.

Se la terza parte dovesse tornare ancora sulla finanza, avrei un paio di domande (sempre che siano pertinenti: se sono stupide me lo si dica chiaramente, tanto non sono un addetto del settore quindi non ho un amor proprio da difendere :-) )

E' possibile che la crescita del sistema finanziario degli ultimi due decenni abbia buttato all'aria l'equilibrio tra capitale monetario, credito ed accumulazione?

Vi è uno scostamento in crescita fra l'andamento del profitto complessivo e l'incremento del debito complessivo ? Cioè, l'indebitamento agisce contro i profitti in modo pericolosamente eccessivo? tanto da essere una causa di lungo periodo di un system-risk?

 

 

A me pare che tu prenda per buona l'esistenza di una discontinuita' che e' asserita da parecchie parti, ma che in pratica non c'e' stata: quella del manufacturing nel primo mondo e' stata una morte molto, molto annunciata. Prendi il caso dei tessili: da quanto tempo era che si sapeva che il Multi Fibre Arrangement era temporaneo, e che sarebbe stato prima o poi rimpiazzato dalle normali regole del GATT (poi WTO)? Da quando era nato, cioe' dal 1974! I paesi industrializzati hanno avuto 30 anni per gestire la transizione: lo sapevano i governanti, gli industriali e i sindacalisti. Che hanno fatto? Nulla: nel 2005 EU e USA hanno chiesto al WTO altri tre anni di quote, e ciononostante l'EU ha bloccato in dogana decine di milioni di capi perche' tali quote erano state esaurite "troppo rapidamente".

Lasciati dire la mia impressione sulla differenza tra East Asia e Italia (e in certa misura il resto del "primo mondo"): nella prima, per migliorare il proprio tenore di vita si imparano cose utili e si lavora; nella seconda si cercano "soluzioni" per via politica: che finiscono solo per dare piu' potere alla Casta (sempre entusiasta sul "primato della politica"), ritardare il cambiamento strutturale e in definitiva impoverire il paese. Il protezionismo e' il tipico rappresentante di queste malaugurate iniziative, e fa il massimo del danno soprattutto in condizioni di emergenza (come a suo tempo mostrato dallo Smoot-Hawley Tariff Act). Good luck to you all...

 

 

Ma Michele sa bene che regulations temporanee non esistono, perche' hanno incentivi perversi a non risolvere i problemi per cui ;e regulations sono state "temponaneamente" imposte. L'inconsistenza temporale della politica e' meccanismo potentissimo.

Io resto con i miei conti  back of the envelope  che Nicola non ama: tutte le volte che li faccio mi danno inequivocabilmente free trade.

Resto dell'idea che il punto importante di questo articolo e' notare che i trasferimenti necessari per affrontare le trasformazioni dovute alla Cina siano di natura opposta a quelli che le istituzioni occidentali sono preparate ed inlcinate ad effettuare.  

 

In una situazione di globalizzazione di queste proporzioni, quale sarebbe l'impatto di introdurre un politica protezionista in un solo paese? A me sembra che sarebbe ancora piu' deleterio perche' renderebbe piu' difficile avere accesso a prodotti piu' economici ad una classe che si impoverirebbe comunque (perche' comunque diminuirebbero le esportazioni di tutti i beni non competitivi).

E' un po' come quelli che ce l'hanno tanto con wal-mart: chi compra da wal-mart lo fa perche' ne ha la necessita' economica non certo perche' fa chic; gli chiudi wal mart e lo metti nei guai. O sbaglio?

 

 

 

I paesi industrializzati hanno avuto 30 anni per gestire la transizione: lo sapevano i governanti, gli industriali e i sindacalisti. Che hanno fatto? Nulla: nel 2005 EU e USA hanno chiesto al WTO altri tre anni di quote, e ciononostante l'EU ha bloccato in dogana decine di milioni di capi perche' tali quote erano state esaurite "troppo rapidamente 

 

secondo me la discontinuità c'è stata dagli anni novanta in avanti. comunque, indipendentemente da ciò, l'argomentazione di Boldrin regge. cioé, data la situazione attuale come variabile di stato, lasciare che la transizione si dipani senza controllo crea un numero di loosers troppo grande.

altro discorso è chiedersi: se avessero fatto qualcosa già nel 1974, oggi avremmo meno loosers? io non lo so. immagino che Boldrin dirà la sua. ma resta il fatto che nel 1974 era abbastanza difficile prevedere un break strutturale come la caduta del muro, la rivoluzione di internet e la rivoluzione produttiva in cina...

 

 

 

altro discorso è chiedersi: se avessero fatto qualcosa già nel 1974,

oggi avremmo meno loosers? io non lo so. immagino che Boldrin dirà la

sua.

 

Il punto e' che non e' stato fatto nulla in 30 anni di preavviso, e gli imprenditori, sindacalisti e politici che oggi si dichiarano presi di sorpresa mentono sapendo di mentuccia. E' a loro che gli operai disoccupati devono presentare il conto.

 

ma resta il fatto che nel 1974 era abbastanza difficile prevedere

un break strutturale come la caduta del muro, la rivoluzione di

internet e la rivoluzione produttiva in cina...

 

Ma guarda che questi sono tutti stati eventi fortunati, che hanno aumentato la produttivita' e allargato i mercati: come in tempi passati lo furono la scoperta dell'America, o l'invenzione della stampa a caratteri mobili, della macchina a vapore o del telaio Jacquard. Tutti a suo tempo crearono frizione (e richieste di protezione piu' o meno temporanea, e talora rivolte anti-tecnologiche), ma i paesi che abbracciarono il cambiamento furono quelli a trarre il massimo vantaggio dagli eventi.

Lettura consigliata a chi pensa che l'arrivo di manufatti a basso costo sia una tragedia: la parodistica Petizione

dei fabbricanti di candele, ceri, lampade, candelieri, lampioni,

smoccolatoi, spegnitoi; e dei produttori di sego, olio, resina, alcool

ed in generale di tutto ciò che concerne l’illuminazione di Frederic Bastiat.

 

Pietro X, il punto di Enzo non e' solo che non ci sia stata la discontinuita', ma che non c'e' stata proprio a causa del protezionismo. Se questo e' vero, e io credo che lo sia, allora no che il ragionamento di Michele non regge.

 

 

Il Big Bang c'è stato perché i mercati interni di India e Cina erano nulli negli anni novanta, e sono tutt'ora trascurabili rispetto al totale dei beni prodotti in quei paesi. Proprio il rapporto 3000/750 indica che a mano a mano che cresceranno i bisogni interni, e le capacità di soddisfarli, l'impatto verso l'esterno diminuirà corrispondentemente. E non occorre dimenticare che, specialmente in Cina, il cambiamento economico non ha avuto un corrispettivo a livello politico. Quindi io sarei meno pessimista. Comunque è tardi per arginare il fenomeno: i buoi sono già scappati...

 

I motivi per cui non sono d'accordo con quanto scritto da Michele sono tanti. Corro il rischio di passare un po' per ignorante (visto che il Boldrin di solito dice cose fondate, mentre io congetturo) e elenco i primi che mi vengono.

1)"Mi dichiaro dunque a favore di un moderato e transeunte neo-protezionismo."

Io no, perché non credo nella buona capacità dei governi (e SOPRATTUTTO DI QUELLI ITALIANI) di "governare i processi e le transizioni". Non credo che un periodo di dazi/sussidi alla produzione industriale italiana che soffre la concorrenza asiatica sarebbe utile per ridurre i costi sociali dell'aggiustamento; quasi certamente, però, avremmo un'altra categoria di lavoratori quasi pubblici, un'altra lobby potente (7-10 milioni di voti!) che il giorno prima della fine dei sussidi occuperebbe qualche autostrada per rinnovarli.

2) Ma chi paga poi tutto ciò? Se si trattasse solo di escludere gli asiatici dal WTO, potremmo dire la collettività, i consumatori; ma vabbè, dobbiamo governare la transizione. Se però, come credo, dal WTO non esce nessuno e il neoprotezionismo si deve tradurre in qualche vantaggio fiscale/sussidio in favore dei tornitori padovani, dobbiamo chiedere qualche tassa in più. Chissà a chi toccherà. Previsione mia: aliquota supplementare per contratti flessibili per giovani stagisti.

3) Eticamente non mi paice l'idea che chi scrive le regole del gioco si prenda la libertà di escludere il più debole quando diventa più forte, e poi di riscriverle di nuovo quando ha aggiustato i problemi e può di nuovo competere alla pari.

4)"Non solo: nella realtà le scelte politiche le dovremmo fare per massimizzare l'utilità di quelli che esistono hic et nunc, non di quelli che verranno." C'è un sacco di gente in italia che c'è già e che non beneficia per niente di questo neoprotezionismo e che, oltre a sopportarne il "nuovo" costo, deve già ciucciarsi quello di un'istruzione superiore e universitaria scadente, dell'immobilità territoriale e sociale della nostra bella penisola.

 

Intanto, essendo il mio primo commento: complimenti, riuscite a farmi comprendere una materia, l' economia, che mi è quasi totalmente ignota.

venendo al dunque da icompetente mi viene un dubbio: se pure l' articolo fosse giusto, non crediamo che qualsiasi grado di protezionismo in Italia non sortirebbe l' unico effetto di creare altre sacche di privilegio? Non credo che, qualsiasi sia la classe dirigente nei prossimi anni, (comunque non molto diversa da quella degli anni scorsi), intenderà il protezionismo se non come una protezione di se stessi e dei propri interessi.

Riguardo il latino e Leopardi mi permetto di non concordare affatto: l' apertura mentale che offre, ancora oggi e nonostante il crollo del sistema scuola, un liceo classico, all' estero se lo sognano: pure se dopo si decide di fare gli ingegneri.

 

Condivido la richiesta di superare i modellini più semplici quando si parla di policy, mi piace meno la frase finale sullo hic et nunc, ma forse ho frainteso. 

Qui Brad DeLong su argomenti simili, con tanto di citazione da un gran libro di Polanyi: http://www.project-syndicate.org/commentary/delong75

 

Mi permetto alcune osservazioni (da non specialista).

Escludere la Cina dal WTO? interessante! chi glielo va a dire ai cinesi? puzza di terza guerra mondiale. Già per un po' di dazi si incazzano, figuriamoci se li si esclude dal WTO: quanto meno invadono Taiwan per ritorsione. Mi sembra un discorso utopistico, che stona nel contesto di questo blog.

Probabilmente, una buona leva su cui premere potrebbe essere quella dei diritti: non c'è neanche bisogno di arrivare a quelli sindacali, bastano i diritti umani. Ad esempio, minacciare l'esclusione dal WTO di quelli che non li rispettano. Tuttavia, ho paura che i diritti umani e la democrazia oramai abbiamo perso qualsiasi appeal: se Bush va ad inaugurare le Olimpiadi di Pechino, se l'Inghilterra impedisce ai propri atleti di esprimere il dissenso politico contro la Cina, per i diritti umani non c'è futuro.

Due cose sulla formazione scolastica (adoro questo argomento): prima di tutto, non c'è nessuna necessità di studiare l'inglese, tanto tra poco servirà molto di più il cinese. L'inglese "da computer" si impara anche senza studiarlo, quello oxoniense non serve nella vita. L'informatica, poi, è una cosa ambigua: se si tratta di saper usare il computer, anche quello non c'è bisogno di insegnarlo, i quindicenni di oggi sono molto più bravi dei trenta-quarantenni. Se si tratta di informatica vera, allora il discorso è diverso: per fare il programmatore di alto livello ci vuole soprattutto tanta matematica, la programmazione in sé è una cosa secondaria (forse qualcuno non sarà d'accordo).

A proposito degli studi classici: difenderò fino a esalare l'ultimo respiro il liceo classico italiano. Prima di tutto, perché è un unicum, non ha paragoni nel mondo, da difendere come patrimonio culturale irripetibile. Secondo, perché, per qualche misterioso motivo, la formazione classica permette di eccellere in qualsiasi campo dell'attività umana, incluso il campo dell'economia (sarò banale se cito i soliti Ciampi laureato in lettere antiche e Draghi con la maturità classica?). Mi si dirà: forse semplicemente vanno a fare il classico quelli che sono già bravi di loro, che eccellerebbero comunque, a prescindere dal tipo di formazione. Può darsi. Mi chiedo se esistono degli studi sulla correlazione tra gli studi classici e la riuscita nella vita adulta, tipo la prima retribuzione o il tempo di disoccupazione prima del primo impiego (ma penso che non esista, se no si saprebbe). Per conto mio, posso dire che nella mia facoltà (dove si va a studiare cinese, hindi, arabo, giapponese ecc) quelli che escono dai licei classici (o scientifici, ma tanto Leopardi c'è comunque) sono mediamente più bravi. Eppure, non hanno studiato cinese, ecc., al liceo, ma greco e latino.

La crisi dell'educazione scolastica in Italia si risolve solo con l'abbandono del permessivismo sessantottista, e con tanta matematica e fisica in più, anche al classico. Sono nato in un altro paese, e sono venuto in Italia a 13 anni: mi ricordo che il livello della matematica che mi si insegnava a quell'età nel mio paese in Italia l'ho rivisto solo quattro anni dopo, verso la fine del liceo. 

Per il resto, sono pronto a sostenere un dibattito sull'utilità degli studi umanistici per il progresso, anche tecnologico, dell'umanità, con tanto di esempi concreti, ma non vorrei usurpare lo spazio di questo blog, dove sono solo un ospite.

anche Greg Mankiw commenta il post ;)

http://gregmankiw.blogspot.com/2008/03/gains-from-trade.html

 

ipotesi 1: secondo me michele ci sta fregando.

si professa protezionista transeunte (ma siccome ha studiato rational choice sa che non c'e' nulla di piu' permanente di un temporaneo programma pubblico) e poi chiude l'articolo dicendo che bisogna fare le riforme liberali (e su questo sono d'accordo: se si vuole la globalizzazione perche' il mercato alloca efficientemente almeno fatelo funzionare 'sto mercato). cioe' tutta'sta solfa protezionista per tornare a dire che bisogna fare le riforme liberali per affrontare la globalizzazione?

ipotesi 2: nel caso in cui michele voglia veramente essere protezionista transeunte, ai calcoli back of the envelope di alberto aggiungerei la seguente considerazione sugli effetti del protezionismo transeunte.

[FULL DISCLOSURE: non sono contrario a priori ad una transizione smooth verso il nuovo equilibrio e considero il ragionamento di michele corretto. penso pero' che sia parziale nel senso che non ci sta dando la panoramica completa] se vogliamo avere un quadro completo due opzioni di policy in termini di costi-benefici vanno comparate. una e' quella discussa da michele, l'altra e' la sorellina che michele non ha guardato che dico in due parole sotto.

ovvero michele dice: "proteggiamoci un poco che riadattarci e' difficile e costoso". un po' di protezionismo ci risparmierebbe transizioni troppo dolorose. beh, sono d'accordo. tale situazione va pero' confrontata (in termini

di welfare, se volete) con la seguente.

ammettiamo che ci proteggendoci un poco riduciamo i costi della transizione. tale

protezione pero' porta altri costi (alcuni illustrati sopra in commenti precedenti, altri li

illustro in cio' che segue) oltre ai benefici illustrati nell'articolo.

mi chiedo, e' possibile che l'integrale dei costi di

transizione, a transizione completata, sia comunque piu' grande nel

caso protezionista che nel caso liberista a causa di una transizione

piu' lunga e di una serie di costi non riportati nell'articolo (discorso equivalente se guardiamo agli integrali dei benefici meno costi nei due casi)?

non e' che facciamo la fine di F.D.Roosevelt che a voler

limitare i costi della grande depressione ha allungato i tempi della

ripresa e causato problemi strutturali di lungo periodo?

in parole povere, non e' che per ridurre i costi della transizione causati dalla globalizzazione ci andiamo ad infilare in un altro ginepraio con costi (altri, e non considerati nell'articolo da michele) ancora piu' alti? del tipo: che incentivo avranno a cambiare le imprese se protette? che cosa succedera' alla nostra competitivita' di lungo periodo se ci proteggiamo? come faranno le risorse a riallocarsi se non propriamente stimolate dai prezzi relativi di mercato? e se perdiamo il treno? e come reagiranno gli altri paesi ad un aumento di protezionismo? la cina sara' contenta di vedere i nostri mercati chiusi? siamo sicuri che esista una cosa chiamata protezionismo transeunte? cioe' michele assume che il suo programma "protezionista transeunte" non cambiera' altri elementi del modello... mentre invece tante altre cose potrebbero succedere...

cioe' in seguito alla prima guerra mondiale abbiamo proceduto verso il protezionismo commerciale e finanziario per ragioni interne "di riaggiustamento", dopo la globalizzazione dei primi decenni del XIX sec. in quel caso e' iniziata la corsa alla chiusura totale e poi il casotto che sappiamo. non penso che il nazismo sia di nuovo alle porte, ma quello e' un esempio del fatto che una volta che ci si inizia a chiudersi non si sa mai quando ci si ferma (e di solito al protezionismo si accompagna il socialismo).

 

 

 

in parole povere, non e' che per ridurre i costi della transizione causati dalla globalizzazione ci andiamo ad infilare in un altro ginepraio con costi (altri, e non considerati nell'articolo da michele) ancora piu' alti? del tipo: che incentivo avranno a cambiare le imprese se protette? che cosa succedera' alla nostra competitivita' di lungo periodo se ci proteggiamo? come faranno le risorse a riallocarsi se non propriamente stimolate dai prezzi relativi di mercato? e se perdiamo il treno? e come reagiranno gli altri paesi ad un aumento di protezionismo? la cina sara' contenta di vedere i nostri mercati chiusi? siamo sicuri che esista una cosa chiamata protezionismo transeunte? cioe' michele assume che il suo programma "protezionista transeunte" non cambiera' altri elementi del modello... mentre invece tante altre cose potrebbero succedere...

 

certo, può essere. ma anche no. ci vorrebbe un super modello teorico capace di incorporare tutta l'eterogeneità del mondo, tutte le frizioni e tutte le variabili di stato che caratterrizano oggi l'economia di... Mondo. dopo di che dovremmo risolverlo (senza dimenticare che dobbiamo scegliere come pesare le utilità dei diversi agenti/stati/continenti). a quel punto sapremmo dove stanno i costi più alti.

in alternativa si può fare quello che suggerisce Michele. usare le conoscenze economiche per cercare di fare qualche ragionamento concreto su cosa sia meglio fare da policy maker. e in questo contesto, data la discontinuità/break/change of path, forse è meglio ragionare su qualcosa da fare.

 

Mi sembra vi siano tre questioni serie da affrontare: (i) la consistenza

temporale del "neo-protezionismo" che invoco e, più in generale, i modi concreti in cui attuarlo; (ii) il mio ignorare che i 3000 milioni di A non solo producono ma

comprano anche i beni prodotti da B; (iii) l’aspetto redistributivo, ossia chi

paga per le liberarizzazioni, se c’è un “timing” appropriato per le medesime e se "la Cina" è la causa di tutti i mali (chiaro che no!).

Sono state sollevate anche delle

osservazioni “tecniche” abbastanza male assortite, comunque le discuto in (iv).

Poiché l’editor di nFA m'ha fatto stasera, per imprudenza e fretta mia, il peggior scherzo in due anni, credo non riuscirò ad andare oltre il punto (ii), visto che devo riscrivere tutto. Scusatemi, domani continuo.

(i) Avrei dovuto essere meno lapidario (ma l'articolo è già troppo lungo così)

e chiarire che le proposte concrete che GT ha avanzato non sono certo le mie. Non

ho usato l’espressione “mezzamente saggia” a caso: GT ha individuato un

problema, i rimedi che propone sono assurdi oltre che controproducenti. Questo

è parte della terza puntata d’economia dell’orrore, quindi tralascio.

Un lettore osserva che forse i buoi sono già scappati, ed è parzialmente vero.

Un altro suggerisce che far uscire la Cina dal WTO potrebbe portare a conflitti militari: condivido, anche se chiedo appunto di riflettere sui fatti riportati nella prima parte di quel commento. Non voglio dilungarmi sul perché si decise un'entrata così rapida della Cina e

del resto dei paesi asiatici "emergenti" in WTO, acqua passata. Ma tenete in mente che l'imperialismo, al contrario di quanto steorizzava Vladimir Illich, non è la fase suprema del capitalismo ma una cosa alquanto più vecchia. Va comunque detto che, se si fosse adottata in quel caso una procedura simile a

quella adottata in tutti i trattati di libero commercio sottoscritti dal 1950

in poi, ed in NAFTA soprattutto, la transizione sarebbe stata molto più

agevole. Sin dai tempi della CECA le liberarizzazioni commerciali internazionali si sono fatte “passin passetto”,

e per questo hanno funzionato e si sono susseguite. Se al posto della CECA avessere

fatto subito la UE, o anche solo la CEE, oggi con tutta probabilità non ci

sarebbero né l’una né l’altra.

Questa osservazione, perfettamente generalizzabile, risolve il problema della

consistenza temporale. I trattati di libero commercio includono da sempre

clausole attuative distribuite su lunghi orizzonti di tempo. Ognuna di esse

conferisce vantaggi e costi a tutte le parti, rendendone quindi giocoforza

l’implementazione a tempo debito. La non implementazione della clausola implica

o multe salatissime (non doveva servire a questo il WTO?) o la messa in

discussione dell’intero accordo. Poiché il costo diquest’ultima scelta diventa rapidamente

proibitivo - basti pensare a NAFTA: per quale ragione pensate Obama abbia

spedito il suo uomo in Canada? Perché i canadesi si chiedevano se era diventato

pazzo a sostenere che lo ridiscute! – l’attuazione in tempo debito delle

clausole diventa una politica temporalmente consistente. Detto altrimenti, i trattati di commercio internazionale non sono promesse fatte da finti governi benevolenti, ma giochi (ripetuti) fra molti agenti strategici. La grande maggioranza dei trattati sono "renegotiation proof", se son ben fatti. Che le tensioni su WTO-Cina siano ovunque così forti è evidenza che ben fatto quel trattato non era. Si sarebbe potuto fare di più e di meglio con la Cina ed il resto dell’Asia? Un po' si è fatto, ma chiaramente non abbastanza viste le enormi contraddizioni che stanno

sorgendo ovunque in Europa e negli USA.

In ogni caso, oggi la situazione è quella che è. Io credo sia

ragionevole porsi l’obiettivo, non tanto come Italia ma come UE+USA+Giappone, di una

ridiscussione complessiva delle regole WTO, con particolare riferimento al

commercio di prodotti manifatturieri fra UE+USA+Giappone da un lato, e mondo asiatico dall’altro. Rifare

la scaletta temporale, insomma, con particolare riferimento alla Cina. Folle? Francamente

non vedo nessun problema morale o politico nel riaprire le trattative con un

paese come la Cina, che mi sembra ridicolo voler presentare come il paradiso

della concorrenza, della libera iniziativa, del mercato e delle libertà individuali e collettive. Fosse anche la Cina un paradiso – che non è, come sa

chiunque l’abbia visitata - non farebbe nessuna differenza. [Domanda: perche da

paradiso comunista la Cina è automaticamente diventata, per qualche occidentale, paradiso capitalista,

mentre non è mai stata né mai sarà alcuno dei due?] I dati dicono che corrisponde agli

interessi nazionali di UE+USA+Giappone rallentare l’espansione del libero

commercio con Cina, India, eccetera. I governi nazionali per questo servono,

per difendere gli interessi nazionali. Il problema politico, quindi, consiste

nel vedere se esiste convergenza fra questi paesi sull’utilità di riaprire la

trattativa. Io argomento che tale convenienza esiste. La consistenza temporale, ripeto, è una non questione. Dibattiamo dunque sul merito: nella misura in cui un consenso si crei, si può riaprire la discussione, altrimenti no. Per contraddire questo mio argomento qualcuno dovrebbe dimostrare che non è negli interessi di chi vive oggi in Europa, e di chi ci vivrà nei prossimi 50 anni, rallentare l'espansione del libero commercio con l'Asia di prodotti della manifattura. Rimango in attesa di un argomento quantitativo che vada al di là dell'affermazione (di fede, ma probabilmente corretta) che, nello stato stazionario che arriverà fra vari decenni, quelli che saranno sopravissuti staranno meglio di quelli che son vivi ora. Anche io credo in questa proposizione di fede però, sapete cosa? Ai dipendenti del mio amico Renzo, che ha una fabrichetta di scarpe in riviera del Brenta e che sta pensando di licenziarli tutti 264 per trasferire la produzione altrove (la scelta, guarda caso, è fra India e Cina), frega un belin della mia proposizione di fede.

(ii) Non comprano forse i nostri prodotti, i 3000 milioni di produttori in A? Apparentemente no, non al momento almeno. Serve forse che riporti qui la bilancia commerciale della Cina (e di molti altri paesi asiatici negli ultimi anni) con USA, EU, o Giappone? Spero di no, ma just in case. Insomma, qualcosa comprano ma non sembra comprino neanche lontanamente tanto quanto compriamo noi. Ora, potrei lanciarmi qui in una lunga (e non necessariamente pedissequa né idiotesca) discussione sul capitalismo di "stato" cinese, sulla natura nazionalistica del medesimo, sulla distribuzione del reddito e della ricchezza che sottostà ai dati di bilancia commerciale che ho appena riportato, e via dicendo. Se non altro per mancanza di tempo, tralascio, ma questa discussione andrebbe fatta. Girano un pelino troppi miti sulla Cina che, ripeto, è passata da paradiso comunista a paradiso capitalista, mentre è un posto molto diverso, e molto meno paradisiaco. Ma tralasciamo, che il tempo manca, questo non irrilevante dettaglio. Il ragionamento secondo cui guadagniamo con una mano (più di) quello che perdiamo con un'altra non fila in generale.

Per i teorici dell'economia, consiglio la lettura di L. McKenzie "The Classical Theorem on Existence of Competitive

Equilibrium", Econometrica, 1981, soprattutto la parte relativa all'ipotesi di "non decomposibilità" della dotazione iniziale, ossia alle assunzioni sotto le quali "if someone has income everyone has income". Una comprensione attenta del modo in cui innovazioni troppo drastiche possono letteralmente rendere "inutili" le dotazioni di un grande numero di agenti (i quali, quindi, non hanno "income" ed il sistema diventa "decomponibile") favorirebbe anche la comprensione del perché al momento sembra che da un lato noi (e.g. USA+EU+Giappone) si faccia fatica a vendere a Cina&Co tanto quanto loro vendono a noi e, dall'altro e soprattutto, perché esista un sottoinsieme di noi che proprio non ha nulla da vendere a Cina&Co, e a quell'altro sottoinsieme di noi forse nemmeno. Esempi matematici, nel contesto di un'economia dinamica con innovazioni e senza esternalità alcuna, disponibili su richiesta. Il primo di essi mi guadagnò, in quel di Mpls, un'abbondante quantità di birra pagata dal buon Tim Kehoe ben 12 anni fa ... insomma, è da un po' di tempo che ci penso. La questione, messa altrimenti, è distributiva oltre che di efficienza, ed il problema è sempre quello dei "compensatory transfers". Sto parlando, mi rendo conto, con un linguaggio un po' tecnico, ma mi rivolgo soprattutto agli economisti che questa osservazione critica m'hanno fatto, spero gli altri mi scusino. È banale mostrare che, seppur il reddito totale cresce a seguito dell'entrata di nuovi produttori nel mercato, il reddito reale di una fetta arbitrariamente grande delle popolazione si riduce. Questo mi sembra essere oggi, per la semplice scala del big bang asiatico oltre che per la composizione particolare delle dotazioni di Cina ed India, il problema da capire, e discutere. Aggiungo un'ulteriore osservazione: la teoria dice che in paesi in via di sviluppo, in cui il reddito sta crescendo e ci si aspetta che cresca, gli investimenti sono inferiori dei risparmi e si importa capitale estero, insomma si sopporta un deficit nella bilancia commerciale. Sino ad ora, in effetti, così è successo quasi ovunque nel mondo. Ma l'opposto, il brutalmente drammatico opposto, sta accadendo in Cina. Non suggerisce questa macroscopica contraddizione che, forse, di un differente apparato teorico vi è bisogno per capire quanto sta succedendo?

Per i meno addetti ai lavori, l'argomento è semplice. Vi sono 3000 milioni di asiatici che un giorno forse vorranno consumare prodotti che noi si produca. Ma non ora. Ora producono, accumulano e consumano soprattutto roba loro. Siccome lavorano a salari che per noi sono da fame mentre per loro sono alti (relativamente all'alternativa, che è di tornare nella comune comunista di campagna o nella miniera in Gansu) dei prodotti della manifattura italiana non sanno che farsene. Da un lato sono troppo costosi, dall'altro sono facilmente sostituibili da prodotti di qualità molto inferiore, prodotti localmente e venduti ad un prezzo infinitamente minore. Fra cinquant'anni anche costoro saranno probabilmente interessati ad acquistare i prodotti della riviera del Brenta, o a venire in vacanza sul Tirreno che si sarà trasformato in una specie di enorme disneylandia popolata da cinesi ed indiani. Allora gli italiani opportunamente ristrutturati si arrichiranno vendendo mare, sole, arte ed amore alla classe media asiatica. Ma, nel frattempo, occorre trovare qualcosa da fare per circa 50 anni. L'unica cosa da fare, per chi oggi ha 40 o 50 anni e sa fare solo scarpe, è accettare di produrre le stesse scarpe ad un salario che non cresce mai e probabilmente cala. Il salario non cresce e forse cala perché il prezzo delle scarpe vendute fa lo stesso e questo succede perché occorre competere con i prodotti dell'ex contadino di Gansu, al quale il mio amico Renzo sta pensando di far produrre le scarpe che, per quarant'anni, erano state prodotte a Fiesso. Tutto questo, sia chiaro, conviene altamente a quelli come lo scrivente, il cui reddito reale sta crescendo alla grande. Io vendo servizi d'alta qualità in giro per il mondo, ho poca competizione (particolarmente poca competizione cinese ed indiana) ed infanti mi confronto, assieme a qualche decina di migliaia di altri fortunati, ad una domanda enorme dei miei servizi. Il grosso di questa domanda viene, infatti, da cinesi ed indiani, come sa chiunque si sia occupato di ammissioni (graduate o undergraduate) in una buona università USA. Il mio salario nominale quindi cresce e, perdippiù, il prezzo dei beni di consumo che acquisto cala, grazie all'ex minatore di Gansu. In altre parole, io sto molto bene grazie alla globalizzazione liberista. I dipendenti del mio amico Renzo, con un paio dei quali andavo ad arrampicare in Dolomite trenta e passa anni fa, meno.

Del resto, tipo della discontinuità che non c'è stata (ma dormivate tutti fra 1989 e 1991?), ne parliamo domani. Del classico no, che nemeno mi diverto ...

 

 

In i) mi pare che ti contraddici. Prima dici che i Trattati di tarde sono time consistent perche' sono Trattati e non si discutono e c'hanno multe. E poi suggerisci di ridiscutere i Trattati con la Cina. In ii) il disaccordo e' su quanto temporanea sia la bilancia commerciale cinese. Io credo che lo sia molto ma molto piu' di quanto pensi tu. In 10 anni  li invaderemo di prodotti. Non ho nulla per sostenere questo belief (ne' tu per dire che ci vorranno 50 anni)

 

 

Francamente

non vedo nessun problema morale o politico nel riaprire le trattative con un

paese come la Cina, che mi sembra ridicolo voler presentare come il paradiso

della concorrenza, della libera iniziativa, del mercato e delle libertà individuali e collettive.

 

Scusa, ma che c'entra tutto cio' con le considerazioni commerciali?  Il commercio si fa perche' conviene a entrambe le parti, non perche' i partners hanno governi che trattano bene i propri cittadini (i quali ultimi, oltretutto, dall'export dei prodotti che lavorano traggono notevole beneficio economico).

 

Il mio salario nominale quindi cresce e, perdippiù, il prezzo dei beni

di consumo che acquisto cala, grazie all'ex minatore di Gansu. In altre

parole, io sto molto bene grazie alla globalizzazione liberista. I

dipendenti del mio amico Renzo, con un paio dei quali andavo ad

arrampicare in Dolomite trenta e passa anni fa, meno.

 

Il punto e': credi che il free trade complessivamente convenga a un paese anche se ha un deficit commerciale, o no? Se si' (come io credo) le preoccupazioni sugli squilibri interni che si generano andrebbero risolti esclusivamente all'interno di quel paese (per esempio con trasferimenti fiscali dai ricchi docenti ai dipendenti di Renzo :-) ). 

 

Michele, solo un'osservazione ad un argomento che, come detto (classico a parte...), condivido in pieno. Quando dici:

 

Una comprensione attenta del modo in cui innovazioni troppo drastiche possono letteralmente rendere "inutili" le dotazioni di un grande numero di agenti (i quali, quindi, non hanno "income" ed il sistema diventa "decomponibile") favorirebbe anche la comprensione del perché al momento sembra che da un lato noi (e.g. USA+EU+Giappone) si faccia fatica a vendere a Cina&Co tanto quanto loro vendono a noi e, dall'altro e soprattutto, perché esista un sottoinsieme di noi che proprio non ha nulla da vendere a Cina&Co, e a quell'altro sottoinsieme di noi forse nemmeno. ... La questione, messa altrimenti, è distributiva oltre che di efficienza, ed il problema è sempre quello dei "compensatory transfers". ... È banale mostrare che, seppur il reddito totale cresce a seguito dell'entrata di nuovi produttori nel mercato, il reddito reale di una fetta arbitrariamente grande delle popolazione si riduce. Questo mi sembra essere oggi, per la semplice scala del big bang asiatico oltre che per la composizione particolare delle dotazioni di Cina ed India, il problema da capire, e discutere.

 

 mi viene in mente che nel recente passato è successa una cosa simile al momento dell'unificazione tedesca, con un bel sotto-insieme di tedeschi dell'Est che, da un giorno all'altro, non aveva più "nulla da vendere" a quelli dell'Ovest (e neppure ai pochi privilegiati dell'Est). Certo, le condizioni di partenza erano diverse, con il gap Ovest-Est dovuto in questo caso a tecnnologia, istituzioni, ecc. Ma rimane il fatto che chi prima ad Est produceva e vendeva in un mercato più o meno chiuso (e vale ricordare che all'interno del Patto di Varsavia la DDR era "delegata" all' "alto di gamma" nelle varie produzioni), poi si è ritrovato a non poter competere per parecchi anni nel mercato aperto della Germania unita perché senza più barriere e con i salari convertiti 1:1 in marchi dell'ovest produrre non era più viable, neppure, che so, nel caso dell'altissima qualità delle lenti Carl Zeiss. In pratica, da un giorno all'altro, le imprese della DDR si sono trasformate nell'equivalente del tuo amico Renzo della Riviera del Brenta. A me pare un precedente storico, o natural experiment, per il rischio che paventi, o sbaglio? Ricordo di averne discusso all'epoca con il mio supervisor a Warwick e di aver tentato di convincerlo che forse andavano calcolati anche i costi lungo il sentiero di transizione e non solo il benessere allo steady state. Ma lui (giustamente) mi scoraggiò per la difficoltà analitica dell'impresa (era affare di traverse hicksiane e lì mi arresi). Ti chiedo: sai se esistono studi quali-quantitativi su tale episodio storico? All'epoca so che ne uscirono diversi (ci ho fatto sopra la tesi di laurea e di master...), ma credo che solo dopo molti anni si riesca ad avere una visione non distorta di cambiamenti così radicali. 

 

 

Forse c'e` una soluzione alla crisi delle esportazione ed alla manodopera a basso costo Cinese:

I salari medi italiani vanno sempre piu` giu` rispetto alle altra nazioni europee. dati OCSE

 

Presto anche noi lavoreremo per 1 Euro l'ora (ma il datore di lavoro ne versera` 49 per mantenere i pensionati ed i sindacati).

 

Provo a finire i chiarimenti che mi sembrano dovuti. Seguendo la scaletta di ieri sera, vorrei considerare due gruppi di problemi: (iii) la questione redistributiva, ossia chi

paga per la liberarizzazioni, e la questione della riconversione, ben più importante della prima; (iv) questioni che ieri chiamavo "tecniche", a cui se ne sono oggi aggiunte altre.

(iii) La ricerca economica ha riconosciuto da sempre che a fronte di liberalizzazioni commerciali vi saranno vincitori e vinti. La medesima ricerca sottolinea anche che, poiché la liberalizzazione aumenta la dimensione della torta a disposizione di tutti, esistono transfers compensativi che migliorano le condizioni di vita di tutti. Questi trasferimenti compensativi vengono frequentemente usati (ed anche abusati), mi concereteevitare una lunga lista di esempi anche attuali. Nel caso WTO-Asia essi non sono avvenuti. A mio avviso perché si è sottostimato l'effetto che la stessa avrebbe avuto, ossia si è sottostimato quanta forza lavoro a basso prezzo fosse a disposizione in questi paesi e quanto rapidamente i cambiamenti tecnologici intervenuti avrebbero permesso di trasferire tecnologie anche molto avanzate in quei paesi. Tutto è avvenuto su una scala e ad una rapidità ben superiore di quelle a cui ci si era abituati 20/30 anni prima con l'arrivo di Giappone, Korea, Taiwan, HK, Singapore, eccetera. La conseguenza paradossale di questa sottovalutazione (e di un pregiudizio ideologico-culturale notevole, ma tralasciamo) è che esiste pochissima letteratura che cerci di quantificare seriamente i costi di transizione dovuti a WTO-Asia. Questo è paradossale perché, per fare solo due esempi, gli studi quantitativi che esaminano la transizione ed i costi di NAFTA si contano a centinaia e lo stesso vale per la (tuttora ipotetica) transizione da sistemi pensionistici del tipo PAYGO a sistemi del tipo "capitalizzazione". In entrambi questi casi centinaia di ricercatori hanno studiato e quantificato la transizione. Guarda caso, in entrambi i casi svariate ricerche hanno mostrato che, per stime credibili dei parametri, non era ovvio che il tutto producesse un guadagno netto di benessere sociale. Sulla transizione PAYGO->capitalizzazione, infatti, la discussione è tutt'ora aperta (ci ho partecipato attivamente anche io) e l'impressione obiettiva è che si tratti di un caso classico in cui l'approccio {0,1} fa solo danni certi. Idem per NAFTA, su cui non ho lavorato ma ho imparato molto dal team che (per il Mexico) la discusse e la fece. Anche in quel caso il verdetto fu: take it easy, do it slowly. Consiglio seguito, risultato raggiunto con relativamente pochi morti e feriti. Nel caso WTO-Asia, ripeto, nisba. Silenzio assoluto. Ed ora ci sono i casini planetari.

La soluzione "compensare con trasferimenti i perdenti" è soluzione banalotta, di dottrina ed inattuabile. Ho già spiegato in un altro commento perché (a) non è attuabile in modo efficiente e, (b) la forma nella quale è attuabile corrisponde all'imposizione di tasse e dazi sulle importazioni (!) ma, visto che si fa finta di non capire, lo ripeto. Anzitutto, la seguente affermazione è strettamente erronea (se EM non lo capisce neanche questa volta, ci rinuncio):

 

Ehi ehi, non facciamo il gioco delle tre carte! Trasferimenti si

potrebbero fare benissimo, per esempio detassando il lavoro dipendente,

accentuando la progressività delle aliquote, dando sussidi di

disoccupazione...

 

Come ho dimostrato (a meno di avere a disposizione imposte lump-sum) il trasferimento compensativo corretto ed efficiente (sotto i vincoli infomativi ovvii) da chi guadagna a chi perde consiste nell'imporre dazi sui beni importati, i proventi dei quali vanno a compensare (lump sum, perché questo sì che si può fare) le imprese nazionali operanti nel settore all'atto dell'apertura commerciale. NON ho detto che lo voglio proporre, ho detto e dimostrato che è la conseguenza logica degli argomenti di EM (che non ho capito se AB ed altri condividono). Per quanto riguarda poi la seconda affermazione, anch'essa è erronea: non TUTTO il lavoro dipendente viene danneggiato dalla liberalizzazione. Per esempio, i dipendenti pubblici non di certo, e nemmeno quelli delle ferrovie o dei monopoli telefonici. Detassare il lavoro dipendente quindi trasferirebbe risorse ad un vasto numero di persone, un solo sottoinsieme delle quali affronta i costi della transizione. Idem per l'accentuazione della progressività fiscale, che c'entra come i cavoli a merenda. Forse i sussidi di disoccupazione mirati alla riconversione, stile scandinavo per capirsi, potrebbero servire, ma rimane il problema di finanziarli: con quali risorse? Dazi sulle importazioni, sospetto ... idem, ovviamente, per le detassazioni di cui sopra, anche quelle vanno finanziate. In sostanza, NESSUNA di queste misure (modulo i sussidi di disoccupazione finanziati da dazi sulle importazioni) riescono a risolvere il problema della compensazione dei perdenti (il "pareto transfer" nel jargon degli economisti) che anche i miei critici riconoscono essere necessario. Il problema quindi c'è, e le soluzioni proposte, ripeto, sono banali, di dottrina, difficilmente praticabili, inadeguate e ... populiste. Infatti, che lo siano lo riconosce EM stesso:

 

Dubito che servirebbero (come illustra anche il post

di Calvin

qui sotto), ma misura populista per misura populista avrebbero almeno

il pregio di non rischiare ritorsioni commerciali che eliminerebbero

ogni speranza di ridurre il deficit con l'export, e soprattutto di non

aumentare il costo della vita per chi compra prodotti a basso prezzo:

che sono appunto quelli come i famosi dipendenti del tuo amico. Non

stavi tu preoccupandoti per loro?

 

Tralasciamo l'umorismo finale (il post di Calvin lo discuto in seguito). Che le misure suggerite da EM non servano a compensare i perdenti trasferendo reddito dai vincenti credo d'averlo dimostrato, attendo prova al contrario. Sul populismo siamo ovviamente d'accordo. Rimane il fatto di fondo, che ben sottolinea pietro X

 

uno potrebbe dire: che mi frega? nel complesso il welfare aumenta.

tuttavia per me che l'operaio 50enne perda il posto di lavoro, non sia

in grado di riqualificarsi e abbia un "welfare" negativo mi sembra un

grosso problema per la società.

 

Piaccia o meno, il problema della "redistribuzione" c'è; se non c'è per la società (che non ho mai capito bene cosa sia), diciamo che c'è almeno per me: saranno le origini operaie che ho tradito. Ma c'è una altro aspetto che non è stato colto, forse per colpa mia perché non l'ho sottolineato abbastanza, e che è invece un problema cruciale. Ed è il problema della riconversione, che è più importante di quello della redistribuzione.

In termini semplificati, ritornando ai miei concorrenti A e B, lo descrivo così. A innova e spiazza B. B consiste in una serie di combinazioni di fattori produttivi, lavoro e capitale (L&K) per semplificare come al solito. Quelle combinazioni non vanno bene, sono obsolete, quindi meglio abbandonarle. Cosa buona e giusta, condivido. Ora, è perfettamente possibile (ed in società dinamiche è spesso il caso) che una volta abbandonata la combinazione sia L che K ne trovino un'altra, magari con diversi K&L, più produttiva della precedente (magari perché la cosa che ora B produce così a buon mercato permette d'introdurre un'altro bene che prima non era fattibile o conveniente). Ottimo, ripeto: questo è il bello del sistema di mercato e della libera concorrenza. I problemi sorgono quando da un lato L è o troppo vecchio, o troppo "arretrato" (poco capitale umano), o poco flessibile, o incapace di prendere a prestito risorse per "riconvertirsi" (o tutte queste cose assieme) mentre K ha la possibilità d'investire altrove, lontano da L, fuori dal paese B ... magari nel paese A. In questo caso l'assimetria fra K ed L diventa drammatica, ed ancor più drammatica diventa l'assimetria fra gli L "sfigati" (chiamiamoli LS) esposti alla concorrenza di A, e gli L "fighi" (chiamiamoli LF), che sono invece protetti da qualsiasi forma di concorrenza, sia per ragioni storiche, politiche, di potere personale o anche solo per pura fortuna. In questo caso LS non si riconverte perché non ha la capacità tecnica di farlo. Non è nell'insieme di scelte possibili. Questo implica che il processo d'innovazione "a scalini" si ferma in quei settori industriali in cui K&L operavano prima nel paese B, ed è facile mostrare che questo porta a stagnazione tecnologica. La stagnazione tecnologica ed il lento declino, relativo prima ed assoluto poi, sono il rischio che oggi varie zone d'Europa affrontano; fra di esse l'Italia (per le sue storiche debolezze, Casta in primis) mi sembra più a rischio di tutte.

Teoricamente tutto questo è una banalità; la cosa più interessante è capire i casi storici in cui questo è accaduto: studiare le città del Mid-West degli USA, da Detroit a Saint Louis (passando per Cleveland, Pittsburgh etc.) e la loro decadenza dagli anni '70 ad oggi è, per esempio, una lezione salutare. L'Argentina post anni '30 è forse l'esempio su cui gli italiani dovrebbero riflettere di più, soprattutto perché l'Argentina scelse una risposta ultra-protezionista e statalista alla propria crisi, causando disastri che durano ancora e da cui non sembra capace di riaversi. Non sono proprio così ingenuo come alcuni critici troppo rapidi vorrebbero farmi ... ed ho detto sin dall'inizio che le cure che GT propone (che sono riassumibili nello slogan "fare come in Argentina! Que viva el nuevo peronismo italiano!") sono non solo ridicole ed inutili, sono ALTAMENTE PERNICIOSE. Ma questo non toglie che il problema ci sia: ignorarlo fa solo convincere il paziente che un ciarlatano, che vende magiche pozioni in boccette con etichette in latinorum da ginnasio di provincia, sia l'unico medico a disposizione.

(iv) Il punto "tecnico" del mio ragionamento è che quasi ogni innovazione (e la liberalizzazione al commercio estero è una di esse) che aumenti l'efficienza produttiva del sistema globale fa probabilmente delle "vittime". Di per sé questo fatto non implica molto: quando le "vittime" sono in numero relativamente piccolo rispetto ai beneficiari e quanto la natura dell'innovazione (e del sistema socio-economico in cui avviene) è tale da permettere alle "vittime" di recuperare un ruolo produttivo e di avvantaggiarsi anch'esse dell'innovazione in un periodo di tempo relativamente rapido non vi è molto da preoccuparsi. Quando questo non avviene, quanto le "vittime" sono un numero molto alto ed hanno poche opportunità realistiche di recuperare nello spazio di vita a loro disponibile, allora la questione diventa una questione politica, ossia redistributiva. Ripeto, la differenza è di tipo quantitativo, e non si tratta del solito adagio keynesiano sul lungo periodo, che è quasi sempre fonte di equivoci. Affermazioni del tipo "non vi è stata alcuna discontinuità" sono francamente risibili, e sono già state contestate. Non so come si faccia a dire che i cambiamenti avvenuti tra il 1985 ed il 1995 non hanno rappresentato una discontinuità storica enorme. Qualche persona a caccia d'idee parlò al tempo di "fine della storia": una boiata che venne presa sul serio proprio perché tutti si resero conto che una grande discontinuità era avvenuta. Per la medesima ragione la menzione dell'accordo MFA, che è del 1974, è illogica: nel 1974 NESSUNO si sarebbe aspettato la Cina che gioca a fare il capitalismo, la fine del comunismo e tutto il resto. Lo stesso vale per altri esempi di "shocks" rapidamente assorbiti e "transizioni" affrontate relativamente bene: nessuno degli esempi portati si avvicina neanche lontanamente (in dimensioni, profondità e numero dei settori economici colpiti) a quanto stiamo ora discutendo.

Due osservazioni su uno dei commenti di Calvin, che condivido completamente sul piano concettuale. 1. Non ho detto da nessuna parte, ci sono stato molto attento sia nel testo che nei commenti, che occorre sussidiare i perdenti o cose del genere. Infatti, ho fatto dell'ironia su chi propone i sussidi, mostrando che implicano dazi se si vogliono fare bene, ed ho sottolineato che la teoria economica si lava pilatamente le mani del problema dicendo "bastano i pareto-transfers", esattamente come nella famosa barzelletta in cui l'economista dice "assume we have a can opener ...". Appunto, il can opener non c'è, ma la scatola con la carne è di latta, ed è chiusa: meglio inventarsi qualcosa. La malattia da curare, appunto, è che in Italia (ed anche in Europa, ed anche in molte parti degli USA) il processo d'innovazione tecnologica che fa crescere la produttività del lavoro nei settori "tradizionali" sembra essersi bloccato ed assieme ad esso (causa? effetto? boh...) le disuguaglianze di reddito hanno cominciato a salire vertiginosamente. L'arrivo dell'Asia ha fatto esplodere il bubbone in modo brutale: a mio avviso occorre ridiscutere il processo di apertura e trovare maniere intelligenti, e nuove credo, di gestire una transizione che probabilmente durerà varie decadi. I tempi necessari perché "tutti" gli italiani diventino disegnatori di moda, guide turistiche sofisticate, grandi cuochi, ed altre cose simili, sono molto LUNGHI: NEL FRATTEMPO SERVE GENERARE REDDITO PER SOPRAVVIVERE E RICICLARSI! 2) I grandi mercati dell'Asia mi sembrano un mito, per altri trent'anni circa. I dati son lì per tutti, studiatevi Korea, Giappone, Taiwan e compagnia. Hanno le bilance commerciali che hanno, e non è colpa mia! Per favore, evitiamo argomenti del tipo "Taiwan è un caso speciale", altrimenti scopriamo che sono tutti casi speciali. Arriveranno quei mercati? Certo, ma il problema è garantirsi che paesi come l'Italia, la Francia, la Spagna, l'Ohio, eccetera siano ancora in grado di produrre qualcosa di utile per quei mercati quando arriveranno a domandare beni e servizi dell'ex primo mondo. Li ho visti anche io i 7 (tanti erano l'ultima volta, ma era il 2003) negozi di Prada ad HK, ma eviterei di sostenere che lì sta la soluzione: è un problema di ordini di grandezza non comparabili.

Vorrei evitare di discutere i cheap shots del tipo "Lasciati dire la mia impressione sulla differenza tra East Asia e

Italia (e in certa misura il resto del "primo mondo"): nella prima, per

migliorare il proprio tenore di vita si imparano cose utili e si

lavora; nella seconda si cercano "soluzioni" per via politica ..." ed altri simili che descrivono le meraviglie del capitalismo socialista cinese o che riducono il tutto a "punire i responsabili". Mi sembrano completamente fuori luogo per svariate ragioni; una sopra tutte: le centinaia di anni d'inferiorità culturale, economica e tecnologica dell'East Asia. A meno che non si voglia sostenere che, tra il 1985 ed il 1995 una miracolosa mutazione "positiva" (genetica? culturale? forse il mio primo viaggio laggiù?) ha colpito 3 miliardi di persone in Asia, ed un'altrettanto miracolosa mutazione "negativa" (genetica? culturale? Chernobyl?) ha colpito i circa 7-800 milioni di abitanti del cosidetto primo mondo. Insomma, eviterei proprio queste argomentazioni: si riducono a sostenere che i cittadini cinesi hanno un'ottima impressione del loro governo (anche i cubani, lo dice chiunque vada a Cuba) oppure che la Cina di oggi (ma quale parte?) è meno peggio della Russia dei gulag! Come argomentazioni mi sembrano debolucce.

Il problema vero, a mio avviso, rimane invece il "che fare?". Molti commenti hanno sottolineato come le cose che io dico possano essere usate come leva per aprire una "scatola di vermi" da cui potrebbero uscire tutti i tipi di follie stataliste, sindacaliste, protezioniste, nazionaliste, eccetera. Giustissimo, legittimi timori. Se il problema fosse meno grave, le sue conseguenze meno drammatiche e la sua rilevanza (sia temporale che in termini dei milioni di persone che ne vengono danneggiate) minore, forse propenderei anche io (come ho fatto molte volte) per l'opzione: fregarsene, trovare qualche palliativo temporaneo, il peggio passerà rapidamente. Non mi sembra il caso. Credo sia quindi necessario guardare in faccia la questione e smetterla di guardare dall'altra parte facendo finta che si tratti di "naturale" progresso tecnologico che è "skill biased", o di "squilibri temporanei". Il cambio è davvero epocale ed ha dimensioni molto maggiori di quanto si sia visto durante il XX secolo. Alcuni economisti se ne accorsero subito, Ed Leamer queste cose le diceva alla fine degli anni '80 quando la Cina era appena appena apparsa all'orizzonte economico, e Ron Jones me le insegnava nei corsi a Rochester; potrei menzionarne molti altri, ma mi limito a pubblicizzare i miei amici. Il problema non è semplice e so benissimo di NON avere le soluzioni in tasca, ma credo di avere alcune delle domande giuste che vale la pena porsi, ed uno schema d'analisi che mi pare utilizzabile. Ci ritorno sopra, quindi, lunedì prossimo; almeno questo è il proposito.

 

 

 

A meno che non si voglia sostenere che, tra il 1985 ed il 1995 una

miracolosa mutazione "positiva" (genetica? culturale? forse il mio

primo viaggio laggiù?) ha colpito 3 miliardi di persone in Asia, ed

un'altrettanto miracolosa mutazione "negativa" (genetica? culturale?

Chernobyl?) ha colpito i circa 7-800 milioni di abitanti del cosidetto

primo mondo.

 

Nessun miracolo: il processo e' lo stesso seguito tra il diciottesimo e la fine del diciannovesimo secolo in paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, cioe' la rivoluzione industriale (prima della quale i tassi di crescita medi, ricordiamocelo, si aggiravano sul 3% al secolo); accoppiata, in paesi come India, Cina e ultimamente Vietnam, all'abbandono dello sciagurato import culturale che va sotto il nome di socialismo (ancora ostinatamente persistente come forma mentis nel primo mondo). Chi non aveva questa pietra al collo, come Giappone, Taiwan, Singapore e Corea del Sud, e' partito con decine d'anni d'anticipo, e inizialmente con tassi di crescita altrettanto elevati di Cina, India e Vietnam contemporanei.

 

Di nuovo, condivido in pieno. Solo due noterelle:

1. non hai risposto alla mia domanda sul caso Germania Est: parli però di Argentina ed è un ottimo esempio (modestamente, lo uso anch'io a lezione con gli undergraduate).

2. quando dici "le centinaia di anni d'inferiorità culturale, economica e tecnologica dell'East Asia." non ti seguo. Sai bene che la Cina (specie la sua zona costiera) ha una grande tradizione di scambi, commerci, ecc. (guarda p.e. www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1715065,00.html). La sua arretratezza data ad epoca più recente (150 anni? o forse solo dal '900?).

 A questo punto aspettiamo con ansia la terza, e decisiva, puntata.

 

 

 

In sostanza, NESSUNA di queste misure (modulo i sussidi di disoccupazione finanziati da dazi sulle importazioni) riescono a risolvere il problema della compensazione dei perdenti (il "pareto transfer" nel jargon degli economisti) che anche i miei critici riconoscono essere necessario. Il problema quindi c'è, e le soluzioni proposte, ripeto, sono banali, di dottrina, difficilmente praticabili, inadeguate e ... populiste. Infatti, che lo siano lo riconosce EM stesso:

 

Ma quando mai, soprattutto in italia, la compensazione dei perdenti è fatta in modo "paretianamente efficiente"? Ma neanche da lontano...è un prendo da chi non mi vota e do a chi mi vota. Come ci dimostri te è pura utopia pensare di individuare chi socialmente beneficia dei prodotti a basso costo prodotti in oriente, tassarli e usare le risorse per sussidiare/riqualificare gli operai del tuo amico.

Ma...(e credo che il nodo centrale sia qui...)

 

esiste pochissima letteratura che cerci di quantificare seriamente i costi di transizione dovuti a WTO-Asia.

 

PRESUMO, e quindi quel che sto per dire si basa su questa presunzione da ignorante, visto che si pensa (per te ideologicamente) che il libero commercio sia la soluzione migliore sempre e comunque, che manchi anche una seria letteratura che quantifichi i benefici, assieme ai costi.

A naso: ho aperto il mio telefonino Nokia, ho estratto la batteria. Made in China. Non me ne intendo per niente, ma credo sia molta la tecnologia occidentale prodotta in oriente e i benefici li vediamo al supermercato; se ci sommi anche un po' dell'innovazione finanziaria che sicuramente spaventerà Tremonti (credito al consumo, carte revolving, carte di credito)...Insomma: i costi ci sono, ma visto che non sono quantificati neanche i benefici, non sono sicuro quanto te che vinca solo la Cina.


A proposito: tutti i benefici che arrivano dall'outsourcing produttivo (tecnologico o meno) in oriente una misura come il reddito non le coglie (mentre va benissimo per catturare i costi). Il consumo però sì (scommetto che tutti i dipendenti di Renzo guardano la TV su LCD HDready preso in offerta all'esselunga e hanno il telefonino, anche se il loro reddito, almeno momentaneamente è 0). Secondo me, prima di chiedersi che fare, bisogna fare bene i conti.

 

 

Ehi ehi, non facciamo il gioco delle tre carte! Trasferimenti si potrebbero fare benissimo, per esempio detassando il lavoro dipendente, accentuando la progressivita' delle aliquote, dando sussidi di disoccupazione... Dubito che servirebbero (come illustra anche il post di Calvin qui sotto), ma misura populista per misura populista avrebbero almeno il pregio di non rischiare ritorsioni commerciali che eliminerebbero ogni speranza di ridurre il deficit con l'export, e soprattutto di non aumentare il costo della vita per chi compra prodotti a basso prezzo: che sono appunto quelli come i famosi dipendenti del tuo amico. Non stavi tu preoccupandoti per loro?

 

ha già risposto Michele in modo più che esaustivo secondo me. ma una cosa la voglio aggiungere perché proprio non capisco. cioé i sostenitori del free-trade no-matter-what stile modello-di-GE-perfetto ti vengono a raccontare che non devi nemmeno sognarti di ripensare i trattati commerciali (non parlo di dazi che questi non c'entrano nulla con quanto suggerito da Michele 173 volte) e di interferire col free-trade e poi cosa propongono?!? aumento della progressività? ma scusa Enzo, chi ti dice che l'aumento delle distorsioni dovute al "rethinking free-trade" sia maggiore di quello provocato da un aumento della progressività (nota tecnica: la deadweight loss aumenta in modo più che proporzionale al livello delle aliquote)? siamo in second best, mi pare che non sia tanto facile quantificare...

Michele:

 

Sulla transizione PAYGO->capitalizzazione, infatti, la discussione è tutt'ora aperta (ci ho partecipato attivamente anche io) e l'impressione obiettiva è che si tratti di un caso classico in cui l'approccio {0,1} fa solo danni certi.

 

a che lavori/dibattiti ti riferisci? hai delle reference recenti da suggerire?

 

 

 

ha già risposto Michele in modo più che esaustivo secondo me. ma una

cosa la voglio aggiungere perché proprio non capisco. cioé i

sostenitori del free-trade no-matter-what stile modello-di-GE-perfetto

ti vengono a raccontare che non devi nemmeno sognarti di ripensare i

trattati commerciali (non parlo di dazi che questi non c'entrano nulla

con quanto suggerito da Michele 173 volte) e di interferire col

free-trade e poi cosa propongono?!? aumento della progressività? ma

scusa Enzo, chi ti dice che l'aumento delle distorsioni dovute al

"rethinking free-trade" sia maggiore di quello provocato da un aumento

della progressività (nota tecnica: la deadweight loss aumenta in modo

più che proporzionale al livello delle aliquote)? siamo in second best,

mi pare che non sia tanto facile quantificare...

 

Non ho detto che i trattati sono intoccabili, ma che secondo me e' controproducente toccarli in senso restrittivo (e i dazi sono tutto sommato misure meno dannose di non-tariff barriers, dato che queste ultime sono piu' discrezionali e quindi concedono piu' forza contrattuale ai governi: in altri termini, agevolano la corruzione dei politici da parte dei lobbisti).

Insomma, se capisco correttamente il suo pensiero, Michele e' d'accordo col fatto che il free trade sia vantaggioso nel suo complesso, ma sostiene che la sua implementazione "tutto d'un botto" abbia creato anche dei perdenti. Puo' darsi, ma perche' il modo migliore di tutelare questi perdenti dovrebbe essere limitare (anche solo temporaneamente) il free trade, posponendone anche i suoi vantaggi al paese, e non fornire ammortizzatori sociali ai soli "perdenti"? (Parlo dei lavoratori, ovviamente: gli industriali sono adulti, vaccinati, e responsabili abbastanza da poter subire le conseguenze delle loro decisioni sbagliate).

Nota anche che finche' alle industrie non competitive sara' data "ope legis" la possibilita' di vivacchiare in un cantuccio non si ci sara' alcun cambiamento di rotta, come mostrato da innumerevoli esempi nella storia del protezionismo, e il "go slow" diventera' un "never go".

Secondo me, comunque, ci sono pochi rischi che queste malaugurate iniziative si concretizzino: ci sarebbero resistenze fortissime da parte non solo degli esportatori, che si troverebbero esposti a ritorsioni commerciali, ma anche delle grandi catene di distribuzione e, in Europa, di interi paesi come la Svezia, l'Olanda o la Gran Bretagna, come gia' successe al tempo della "guerra dei reggiseni" nel 2005. Come ha sussurrato l'advisor di Obama ai Canadesi, queste sono solo chiacchiere retoriche a fini elettorali, e come tali andrebbero prese.

 

 

Mi spiace per i dipendenti di Renzo, ma, ripeto, dovrebbero prendersela con chi aveva una visibilita' maggiore di loro e per decenni non ha fatto nulla, ossia nell'ordine: i politici italiani, i sindacalisti italiani e buona parte degli imprenditori italiani.

 

Giusto. ma non si può passare la vita da disoccupati che si lamentano e se la prendono coi politici/sindacalist/imprenditori italiani che hanno sbagliato. immagina che il 13 aprile tu vinca le elezioni e diventi premier: che fai in merito alla questione? la ignori dicendo che il free-trade è giusto e che chi sta male se la deve andare a prendere con i signori elencati sopra? la fomenti pensando che i figli dei tuoi figli vivranno in un mondo migliore? oppure aspetti la terza parte del post di Michele e inizi a discutere di possibili soluzioni?

se siamo tutti d'accordo che qualcuno ci perde, se siamo tutti d'accordo che qualcun altro ci perde per la vita non si può dire: prendetevela con chi ha sbagliato prima. questo è sacrosanto e lo condivido pure io, ma non basta.

Filippo:

 

A proposito: tutti i benefici che arrivano dall'outsourcing produttivo (tecnologico o meno) in oriente una misura come il reddito non le coglie (mentre va benissimo per catturare i costi). Il consumo però sì (scommetto che tutti i dipendenti di Renzo guardano la TV su LCD HDready preso in offerta all'esselunga e hanno il telefonino, anche se il loro reddito, almeno momentaneamente è 0). Secondo me, prima di chiedersi che fare, bisogna fare bene i conti

 

hai ragione. bisogna fare bene i conti. e non è così semplice. ma prima dei conti (che non credo riuscirò mai a fare... ahimè) faccio una riflessione. se le piccole imprese del nord-est iniziassero a fallire in massa e a licenziare gli operai non ci sarebbe nemmeno bisogno di fare i conti. milioni di operai 50enni impossibilitati a riqualificarsi sarebbero un costo sociale troppo grande nonché un rischio enorme di rivoluzione rossa! meglio fare qualcosa prima. è solo un opinione perché è vero, non ho fatto i conti.

 

Ma costruire un welfare efficiente ed efficientemente finanziato non puo' essere un problema separabile dalla decisione di liberalizzare i commerci? Penso che, in fondo, i libero-scambisti intendano questo più che compensazioni ad hoc. I "distrutti" dalla "distruzione creatrice" saranno soccorsi dal welfare nella misura in cui quella società ha già deciso prima di essere disposta ad aiutare i più deboli. Costruire un welfare...see. Cio' costringerebbe a concentrarsi su riforme interne che toccano interessi nevralgici, esercizio ostico a chi per decenni ha finanziato i propri piani con svalutazioni, inflazione e debito pubblico. Molto meglio tentare di farsi finanziare dalla Cina.


Se poi Tizio (WTO) contratta con Caio (Cina, India...) un' apertura dei mercati, salvo accorgersi che poteva chiudere posizionandosi molto meglio sulla linea dei contratti, è ovvio che riceverà dai suoi consiglieri una spinta alla rinegoziazione. Rinegozizione giustamente snobbata da chi è sempre pronto a rimpallarsi tra il francobollo dove inscrivere il proprio modellino e l' afflato universalistico e lungimirante che pervade ogni autentica visione liberista.

 

...non è che poi alla fine si scopre che l' ingresso della Cina nel WTO si è avuto a cambi fissi (scusate l' ignoranza di chi è troppo occupato durante il giorno ad incassare le sue rendite da albo)? Non è che ci siamo giocati quel bel meccanismo che trasforma i mega-surplus delle bilance commerciali in mega-rivalutazioni monetarie? E dire che una bella rivalutazione sarebbe quel che ci vuole: 1) frenerebbe l' alluvione di prodotti cinesi 2) accelererebbe la trasformazione della Cina in Cliente 3) metterebbe d' accordo liberisti-gradualisti e liberisti-doccia fredda.

 

Ehi, cosa fai, leggi le mie note? :-)

BB ha colto uno dei punti: free trade implica (e soprattutto richiede) prezzi liberi, anche quello della propria moneta è un prezzo.  Ora spero qualcuno non commenti che non sarebbe la panacea: no, ma conterebbe, ed esattamente per le ragioni menzionate da BB.

P.S. Da quale anticompetitivo albo raccogli le tue rendite? Curiosità, progresso ... 

 

Devo dire che Tremonti mi ha stupito. Se penso che anni fa esordì con la proposta di rifinanziamento degli immobili per sfruttare la bolla. Sappiamo tutti com'è finita...

Innanzitutto una precisazione: in linea di principio sono assolutamente contrario a qualsiasi forma di protezionismo, sogno di vivere in un vero mercato libero. Purtroppo così non è: la guerra fredda l'hanno vinta i socialisti e con questa realtà dobbiamo convivere.

Per tornare al tema: sono assolutamente daccordo con Michele Boldrin, aggiungo che secondo me non ha senso parlare di liberalizzazione e libero commercio quando si vive in una economia pianificata. Ci dobbiamo difendere usando armi che ci consentono di vincere. Quindi su i dazi, e finalmente qualcuno ha il coraggio di dirlo.

 

Boldrin non ha parlato di dazi, though.

 

Interessante discussione, ma che non parte da un dato assoluto: la Cina e l'India hanno cominciato a svilupparsi perchè B, o meglio una sua parte, ha portato i soldi e le tecnologie,  e non credo che dopo averci messo tecnologie e quattrini le multinazionali accetterebbero dazi o altre forme di protezionismo. Se non altro perchè a loro volta sono in grado di "influenzare" le discussioni politiche nei paesi B. Il commercialista di Sondrio evoca scenari di cui conosce e capisce solo la parte che più gli interessa: parlare a quella parte di elettorato che si riconosce nel "modello lombardo": vendere le proprie merci a quella parte parassitaria ed assistita dell'Italia che si chiama meridione, maledicendolo, ma mantenendolo, ed evitare assolutamente l'ingresso della concorrenza nel suo mercato di sbocco.Già riconoscere questo ci porterebbe a discutere di cose più interessanti: lo spostamento di produzioni da B a A a chi giova?