Lettera a un giovane della sinistra

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La sinistra italiana sta cercando di conciliare eguaglianza e libertà. Io offro tre idee. La prima è che, se la sinistra è post-marxista, allora dovrebbe liberarsi delle conseguenze implicite di quella visione. La seconda è che ci sono idee ragionevoli e idee folli di socialmente giusto, ed è bene distinguerle. La terza è che la vera sfida è quella di conciliare libertà e uguaglianza.

L’eguaglianza come valore in se'

 

Il principio che caratterizza la sinistra è di considerare l’uguaglianza come valore. Con una espressione più poetica, e ancora più vaga, essere di sinistra significa stare dalla parte degli ultimi. Molti di noi sono cresciuti con queste idee, e alcuni si domandano cosa ne sia rimasto. I dibattiti sulla questione, formali o informali, continuano, quindi è ora di fare chiarezza.

Uguaglianza come valore: è difficile perfino cominciare a pensare se si è d’accordo o meno con un'idea del genere, semplicemente perché è troppo vaga. Per tradurre un concetto così impreciso in politiche precise, in risposte a domande sulle scelte da fare, per esempio in politica economica e sociale, ci vuole un criterio operativo. Stiamo dunque cercando una definizione operativa del concetto di cosa sia socialmente giusto. Per definizione operativa intendo una che poi ci permetta di esprimere un’opinione sulla giustezza di una qualunque proposta di politica economica e sociale.

Per esempio: la riforma del sistema fiscale. Il sistema di imposte personali sul reddito in Italia oggi è fortemente progressivo. Una parte sostanziale (intorno al sessanta-settanta per cento, a seconda di come si cercano di calcolare gli effetti dell’evasione) delle imposte personali è pagato dal venti per cento con il reddito più alto. E’ troppo? O troppo poco?

Un altro esempio è il federalismo, che pone la questione dell'uguaglianza fra cittadini che vivono in regioni diverse. Altri esempi pongono questioni anche più difficili. Che dire, per esempio, delle scuole private? Ignoriamo la questione del carattere confessionale della scuola, che porta a tutto un altro ordine di problemi. Chiediamoci: abbiamo un'obiezione di principio alle scuole private perché sanciscono la differenza non solo degli esiti ma anche delle opportunità fra diversi giovani? E per la sanità: c’è chi parla di un diritto alla salute, uguale per tutti. Cosa vuol dire, concretamente, il "diritto alla salute" uguale per tutti? Che tutti vanno necessariamente negli stessi ospedali? Che tutti stanno ugualmente bene, indipendentemente dalle loro condizioni di partenza? A qualsiasi età? Più uno ci pensa, più la generica affermazione sull'uguaglianza come diritto diventa un rompicapo.

Sto cercando, dunque, di dare una definizione operativa, che possa essere usata per decidere in tutte le questioni che abbiamo presentato, e molte altre. Perché, alla fine, fare politica non consiste in elencare diritti astratti e fumosi o proclamare dei desiderata tanto grandiosi quanto indefiniti. Fare politica vuol dire fare proposte che si possono mettere in pratica e ottengono gli effetti pratici desiderati, con il consenso della maggioranza che in tali effetti si identifica. Altrimenti si è solo dei chiacchieroni senza costrutto, non dei politici.

Il pensiero inconscio

Un avvertimento: non sto considerando teorie della disuguaglianza che assumono o concludono che i ricchi sono ricchi a spese dei poveri. Per queste teorie, socialmente giusto ha un significato molto semplice: eliminare lo sfruttamento. Una giustificazione analitica di questa posizione per esempio è quella di Marx, o quelle contro il neocolonialismo di Frantz Fanon. Queste erano le fondamenta teoriche della sinistra in Italia esplicitamente fino a circa gli anni settanta. Dopo quegli anni c’è stata una trasformazione radicale. Oggi nessuno a sinistra in Italia, neppure Vendola, invoca lo lotta allo sfruttamento come giustificazione di politiche egualitarie. La sinistra italiana è post-marxista. Polemizzare con queste teorie sarebbe dunque oggi uccidere un uomo morto. Però quell’idea ("i ricchi sono ricchi a spese dei poveri"), è passata da teoria abbandonata a idea inconscia. Questa idea inconscia si attiva automaticamente ogni volta che si parla di disuguaglianza: sfortunatamente, parlare come Rawls pensando come Marx fa male alla salute mentale. Lasciamo dunque Marx da parte, assumendo che ci sia largo accordo sull’idea che i ricchi non sono ricchi a spese dei poveri ma perché hanno avuto un qualche colpo di "fortuna".

Iniziamo esaminando qualche criterio possibile, e ci renderemo subito conto che la domanda non ha una risposta ovvia. Si potrebbe dire, per esempio, che socialmente giusto è ciò che la maggioranza decide. Regola ragionevole in un regime democratico. Una conseguenza spiacevole di questo criterio si presenta subito: se la una maggioranza del cinquantun per cento decide di redistribuirsi la ricchezza del rimanente quarantanove, questo dovrebbe essere considerato, perché deciso a maggioranza, socialmente giusto. E’ una proposta e una applicazione sospetta però, perché pare dettata dall’interesse particolare di quel cinquantuno per cento. Lo stesso sospetto viene se il criterio proposto è quello dell’uguaglianza, quando proposto da chi abbia un basso reddito. Un diverso criterio potrebbe essere quello di non toccare assolutamente nulla: ognuno tiene ciò che ha. Anche questo è un criterio operativo molto chiaro, ma se proposto da un ricco suscita il legittimo sospetto che sia non espressione di giustizia sociale, ma di convenienza personale.

Dietro il velo

In questi esempi, la ragione per essere sospettosi del criterio è che il criterio proposto va a vantaggio del proponente. Come si elimina questa potenziale parzialità? Un criterio classico è di richiedere che la decisione su cosa sia socialmente giusto venga fatta indipendentemente da criteri di convenienza personale. Per illustrare il metodo, prendiamo un esempio molto semplice. Molti degli elementi importanti in questa versione semplice mancano, ma li introdurremo via via.

Venite informati che nascerete domani, in una società molto piccola: ci saranno solo due persone. Sapete anche che una delle due sarà fortunata, e l’altra no. Per illustrare, diciamo per il momento che il fortunato guadagnerà un milione di euro all’anno, e l’altro nulla. Per ora non sapete se sarete il fortunato o lo sfortunato. Sapete solo che sarete uno dei due, con uguale probabilità, e che questo verrà deciso con il lancio di moneta. Se viene testa, siete fortunato, e l’altro no; se viene croce, succede l’opposto.

Dovete decidere ora, prima di sapere quali dei due casi si realizzerà, quale assetto sociale desiderate per il futuro. Una volta scelta, questa regola verrà messa in atto senza eccezioni, senza ripensamenti, senza condoni. In questa società molto semplice, in cui il reddito è l’unica caratteristica delle persone, un assetto sociale è sostanzialmente una regola di distribuzione del reddito. Per esempio, un possibile assetto sociale è di lasciare tutto come il caso decide. Un altro assetto sociale è di redistribuire il milione in parti uguali. Ci sono soluzioni intermedie, in cui solo una parte del reddito del più fortunato viene trasferita.

L’assetto sociale che sceglierete in queste condizioni sarà considerato socialmente giusto. Siccome non sapete chi dei due sarete, il sospetto che stiate scegliendo per ragioni di interesse personale non c’è più. Una decisione sull’assetto sociale fatta in come questa viene detta presa dietro il velo dell’ignoranza, prima cioé di sapere come sarà l’esito della lotteria che deciderà se sarete fortunati o sfortunati.

E’ una domanda ipotetica, chiaramente. E non c’è modo per me di indurvi ad essere onesti nella risposta. E’ un po’ come se vi domandassi se preferite avere il biglietto di una lotteria in cui potete vincere mille euro o nulla con uguale probabilità, o se preferite invece cinquecento euro di sicuro.

Facciamo un po’ di esempi specifici, per vedere se il metodo proposto almeno dà delle risposte che siano chiare e sembrino ragionevoli. Se il trasferimento non comporta nessuno spreco, allora giustizia sociale è il comunismo. Se c’è invece qualche spreco, per esempio perché l’apparato redistributivo costa, allora perfetta uguaglianza non è più la soluzione ideale. Questo si capisce subito se lo stato, o chi per lui fa questa redistribuzione, si prende la quasi totalità (diciamo tutto meno un euro) del reddito del fortunato. Fra avere un milione di euro se la moneta viene croce, o avere mezzo euro di sicuro, quasi tutti sceglieranno la possibiltà di avere il milione.

E’ chiaro che, così facendo, abbiamo ridotto il problema di cosa sia socialmente giusto a un problema di scelta fra opzioni disponili, con esito incerto. Il velo dell’ignoranza, che ci impedisce di vedere chi saremo, ci impone però di tenere conto in maniera equanime dell’interesse di tutti coloro che ci paiono possibili, di quelli più avvantaggiati e di quelli meno fortunati, perché potremmo essere, in questa immaginaria società futura, uno qualunque dei due. Il velo impone un atteggiamento caritatevole (perché potreste essere lo sfortunato) ma evita sprechi (perché potreste essere il fortunato a cui si chiede di rimediare alle sfortune degli altri).

Questa è la miglior definizione, e la miglior difesa che credo si possa fare di "uguaglianza come valore".  Vediamo prima una conseguenza importante di questo modo di definirla, e poi i problemi, seri, che questa visione di ciò che è socialmente giusto ha.

Uguaglianza ed efficienza

 

La conseguenza importante è questa. Persone normali hanno un grado normale di avversione al rischio. Per queste persone, anche se si accetta la definizione di socialmente giusto che abbiamo visto, uguaglianza non è un valore assoluto: invece, va valutata per quanto costa. C’è una sola eccezione, che è bene vedere da vicino per capire quanto sia irragionevole.

Prendiamo un individuo estremamente prudente: così prudente da sfiorare la psicopatia. Questo è un individuo che se gli proponente di uscire di casa per cena, vi domanda quale sia lo cosa peggiore che gli possa capitare. Alle sue domande ansiose, dovete riconoscere che fuori di casa potrebbe essere travolto da un’auto, e in casa no. Aggiungete subito che essere travolti da un’auto è estremamente improbabile e citate statistiche autorevoli a sostegno della vostra affermazione. Invano. La sola possibilità dell’evento catastrofico gli basta per decidere. La regola che sta seguendo è molto semplice: per ognuna delle due opzioni, stare a casa o uscire, lui considera quale sia l’esito peggiore fra tutti i concepibili. Che sia o meno probabile non gli interessa. Se sta a casa, il peggio che gli possa capitare è annoiarsi. Se esce, il peggio che gli possa capitare è morire.  Siccome annoiarsi è meglio di morire, se ne sta a casa.

Come deciderebbe un individuo simile quando posto di fronte alla scelta di un assetto sociale giusto? Come il nostro personaggio che deve scegliere se andare a cena o no, questo criterio guarda solamente alla situazione del più sfortunato, e fra due assetti sociali è da preferirsi quello che garantisce la situazione migliore al più sfortunato. A tutti i costi, indipendentemente da quello che succede agli altri. Un criterio di giustizia sociale basato su una simile propensione verso il richio è stato proposto da John Rawls. Una conseguenza del suo criterio è che le disuguaglianze economiche sono accettabili solo se vanno a vantaggio della persona più sfavorita, o, per usare il termine con cui siamo partiti, degli ultimi. Fra due società, una più disuguale dell’altra, può essere socialmente giusto scegliere quella più disuguale, ma solo a condizione che in questa società la situazione del più povero sia migliore di quanto lo sarebbe in quella più uguale. Quanti sarebbero a favore di una simile psicopatia?

Veniamo ai problemi seri, che sono tre.

Merito

Il primo è che fino ad ora quando abbiamo parlato del reddito non abbiamo detto come viene guadagnato. Invece il modo in cui il reddito viene guadagnato ha una importanza determinante. Semplici esperimenti dimostrano che l’atteggiamento degli individui verso la redistribuzione del reddito degli altri cambia sostanzialmente se quel reddito deriva dal "caso" (ossia, da fattori non osservabili ed imponderabili) o dal "merito" (ossia da attività e sforzi osservabili del soggetto). Molte persone sono più favorevoli alla redistribuzione dei beni ottenuti grazie a fortuna che non di quelli ottenuti per sforzo e qualità personali. La fondazione filosofica del merito è semplice: il merito compete a chi è responsabile di un esito. Io merito una vittoria se ho lavorato per ottenerla. Merito è anche la fondazione di un diritto, a mantenere i frutti di ciò che si è meritato. Un'estensione del principio (giusnaturalistico per alcuni) secondo cui i frutti del lavoro appartengono a chi il lavoro ce l'ha messo. Dal punto di vista psicologico, questo principio sembra avere una forza superiore a quello dell’eguaglianza. Non fosse così, troveremmo tutte le competizioni sportive (e non solo, non solo ...) ingiuste e per nulla entusiasmanti ...

Dipendenza

Il secondo problema è la dipendenza. Stare dalla parte degli ultimi significa prima di tutto lasciare che imparino a fare da soli, non costruire una rete di assistenza che li rende dipendenti. Questa è la famosa storia cinese secondo cui se vuoi dar da mangiare ad una persona per un giorno gli regali il pesce, se vuoi dargli da mangiare per sempre gli insegni a pescare. L’aiuto ha sempre un costo nascosto, quello di creare in chi lo riceva l’abitudine e l’aspettativa che l’aiuto continuerà.  Nascosto almeno per chi non vuol vedere o sentire: i critici più feroci dei programmi di welfare per le minoranze nere sono proprio quegli intellettuali neri che hanno capito questo nesso. L’aiuto provoca dipendenza. Lo stanno ripetendo da decenni, in parole semplici e chiare.

Stato

L’ultimo problema è lo stato. Implicito nei ragionamenti della vecchia sinistra è che lo stato si può considerare uno strumento neutro, privo di interessi specifici, e quindi potenzialmente strumento perfetto per realizzare ingegneria sociale. Un aneddoto interessante nella recente biografia di Tony Blair  è il racconto di un momento nella sua gioventù in cui in una discussione fu costretto ad ammettere che lo stato può avere una sua agenda. Il New Labor, la terza via della sinistra, nacque quel giorno. Peccato che la sinistra si stia dimenticando di quella illuminazione. Qui, naturalmente, il problema si collega a quello della dipendenza. I politici di professione hanno un interesse naturale a mantenere i programmi di redistribuzione e di aiuto. Ma è molto peggio di così: i politici hanno un interesse naturale a mantenere la dipendenza.

Conclusioni

La sinistra italiana sta cercando oggi di conciliare eguaglianza e libertà: Libertàeguale è il nome di uno delle sue associazioni/think tanks. Mettere insieme libertà ed eguaglianza, però, è molto più difficile che mettere insieme i due nomi. Ne deriva, ormai da più di trenta anni, una confusione che produce lo stato di inerzia attuale della sinistra, italiana soprattutto ma non solo. Le idee del passato sono riconosciute inutili. Quelle per il futuro non ci sono, perché a ogni passo c’è il sospetto che la destra sia riuscita ad abbindolarci. Come si può agire in politica, dove le idee devono essere chiare ed i fini precisi, se si è combattuti fra due identità, quella del passato considerata inutile e quella più moderna, considerata sospetta?

Sul nesso fra le due aspirazioni, Milton Friedman si espresse qualche decennio fa con la sua usuale chiarezza, ed è utile riprendere quello che disse come una sfida. In traduzione libera (chi lo vuol sentire, eccolo qui), Friedman dice:

Una società può aspirare a libertà e eguaglianza, ma ha due modi per farlo. Se aspira a eguaglianza prima che a libertà, non avrà né libertà né eguaglianza. Sarà serva di A e B che dicono a C quanto deve dare a D. Se aspira a libertà prima che a eguaglianza, avrà libertà di sicuro; non avrà uguaglianza, ma ci andrà vicino tanto quanto è possibile con i sistemi storicamente sperimentati.

Questa la sfida da destra. La risposta a sinistra non può essere di fare la somma algebrica dei due termini. Friedman contava molto sui mercati. La vecchia sinistra contava molto sullo stato. La nuova sinistra dovrebbe contare sulla gente e molto meno sullo stato. Libertà oggi non è da uno stato autoritario, o neppure da uno stato padrone con la faccia di Berlusconi, ma da uno stato-badante che si prende cura di noi.

Fra le tante lezioni sempre ricordate di Don Lorenzo Milani, ricordiamone una sempre dimenticata: la scuola di Barbiana non aspettò aiuti del governo, e non abbassò i livelli dell’insegnamento, ma li alzò. Quella scuola era difficile, e voleva insegnare ai poveri a fare da se'.

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Commenti

Ci sono 196 commenti

Caro giovane, mentre si scopre un mondo che venne rimosso nel passato, per cui e' bene esser "liberal" (solo Guzzanti e' liberale: e' chic dirlo in inglese, non so bene perche') sarebbe bene non scoprire l'acqua calda.

In particolare. Vi sono due nozioni di liberalismo e non si capisce mai a quale si riferisca il liberalismo alle vongole, tanto di moda.

In breve, ma se la cosa e' di interesse generale, si puo' benissimo tornarci sopra.

La teoria della giustizia (nei termini di J. Rawls) e' una teoria liberale: ammette e domanda un insieme di inalienabili diritti e ammette e domanda che un attacco diretto (via fisco) alla situazione economica (in termini semplici di chi fa piu' soldi) sia giustifcata dalla teoria quando e solo quando il risultato sia a facore degli ultimi (ringrazio Aldo Rustichini per introdurre la terminologia religiosa che male non fa in questi casi.)

La teoria della giustizia (nei termini di R. Nozick) e' una teoria liberale: ammette che le transazioni non coatte sono tutte legittime e giuste (se si ama questo termine.) Il fatto e' che le transazioni producono effetti di diseguaglianza a volte considerevoli. Nozick, di nuovo in termini semplici, mostra come vi sia un liberalismo che dica che una societa' e' libera se libera dalla coazione e dall'abuso. E' libera anche nel senso che gli effetti, ad esempio di eguaglianza e diseguaglianza, sono lasciati essi stessi liberi.

Cari giovani, quale dei due volete? Il dibattito sul merito e'  un po' capzioso, nel senso che' sotto descritto e poco definito, a mio avviso. 

Mi riprometto di tornare e argomentare, se i lettori si trovano interessati al problema.

p.s. vi sono insiemi di teorie che negano tutto questo, nulla di male, ad esempio in politica adesso vi sono gruppi religiosi (essi spingono una nozione di "comunita'" che trascende individui e da diritti a gruppi) vi sono gruppi marxisti (spesso confusi, ahime' dalla poca chiarezza di quel che dicono: l'ultimo che ascoltai sostenne che adesso vi sono i soviet capitalistici [dette banche dal volgo] e il "problema" e' formare una "soggettivita' dentro e contro", che si oppone al comunismo del capitale) che oppongono direttamente l'idea che vi sia una sfera di diritti, vi sono gruppi di idioti che oppongono tutto. Nei tre casi, e' opportuno chiedersi se valga la pena di discutere. Non mi sottraggo alla pena, se necessario.

 

 

 

p.s. Mk.II

Le due teorie ulteriormente si avvicinano su nozioni come "bene primario" (tutelato da diritti umani, infringer quelli e' mai giusto.) Sono primari il diritto alla tutela e integrita' della persona fisica di tutti, il diritto al movimento, e altri, con una serie di compromessi e transazioni ineguali (cone han tradotto trade-offs in Italiano?) in cui si puo' ammettere come giusto che vi siano umiliati ed offesi, se si preserva la liberta' di tutti di esprimere il pensiero proprio, sia o meno offensivo. 

Le due si distanziano nel giudicare se vi un diritto umano a tenersi quel che si e' guadagnato (la rapina giusta e' mai siano uno liberal-nozickista o liberal-rawlsiano] o no. Nozick risponde di si, con argomenti di origine Lockean, Rawls risponde di non con argomenti di origine Kant. 

 

Il "merito" in questo senso ha nulla d'interessante da scoprire. Tutti sanno benissimo, gli uni come gli altri, che per adottare l'esempo (da Nozick) se W. Chamberlain e' in grado di chiedere a cento persone di pagare un euro per vederlo segnare i personali (chi gioca a pallacanestro illustri), alla fine della giornata, cento persone avranno un euro di meno e lui cento di piu'.

Rawls sostiene che qui bisogna tassarlo e forse tanto, Nozick sostiene che vi e' nessuna ragione per tassarlo percentualmente in ogni caso piu' di me. Dopo tutto se le tasse servono a costruire i ponti non e' poi probabile o possibile che Chamberlain attraversi da Messina alla Calabria, avanti e indietro 24 ore al giorno.

 

 

Che il suo merito sia sociale (gli hanno insegnato bene a usare la pallam) sia innato (Chamberlain nacque con questa grande passione per far entrare nel buco la palla), se sia un trucco prodotto dai pubblicitari ( a nessuno importa meno di due fichi secchi -- che costano meno di un euro-- di che cosa fa Chamberlain con il pallone ma i temibili Pirella & Ass. convincono tutti di dover veder gli sport a pagamento) interessa meno che mai a nessuno.

Che cosa sta dibattendo la sinistra?

Temo un problema assai diverso. Dibattono un tema pre-rivoluzionario nel senso di pre 1789.

Se esistano le guarentigie tali che il figlio di Marrazzo debba esser a lavorare alla Rai quanto il figlio di Minoli e Bernabei debba aver le mani in pasta coi media....

Come penso sia chiaro qui il problema e' di efficienza, mentre Marrazzo G era un bravo giornalista, Marrazzo P ando' a puttane. Le dinastie da D'Alema G a D'Alema M fino a Berlusconi B da Berlusconi S sono una catastrofe per il motivo antico che per ogni Cesare ci sono due Eliogabalo.

Punkt. Il merito c'entra nulla. Qualcuno dica a questo Adinolfi di informarsi. 

 

 

cfr. Post di Giulio Zanella, infra

 

Mahh...forse bisognerebbe sgombrare il campo da equivoci sul termine "liberali" e sostituirlo con "liberali classici" o meglio "libertari". La parola libertà e liberali sono le piu' stuprate nella storia e dall'ideologia.

Il concetto di merito dovrebbe essere meglio compreso: in una società libera chi fa soldi ci riesce solo perchè soddisfa le aspettative e i bisogni dei suoi clienti. In altre parole si è arricchito solo perchè ha prodotto qualcosa a cui la su controparte attribuisce maggior valore rispetto ai soldi che ha ceduto. Altrimenti lo scambio non sarebbe accetterebbe. Ne segue ovviamente che è ben difficile attribuire qualche senso al solito discorso "...il 10% della popolazione possiede il 90% della ricchezza": le due parti si sono arricchite entrambe.

Quanto detto dovrebbe anche spiegare perchè aggredire la proprietà e la persona altrui anche quando a deciderlo è una maggioranza o l'unanimità meno uno è un non sequitur.

 

 

Le dinastie da D'Alema G a D'Alema M fino a Berlusconi B da Berlusconi S sono una catastrofe

 

La Verfall einer Familie é inevitabile.Ma molti di quelli che biascicano contro la meritocrazia dimenticano che il suo primo sostituto non é la benevolenza verso i diversamente abili, bensì il più comodo scudo per consentire ai potenti di oggi di tramandare ad una prole incapace i propri vizi.

Caro vecchio

mi pare giusto introdurre Nozick. Ma un commento su quello che dici:

 Il fatto e' che le transazioni producono effetti di diseguaglianza a volte considerevoli.

Anche Rawls, che e' la posizione estrema, accetterebbe disuguaglianze considerevoli. Gli basterebbe che gli utlimi stessero meglio. Cioe' fra una societa' molto diseguale come gli USA e una meno diseguale come l'Europa, preferirebbe gli USA, se i poveri stanno meglio in USA. Qundi non e' la dsuguaglianza di per se' che lo preoccupa. Certi Rawlsiani sono piu' Rawlsiani di Rawls,

 

 

 

Questa la sfida da destra.

 

Sicuramente non dalla destra italiana. E questo è un primo punto. Il secondo è che "libertà" è anche libertà di fare, non solo libertà da qualcuno (invariabilmente, dice la destra, dallo stato. Al massimo ci aggiunge il sindacato). E' tutto lì il problema, ma vedo che non è stato affrontato. Tra l'altro Don Milani mostrava chiaramente come, ad esempio nella scuola, il merito non esistesse o comunque che sì, qualcosa c'era, ma l'"altro", nella formula di Zanella (risultato = abililità x impegno x altro) era così grande o così piccolo da rendere tutto il resto ininfluente.

 

Sicuramente non dalla destra italiana.

Certo che no. Purtroppo la destra italiana e' inesistente, dal punto di vista delle idee

Il secondo è che "libertà" è anche libertà di fare,

Assoultamente. La liberta' in Italia oggi e' soprattutto di fare da se', e non aspettare che lo stato lo faccia per te. Lo stato badante e' il nemico della liberta'

 

Caro Aldo,

ho molto apprezzato il tentativo titanico di riassumere in breve e ad usum dei giovani di sinistra (a proposito, sei sicuro ce ne siano ancora?) 40 anni di dibattito sull'uguglianza.

Solo alcune osservazioni in ordine casuale.

Se si va all'origine (poco prima della rivoluzione francese) della suddivisione "destra" e "sinistra" e quindi agli scritti dei pensatori dell'epoca, non si può non concludere che la tua affermazione di apertura che "Il principio che caratterizza la sinistra è di considerare l’uguaglianza come valore", è parzialmente inesatta. Oggi destra e sinistra moderne (no xenfobe o rivoluzionarie) ragionano sugli stessi temi (uno è questo di uguaglianza) distinguendosi per il diverso livello di sensibilità (della disuguaglianza) per gli stessi. Pertanto, la tua lettera forse sarebbe più giusto indirizzarla "a un giovane di sinistra e/o di destra". Il terreno culturale è oramai comune (rispetto a quello divergente di fine 700) ed è quello della sinistra, ciò che cambia (e non è poco) ripeto è il diverso grado di accettazione-sensibilità per i diversi temi.

Le puntualizzazioni di Palma sono consivisibili soprattutto quando, accennando alla nozione di Rawls di "primary goods", ci impongono di considerare la disuguaglianza come un fenomeno multidimensionale, non limitata al reddito, variabile (come si vede anche nei tuoi esempi che riprendono la critica di Harsanyi (1975) al pensiero di Rawls (qui www.jstor.org/stable/1959090)) importante, ma non unica per valutare se una determinata società è piu disuguale di un'altra.

Riguardo a redistribuzione e costi della stessa è interessante soffermarsi sulla caratterizzazione del principio dei trasferimenti fatto da Fleurbaey, M e P. Michel su MASS 2001 e quindi su quello che ne consegue in termini di più o meno Stato.

La teoria (di Roemer e altri ex-marxisisti), convalidata da espirmenti (sigh!), riguardo il fatto che le disuguagliaze da compensare sarebbero quelle dovute alle diverse circostanze fortuite (nasci con handicap fisici) e non quelle dovute ai diversi "effort" (io e te siamo uguali in tutto, ma tu lavori molto e io sono un bighellone), si soffermano sulla nozione di "opportunità" e non su quella di reddito come variabile esplicativa della disuguaglianza e sono fortemente (in maniera devastante direi) criticate da Sugden (SCWE 2004), con lo stesso argomento di critica di Hayek alle teorie del socialismo di mercato di Lange, Dobb e Lerner.

Ultima, su uguaglianza e libertà, la frase di Friedman (che non è l'oracolo), ho l'impressione che risenta di un clima prae-caduta del muro di Berlino. Sul tema del rapporto tra uguaglianza e libertà forse Sen nei suoi tanti libri ecumenici ha riflettuto di più e meglio di Friedman, in maniera sicuramente più accettabile da sinistra.

 

 

Se il trasferimento non comporta nessuno spreco, allora giustizia sociale è il comunismo. Se c’è invece qualche spreco, per esempio perché l’apparato redistributivo costa, allora perfetta uguaglianza non è più la soluzione ideale.

 

 

Condivido l'esempio, ma mi pare che sia parziale come ogni esempio. Cioè la costosità del trasferimento può derivare anche da un cattivo o non-funzionamento del mercato piuttosto che dello Stato. E questo è tanto più vero quando gli agenti non sono solo due, hanno razionalità limitata, sono opportunistici, le risorse sono specifiche, esistono processi cumulativi e circolari, et cetera. Al giovane di sinistra suggerirei prima di tutto di studiarsi benei fallimenti dello stato, ma poi gli consiglierei di ripassarsi anche la fallibilità del mercato.

 

 

Al giovane di sinistra suggerirei prima di tutto di studiarsi bene i fallimenti dello stato, ma poi gli consiglierei di ripassarsi anche la fallibilità del mercato.

io procederei esattamente al contrario: di questi tempi tutti si stracciano le vesti per i fallimenti del mercato implicando che solo il ripristino del primato della politica ci salvera'.

 

Detto altrimenti, esiste un liber(al)ismo conservatore, che si preoccupa essenzialmente della lbertà dallo stato, vale a dire dal potere, e ritiene che l'uguaglianza si risolva nel riconoscimento della pari dignità giuridica di tutti i cittadini; vi è poi un liber(al)ismo che ammette o richiede interventi dello stato, per porre rimedio alle inefficienze del mercato o per conseguire obiettivi di uguaglianza "sostanziale".

Si dovrebbe ulteriormente suddividere il liberalismo non conservatore in due correnti: una "centrista", per la quale l'intervento pubblico è giustificato solo in via eccezionale, da ragioni di efficienza economica (grosso modo, espressa dai Trattati europei), ed una di "sinistra" che assegna all'intervento statale obiettivi di progresso sociale. Mi sembra evidente che questa tendenza sia, in qualche modo, riflessa nella Costituzione italiana e che i suoi obiettivi si confondano con qualli della socialdemocrazia.

Rawls, per quanto originale sia la sua impostazione, appartiene a questa tendenza. Nozick è piuttosto conservatore, o - come si dice in USA - libertario, anche se la sua posizione differisce da quella di Rothbard o di Hoppe, molto più radicali di lui.

A mio parere, per quanto affascinanti, le idee dei libertari non attecchiranno facilmente in Italia o in Europa; il processo d'integrazione, con tutti i suoi limiti, è chiaramente ispirato dalla economia sociale di mercato (Sozial Marktwirtschaft). Gli obiettivi di progresso sociale, proposti nella Costituzione italiana, sono in buona misura superati da questo orientamento; sul significato e sui contenuti dell'economia sociale di mercato si deve concentrare il dibattito politico e l'attenzione dei giovani desiderosi di imparare. 

Ciò significa, tra l'altro, che eventi come il Festival del diritto sulle disuguaglianze, appena svoltosi a Piacenza, sono un'occasione per rimpiangere i sogni della sinistra di quarant'anni fa, non un contributo all'acculturazione della sinistra di domani.

 

.. "sinistra" che assegna all'intervento statale obiettivi di progresso sociale. ...questa tendenza sia riflessa nella Costituzione italiana e che i suoi obiettivi si confondano con qualli della socialdemocrazia. Rawls, per quanto originale sia la sua impostazione, appartiene a questa tendenza.

 

Povero Rawls, dopo essersi beccato da Rustichini (a cui risponde, rispondendo a Harsanyi) la critica di essere "irrealistico" se portato alle estreme conseguenze... adesso si becca anche l'accusa di essere saragattiano...

 

A mio parere, per quanto affascinanti, le idee dei libertari non attecchiranno facilmente in Italia o in Europa

il problema è che uno può simpatizzare con certe posizioni libertarie in materia di diritti civili, ma spesso loro sono così anti-egualitari da far pensare che secondo loro chi non si arricchisce è un subumano.

parliamo di gente che idoleggia gli Stati del Sud prima della guerra civile o che propone il voto multiplo in base al reddito, o che si oppone a qualsiasi regolamentazione, anche antimonopolistica... secondo me finiscono in una spirale dialettica hegeliana che dal libertarismo finisce con il dominio di una oligarchia: da Atlas Shrugged a The Iron Heel...

 

 

Una società può aspirare a libertà e eguaglianza, ma ha due modi per farlo. Se aspira a eguaglianza prima che a libertà, non avrà né libertà né eguaglianza. Sarà serva di A e B che dicono a C quanto deve dare a D. Se aspira a libertà prima che a eguaglianza, avrà libertà di sicuro; non avrà uguaglianza, ma ci andrà vicino tanto quanto è possibile con i sistemi storicamente sperimentati.

stranamente, per uno di background sinistra extraparlamentare-PCI, avevo sempre pensato qualcosa del genere, o almeno la seconda parte: se una società aspira alla libertà e si organizza in modo conforme (in particolare libertà politiche, pluralismo ecc.) avrà più possibilità di avere giustizia ed eguaglianza; però "libertà" non è l'opposto semantico di "eguaglianza", semmai di "autoritarismo/dispotismo/totalitarismo/autocrazia": un sistema che sacrificasse la libertà all'eguaglianza secondo me è un assurdo logico, perché senza libertà esiste una diseguaglianza strutturale di potere tra chi comanda e chi no, che poi si riverbera su reddito, consumi, accesso a servizi privilegiati, all'informazione, alle carriere ecc. ecc. Non penso che le nomenklature dell'Est fossero un esempio di egualitarismo.

 

venendo da un background simile, leggo quello che dici:

un sistema che sacrificasse la libertà all'eguaglianza secondo me è un assurdo logico, perché senza libertà esiste una diseguaglianza strutturale di potere tra chi comanda e chi no, che poi si riverbera su reddito, consumi, accesso a servizi privilegiati, all'informazione, alle carriere ecc.

e ti chiedo: vale anche per uno stato che non impone accessi privilegiati ma ti propone di fare quasi tutto al posto tuo? 

Aldo ha ragione quando scrive sull'importanza di come il denaro viene guadagnato. Ne ha molta meno quando ipotizza un "largo accordo sull’idea che i ricchi non sono ricchi a spese dei poveri ma perché hanno avuto un qualche colpo di "fortuna"". Altresì è diffusa convinzione, a sinistra come a destra, che la "fortuna" sia effetto della disonestà più del superenalotto o dell'eredità di uno zio sudamericano (sul quale resterebbe da indagare l'origine della sua fortuna). La sinistra, post-Marx, trova disonesto anche lo "sfruttamento" come origine della "fortuna". Attribuisce però significati allo "sfruttamento" diversi da quelli ottocenteschi. La destra no. Lo fa derivare da una sorta di vantaggio genetico posseduto da alcuni individui e tuttalpiù sostituisce il termine "disonestà" con "scaltrezza" in una accezione pruriginosamente negativa. Per non parlare poi delle tante fortune che hanno avuto origine da atti disonesti o socialmente sconsiderati o da vere e proprie rapine ai danni del "parco buoi" ("che siamo noi" come dice Antonio De Curtis).

Vi sono perciò origini molto diverse della "fortuna", che non si possono distiguere solo sulla base del concetto di "merito" e occorre far intervenire altre categorie del pensiero.

Per atti disonesti o socialmente sconsiderati o vere e proprie rapine c'e' la galera, spero, ma questo non ha a che fare con l'uguaglianza

Quello che invece HA a che fare con l'uguaglianza e' l'idea dello sfruttamento, cioe' l'estrazione legale di ricchezza dagli altri. Quello che dici conferma l'idea che Marx la sinistra italiana se lo vuole tener caro, in qualche forma. Dici:

La sinistra, post-Marx, trova disonesto anche lo "sfruttamento" come origine della "fortuna". Attribuisce però significati allo "sfruttamento" diversi da quelli ottocenteschi.

Benissimo, sono tutt'orecchi: quali?

 

 

... mi piacerebbe trovare il tempo per scriverla ma non lo trovo ora di certo.

Per cui mi accontento di uno slogan (vedere il prossimo commento per una parziale elaborazione del medesimo) molto da troll:

la concorrenza e l'uguale opportunità di accesso generano l'ammontare socialmente ottimo di meritocrazia. Chiediamo più concorrenza e meno meritocrazia.

Invito comunque a leggere un contributo di Tony Judt che riflette, poco prima di morire, sulla sua particolare esperienza con la meritocrazia. Trattasi della meritocrazia nel sistema educativo "alto", uno dei pochi ambiti in cui, a mio avviso, la "selezione meritocratica" (questa cosa contro cui, praticandola, mi masturbavo di combattere ai tempi di AO, quella che ai padroni non abbaiava come LC ma li mordeva ...) funziona e collima con (o è funzionale alla) concorrenza, quest'ultima essendo, a mio avviso, il meccanismo socialmente desiderabile e non la meritocrazia per se ...

L'analisi di TJ è parziale, come non può essere altrimenti una riflessione autobiografica, ma rilevante assai. Sottolinea due aspetti che io considero fondamentali e che sono sempre trattati con una certa sufficienza nel dibattito italiano: che la "meritocrazia" (o concorrenza) è il meccanismo meno sfavorevole alle persone socialmente svantaggiate al tempo zero e che la "meritocrazia" (o concorrenza) non premia solo, punisce anche, perché senza punire non funziona.

 

mi masturbavo di combattere ai tempi di AO, quella che ai padroni non abbaiava come LC ma li mordeva

 

Quale AO? Avanguardia o Autonomia? perché a Roma in gergo "AO" era la prima (e la seconda...era questo qui http://www.pugliantagonista.it/archivio/daniele_pifano.htm e gli amici suoi che ti dicevano "sò telescopi, se te lo dimo noi ce devi crede che sò telescopi"...ed erano SAM-7)

 

Letto Judt, grazie. Ma non capisco.

Judt titola il pezzo “Meritocrats”, e chiaramente prende in giro Michael Young, che prendeva in giro la meritocracy, quindi Jodt loda la meritocracy. Con questa giostra di ironie ci si confonde facilmente, quindi procediamo con ordine. Young, socialista e egualitario scrive (nel lontano 1958) un libro (intitolato... “Meritocracy”) che satireggia (dal punto di vista del protagonista, che si immagina scrivere nel 2032) una societa’ basata sul merito che e’ diventata diseguale ed elitaria. Il trucco delle classi privilegiate e’ stato quello di stabilire criteri oggettivi, che rendono il mantenimento dei prilivegi piu’ facile. Come spiego’ lo stesso Young a Tony Blair (che aveva la colpa, quel fesso, di prendere il termine meritocrazia sul serio, non come lo sberleffo che doveva essere), con l’avvento della meritocrazia ``mi aspettavo che a rimetterci le penne sarebbero stati proprio i poveri e gli svantaggiati, e cosi’ infatti e’ stato. Se marchiati come incapaci a scuola, dopo sono anche piu’ vulnerabili sul mercato del lavoro’’.

Ora Jodt nota come i grandi colleges inglesi (King’s in particolare) siano decaduti proprio perche’ hanno abbandonato i criteri elitari per criteri egalitari (sotto la spinta magari di persone come Young), e hanno finito per rovinarsi. Conosco King’s abbastanza bene, e l’ambiente accademico di Cambridge anche meglio, e siccome Judt ci dice che a Cambridge c’e’ arrivato nel 1966 la diagnosi e’ facile: ha perfettamente ragione, quelli sono stati gli anni dell’inizio della fine. ``Forse avremmo fatto meglio --dice Judt-- a tenerci la meritocrazia.’’ Io approvo.

Riproduco il testo di un editoriale che ho pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 25 Settembre u.s.

 

 

Per ragioni oscure la parola “concorrenza” é invisa alla sinistra. Evidentemente la sinistra preferisce i monopoli. Anni fa, grazie ad un colpo di genio d’uno dei suoi leader, cominció a farsi strada la “meritocrazia” e (parte del) la sinistra divenne “meritocratica”. Bisogna, dicevano gli illuminati, premiare il merito e la competenza personale, creando un sistema dove ognuno potesse dare il meglio di se stesso. Sembravano tutti d’accordo: non dice forse un vecchio proverbio catto-comunista che “chi non lavora non mangia”?  Se non erro, su di esso coincidevano Ioseb Besarionis dze Jughashvili, in arte Stalin, e Giovanni Battista Montini, in arte Paolo VI. Suppongo che l’idea delle, eternamente controverse, “primarie” sia anch’essa un ramo germogliato dall’albero della meritocrazia: dove altro cominciare ad applicare il merito se non nella selezione dei propri leader? Non vorremmo forse tutti essere ancora guidati dal “migliore” fra i leader possibili? Perché mai solo fino al 1964? Come altro selezionare il migliore se non lasciando che i potenziali elettori scelgano fra i concorrenti? Insomma, come altro premiare il merito, in politica, se non attraverso un’aperta competizione, ossia attraverso la concorrenza fra i candidati? Ooops, deve aver pensato un illuminato dirigente (capita anche a loro, qualche volta): qualcosa é andato storto. Siamo partiti dalla meritocrazia - ch’é una cosa di sinistra, fatta di commissioni, regolamenti, concorsi, esami, parametri e comitati d’esperti – per finire alla selvaggia concorrenza elettorale dove, tra le altre, rischio d’essere bocciato!

 

Sia come sia, le primarie sembrano esser passate di moda nella sinistra italiana (a destra, dove sono piú pratici e sbrigativi, si compete per le primarie sul lettone di Putin e morta lí) ed assieme alle primarie sembra affievolirsi assai anche l’idea che la “meritocrazia” sia una cosa desiderabile e progressista, insomma una cosa di sinistra. Mi dicono che persino i giovani del PD si stanno ponendo la questione (la meritocrazia é di sinistra?) e che, mentre la fila d’intellettuali disposti a difendere il “NO” fa il giro dell’isolato, per trovarne uno disposto ad argomentare che “SI” han dovuto ricorrere all’unico, fra quegli spretati libertari di noiseFromAmerika, disposto ad imbarcarsi in una discussione del genere.

 

Io devo ammettere di non sapere bene quali siano le cose di sinistra e quelle di destra. La domanda mi ricorda sempre quel vecchio film in cui il protagonista, un po’ basito dalla fissa dei suoi amici di classificare qualsiasi minchiata come appartenente ad una delle due scatole, confondendosi fra i due veneti dal cognome simile, non ricordava piú chi fosse quello di sinistra: Basaglia (Franco, per i giovani) o Bisaglia (Antonio, sempre per i giovani)? Sará forse perché vivo nell’illusione d’aver raggiunto la mia maturitá politica tra il 1978 ed il 1979, ma appartengo al gruppuscolo di quelli  che ritengono sia il caso di fregarsene se il gatto sia bianco, nero, o financo bigio: l’importante é che catturi il topo. Ragione per cui, quando sento parlare di “meritocrazia”, tendo a reagire dicendo: a che fine? E poi aggiungo: perché volete la meritocrazia, non vi basta la concorrenza?  Le due domande hanno, a mio avviso, risposte complementari ma indipendenti. Siccome la prima é molto piú complessa della seconda e mi sono giá mangiato piú di metá dello spazio a mia disposizione, mi dedico oggi alla seconda.

 

Provo a chiarire cosa vi sia di diverso, secondo me, fra meritocrazia e concorrenza.  Entrambe assumono l’esistenza di una qualche competizione in cui persone distinte cercano di raggiungere il medesimo obiettivo ma ognuno cerca di farlo un po’ meglio dell’altro. Il prototipo della meritocrazia é la competizione sportiva: corron tutti come matti e vince uno solo, gli altri perdono. Oppure, se volete, l’esame per essere assunti al comune: una commissione stila la classifica e solo il primo prende il posto, gli altri rimangono a bocca asciutta. La concorrenza, invece, ha il mercato come prototipo: ci son centinaia d’aziende che fanno scarpe, alcune le fanno meglio, altre peggio, alcune le vendono a prezzi piú alti, altre a prezzi piú bassi. Non é ben chiaro se ci sia un vincitore: a volte qualcuno fa piú profitti dell’altro, ma anche l’altro va abbastanza bene. Alcuni vanno male po’ e qualcuno chiude. Ma gli altri si riprendono e poi passano avanti. La classifica finale non solo non esiste ma é sempre possibile entrare in gara e tutti capiscono che conta anche la fortuna: c’é sempre l’opportunitá di rifarsi, di ritentare che magari va meglio. Se non facendo scarpe, magari facendo ciabatte o borse, chi lo sa come andrá l’anno prossimo.

 

Questa differenza fra meritocrazia e concorrenza a me sembra importante. Non tanto e non solo perché la seconda tende a produrre molta piú ricchezza sociale della prima e meglio si adatta ad un mondo che cambia continuamente e nelle maniere meno prevedibili: questo é il tema dell’economista e vorrei evitarlo. Il tema che oggi mi interessa é un altro, un tema che sta a cuore a molte persone che si considerano di “sinistra”. Ossia: il destino dei “perdenti” nei due sistemi, il meritocratico ed il concorrenziale. La metto giú brutale: secondo me per i “perdenti” la concorrenza é molto meglio della meritocrazia. Molto meglio, proprio sul piano personale, esistenziale. E’ vero che per certe cose non c’é scampo: occorre usare la meritocrazia. Ma nella maggioranza dei casi possiamo scegliere fra meritocrazia e concorrenza (ovviamente c’é una terza opzione, la pastetta, ma quella oggi la ignoriamo) ed a me sembra che la seconda sia meglio della prima per la maggioranza della gente.

 

Perché, vedete, con la meritocrazia, se funziona bene, una volta che la gara é finita e si é svolta regolarmente, se X ha vinto, allora X é proprio meglio di te. Se la commissione ha stilato la classifica e non ha barato, allora Z é davvero e per certo piú bravo di te: tu bidello, lui rettore. O, per metterla in politica, lui premier e tu nell’oblio della storia. In poche parole: se la meritocrazia funziona e la applichiamo ovunque, molti sono i chiamati ma pochissimi gli eletti e quelli che han perso ... se lo meritavano, quello valgono! Triste assai, no?

 

Nel mercato concorrenziale le cose sono leggermente (infatti, sostanzialmente) diverse. E’ pur vero che oggi X é piú avanti di te e guadagna di piú, ma anche tu stai guadagnando qualcosa e sei ancora in corsa: se ti sforzi, puoi ancora competere con lui, hai ancora un’opzione. Magari é davanti per caso, magari é pura sfiga e nessuna commissione ha scritto da nessuna parte che lui é per certo meglio di te. La gara, con il mercato e la concorrenza, non finisce mai ed é sempre aperta. Infatti, quando c’é la concorrenza e ti va male qua, puoi provare di lá. Alcuni di noi finiranno tanto indietro da pensare che non ci sia maniera di farcela, ma per questo abbiamo lo stato sociale, no? Lo stato sociale, con la meritocrazia, deve occuparsi della maggioranza: tutti quelli che non arrivano primi devono essere assistiti. Con la concorrenza, solo i pochi che arrivano sempre ultimi devono esserlo, gli altri possono continuare a concorrere perché ci sono sempre molte gare aperte e non c’é nessuna commissione d’esperti che ti spiega che no, che tu sei imbranato per davvero. E questo fa una grande differenza perché offre alla maggioranza della gente una ragione per guardare avanti e sentirsi libera ed utile. Che non sono cose da poco.

 

su cui segnalo (mi ci son imbattuto per puro caso),

http://www.ildialogo.org/massmedia/Commenti_1285935620.htm

 

pretty hilarious stuff!! 

A voler essere pignoli bisognerebbe intendere bene cosa si intende per "meritocrazia".

Il confronto fra meritocrazia e mercato concorrenziale dell'articolo mi sembra molto legato al numero di ambiti considerati e al numero di partite giocate: nella meritocrazia si considera un solo scenario e una sola partita, mentre nel mercato concorrenziale gli ambiti sono molteplici e le partite ripetute.

Io non vedo una contrapposizione: la meritocrazia è un principio e il mercato concorrenziale è un sistema.  In particolare è un sistema in grado esattamente di garantire proprio quel principio!

La contrapposizione, semmai (e qui, imho, casca l'asino della sinistra - ma anche della destra, perlomeno quella italiana) è sul soggetto chiamato a garantire questo principio.  Chi fa sì che chi merita di più abbia di più?  Il mercato è solo una possibilità, ma non è l'unica.  Niente vieta di immaginare un ente che giudichi caso per caso, ad esempio lo Stato.  Dov'è la differenza?  Sia con il mercato che con lo stato è il merito a essere premiato, ma se con il primo ho una decisione "distribuita" (non nelle mani di un solo soggetto), nel secondo ho una decisione arbitraria.  Ora, una decisione arbitraria ha tanti problemi: esiste un altissimo rischio che sia sbagliata, si può avere moral hazard, bias, etc. etc.; però, agli occhi del nostro uomo di sinistra, ha un vantaggio fondamentale: è controllabile.  Il mercato (quello vero), non è piegabile alle convenienze politiche: è fondamentalmente onesto.

Questa è la differenza abissale: chi decide chi merita o meno.  Meritocrazia è un termine più comodo perché lascia uno spiraglio per far decidere tutto a un'autorità centrale.  Per questo motivo, in certe mani, "meritocrazia" rischia soltanto di essere un nome per esercitare potere sugli altri (prendendoli pure in giro).

 

Viva la concorrenza, certo. Pero’ la concorrenza e il mercato sono cose da creare. Per esempio in Italia oggi non c’e’ il mercato che regola la allocazione delle posizioni universitarie, e per crearlo non basterebbe importare i sistema corrente qui (USA), con il dipartimento che ha una sostanziale liberta’ di decidere chi assume.  

Quindi intanto stabiliamo il principio, semplicissimo: onore al merito. Il merito si premia, anche se porta alla disuguaglianza.

Dopo la citazione di Friedman, Aldo scrive: "Questa è la sfida di destra". Per la risposta a sinistra , il suo messaggio è : "Libertà oggi non è da uno stato autoritario… ma da uno stato badante che si prende cura di noi”. Ottimo. Ma questo è un messaggio in cui si dovrebbe riconoscere senz’altro un giovane di destra. Allora – io non riesco proprio più a capire – dov’è la differenza tra destra e sinistra? C’è più un contenuto in questi termini? Forse se ammettessimo che non c'è, ci si potrebbe confrontare in modo più chiaro, senza quella coltre di fumo tossico che avvolge i dibattiti italiani. Naturalmente ammettendo che la sinistra in italia è post marxista e che la destra in italia ha qualcosa a che vedere con Milton friedman. 

ammettendo che la sinistra in italia è post marxista e che la destra in italia ha qualcosa a che vedere con Milton Friedman.

Bel punto di partenza. Che i fatti, temo, non confermano: questa sorta di social-statalismo confessionale che permea l'(in)azione di governo e l'esposizione della visione economica di Bersani e Fassina - per non parlare di vendolismi assortiti, che ci auguriamo minoritari - non inducono a grandi professioni di ottimismo.

Paola, domandi:

Ma questo è un messaggio in cui si dovrebbe riconoscere senz’altro un giovane di destra. Allora – io non riesco proprio più a capire – dov’è la differenza tra destra e sinistra? C’è più un contenuto in questi termini?

Chiaro come cristallo, provo a dire la mia. Alla fine se ci riesco dovrei aver chiarito sia perché io mi considero di sinistra, e anche perché la sinistra, nel mondo, e' in alto mare. Fammi sapere quanto sono lontano, su tutte e due le cose...

Prima di tutto: c’e’ una grande differenza fra destra e sinistra: la destra non si preoccupa molto dei meno fortunati, la sinistra si’. C’e’ dunque diversità di intenti. Che ci sia diversità di idee invece e’ molto meno chiaro, perché la destra le idee le ha (cioè le ha prese da Chicago, una scuola di assoluta chiarezza di pensiero) e la sinistra no, e non sa da dove prenderle. Da qui l’impressione, secondo me errata, che ci sia ormai uniformità ideale sostanziale su tutto lo spettro politico, che i confini fra la destra e la sinistra si stiano offuscando, che ormai tutti dicono le stesse cose. Ma se fosse cosi’, perché tanta passione? Perché tanta acrimonia nel dibattito politico? Vediamo di approfondire questa diversità di idee.

La destra il proprio problema l’ ha risolto da tempo, e nelle sue manifestazioni oneste segue quello che dice Friedman: Seguite la libertà. In questo modo avrete almeno la libertà e anche per la giustizia non andrà poi tanto male. Per forza di gravita’, diciamo cosi’, poi pero’ la destra scivola verso una visione un po’ più opportunista delle cose, e cioè: “Lasciamo tutto come sta”, perché questo difende gli interessi costituti. In Italia come sempre le cose si trasformano in farsa, e ci ritroviamo Berlusconi. Questo e’ importante, certo, ma e’ anche cosi’ semplice che non vale perderci tempo a discuterne.

La sinistra il proprio problema non sa nemmeno bene come affrontarlo, e da qui seguono il vuoto di idee, la personalizzazione della politica (“Dovremmo chiamare Montezemolo?”), più quella eterna tentazione di dire: se una cosa e’ desiderabile la si impone per legge (o, in versione piu’ sofisticata, usando la moderna teoria degli incentivi, si rende il non farlo cosi’ costoso che la gente non ci pensa nemmeno a fare altrimenti). Ma non vorrei far sembrare che il problema non e’ risolto per pigrizia o per povertà intellettuale. La difficoltà del conciliare diversi valori e’ sostanziale, e la vorrei illustrare con un esempio, molto importante.

Prendiamo il principio ``uguaglianza di opportunità“. Pare l’uovo di Colombo: Si comincia col notare che ci sono ingiustizie nella societa’ perché per esempio il figlio di una persona ricca ha maggiori possibilità del figlio di una meno ricca, senza che i due giovani abbiamo alcun merito o responsabilita’. D’ altra parte, non si può rimediare imponendo uguaglianza di reddito. Quindi si dice che bisogna realizzare il principio di pari opportunità: si fanno trasferimenti iniziali (in una qualche forma) che mettano tutti sulla stessa condizione iniziale. Una volta fatti questi trasferimenti, raggiunta la maggiore eta’, ognuno procede con i propri mezzi

Bene: io credo che questo metodo non funzioni. Lo vedete subito se sapete sul serio come funzionano gli incentivi. Sul serio significa che non basta avere fatto tre derivate in un modello principale-agente stile francese. (Per chi sa queste cose, mi riferisco alla macchinetta classica: programma del principale, vincolo di incentivo, vincolo di partecipazione, e voila’ la societa’ ottimale e’ caratterizzata dal seguente sistema di equazioni non lineari 1, 2 e 3).

Dovete invece tener conto delle implicazioni psicologiche di un trasferimento. Quando si trasferiscono fondi, si fanno due cose. Una e’ esplicita, il trasferimento e gli effetti economici che questo trasferimento genera: per esempio la possibilita’ di studiare se il trasferimento pero e’ un finanziamento del diritto allo studio. O una tassazione differenziata a seconda del sesso. Questo e’ l’ effetto di cui si e’ occupata la teoria economica fino ad ora. Della seconda si sono occupati altri: per esempio quello che ho fatto (come scienziato, diciamo cosi’) su incentivi e penali affronta questo punto.

Questo secondo effetto e’ implicito, quasi mai detto, quasi mai notato: un trasferimento e’ il riconoscimento implicito che al ricevente e’ stato fatto un qualche torto, e che questo primo trasferimento e’ una compensazione. Secondo me la sinistra non ha ancora trovato il modo di fare i conti con il seguente semplicissimo principio:

L’effetto implicito del segnale che si da’ (“Ti diamo qualcosa che ti e’ dovuto” che genera la seguente aspettativa  ” Mi hanno dato, e quindi altro mi sarà dato nel futuro, in particolare se faro’ in modo di avere bisogno anche in futuro”) supera sempre e di gran lunga l’effetto diretto (quello dell’ aiuto che dovrebbe permettere di camminare con le proprie gambe). Da qui deriva un circolo vizioso che rende nulle le buone intenzioni del progetto iniziale.

Quando alcuni (come Salvatore Modica) dicono che i trasferimenti al Sud d’ Italia funzionano come una droga, hanno ragione in un modo profondo: il meccanismo e’ lo stesso della droga (ancora una volta, ma questa e’ l’ultima...). La stessa critica si applica, secondo me, a proposte come quelle di Ackerman and Alstott sulla Stakeholder Society.

Un esempio di natura personale per chiarire. Supponete di avere un figlio in una scuola privata americana, che diciamo si chiama Blake. Ora questa scuola, tradizionalmente di ricchi (definizione di ricco: viaggi sul tuo jet) si fa prendere dal senso di colpa e dice che bisogna offrire agli studenti bianche una finestra sulla societa’ americana, e agli studenti neri di Minneapolis una opportunità’ di farsi una educazione di alta classe.

Per realizzare questo nobile compito, aumenti le tasse di iscrizione (diciamo di 5250 dollari fra il 2002 e il 2010 per la scuola media), e usi i proventi per far iscrivere studenti poveri con borse di studio. Diciamo che dopo 8 anni di questa politica, hai che il 19.3 per cento dei tuoi studenti sono ``minoranze’’.

Pare il mondo ideale: uguaglianza di opportunita’ per molti figli di minoranze nere, piu’ diversita’ a scuola per i privilegiati bianchi. Il migliore dei mondi possibili. Pero’ non funziona. Ecco quello che succede in realta’.

Quello che si dice al ragazzo di minoranza (diciamo Tyler) e’:

“Caro Tyler: noi per pura generosita’ ti diamo circa mezzo milione di dollari in tasse di iscrizione. Questo ti mette al pari degli studenti bianchi ricchi, quindi ti offre la stessa opportunita’ che hanno loro. Fanne buon uso.”

L’ unico modo in cui questa cosa e’ l’attuazione del principio delle pari opportunita’ e’ un’ altra frase, che si dovrebbe dire a Tyler, e che e’:

``A proposito: Questo e’ quanto. Non ci saranno altri pagamenti. Quando avrai 17 anni e cercherai un college dovrai camminare con le tue gambe. Altrimenti andiamo verso la uguaglianza dei risultati e tutti sanno che e’ una pessima idea.”

E poi si dovrebbe trovare il modo di fare questa promessa vincolante. Siccome e’ impossibile, non si fa e non si dice nulla. Di conseguenza, quello che Tyler pensa e’:

``Ottimo questo mezzo milione di dollari. Questa e’ la prima rata di una sequenza infinita di pagamenti che mi sono dovuti in riparazione per la ingiustizie passate, e quindi basta continuare a frignare, che la manna continuera’.”

Infatti subito dopo Tyler va a pranzo e dice a, diciamo per fare un nome caso, Angelo:

“Angelo: i tuoi genitori e tutti i bianchi dovrebbero vendere quello che hanno e darlo ai poveri.”

 

Sono molti anni, prima ancora che finissi su nfa, che sono convinto, che la sinistra nel 2010 abbia principalmente l’obbligo di eliminare il fattore “altro” (ambiente familiare e sociale, capacità e disponibilità a prostituirsi, ecc.) nella formuletta di Giulio.

Purtroppo la c.d. sinistra di oggi in Italia ma non solo (anche in Germania, dopo Schröder, mai amato dalla base, si sta tornando indietro, con invocazioni di patrimoniali e quant´altro) non cerca questo, cerca solo di mantenere vecchi privilegi (la possibilità di andare in pensione dopo 35 anni, la garanzia del posto di lavoro anche se non si lavora, la carriera automatica per anzianità) o di crearne di nuovi.

Assolutamente emblematico e strettamente connesso è l’articolo di Aldo su Waiting for Superman laddove proprio i sindacati si rivelano essere il più grande ostacolo per la creazione di una scuola pubblica efficiente, sicchè solo i ricchi possono fornire una valida istruzione ai propri figli.

Concludendo: Ferrero e Diliberto sono di destra ed nfa è di sinistra :-).

 

 

 


 

premesso che condivido il discorso sulla concorrenza che è più inclusiva della meritocrazia, anche se un filino di ragione quei tizi che non vogliono Boldrin sul Fatto ce l'hanno, non tutti possono competere allo stesso modo (se sei operaio a Pomigliano con famiglia e mutuo, non puoi facilmente "competere" cercando un lavoro altrove o mettendoti in proprio), sulla meritocrazia mi sembra che ci siano interpretazioni opposte.

Boldrin dice che

La meritocrazia si fonda sull'idea che esiste un ordine lessicografico preciso e definito ex-ante (ossia PRIMA che si giochi il gioco in questione) ed indipendente dalle strategie che gli agenti poi adotteranno. Questo ordine è assoluto (e.g. chi arriva prima alla linea immaginaria dei 100 metri correndo secondo le regole A, B, C, D... vince)

altri invece hanno scritto che il merito si può valutare solo a posteriori dai risultati.

Forse è una posizione più corretta: se il medico X o il team Y guarisce un maggior numero di  patologie paragonabili  con lo stesso uso di risorse di Z o W, a posteriori sono più meritevoli... o forse sono "solo" più competenti ed efficienti.

Anche nel dettato costituzionale su "capaci e meritevoli" evidentemente ci si riferisce a un giudizio a posteriori, hai preso il massimo alla maturità e ti do la borsa di studio

 

Per dire: i test d'ammissione all'università sono meritocratici? Per me no, sono selettivi: le risorse sono scarse e le assegniamo in base al criterio che chi supera i test ha maggiori attitudini a proseguire negli studi, ma andar bene ai test non può essere un merito nel senso di giudicare dei risultati come dire, omogenei al merito stesso: i test per l'ammissione a medicina non ti dicono se sei un medico "meritevole".

Il voto agli esami è meritocratico (c'è un programma per cui è prefissato quello che devi sapere), ma non è competitivo: in teoria tutti possono prendere 30 e il mio 30 non impedisce ad un altro studente di prenderlo anche lui, né il modo con cui io studio influenza quello con cui studia un altro studente. 

Un concorso è meritocratico e almeno parzialmente competitivo : se il posto lo vinco io non lo vinci tu, ma comunque non è competitivo nel senso del mercato, in cui posso adeguare prezzi, qualità o che altro a seconda delle strategie dei miei concorrenti.

 

 

Non sono riuscito ad andare oltre le prime righe di questo articolo.

Lasciamo pure da parte Marx, ma riabilitiamo almeno il buon senso: è del tutto evidente infatti a qualsiasi persona di buon senso che i ricchi SONO ricchi a spese dei poveri! E come, altrimenti? 

E' un'ovvietà, una banalità per chiunque viva nel mondo reale e non nel mondo virtuale dell'accademia. 

Credo che per mettere in discussione (nel mondo reale) una tale banalità, più che i ponderosi tomi di filosofia e le teorie fumose come quelle di Rawls o di Sen, occorra la profonda falsa coscienza di chi forse dalla negazione di tale ovvietà trae non solo il suo sostentamento economico, ma anche la tranquillità dei suoi sonni.

Scusate l'intrusione (e l'acredine, ma oggi ce l'ho un po' col mondo...) e continuate pure la vostra dotta discussione.

Cordiali saluti

Lasciamo pure da parte Marx, ma riabilitiamo almeno il buon senso: è del tutto evidente infatti a qualsiasi persona di buon senso che i ricchi SONO ricchi a spese dei poveri! E come, altrimenti?

mah, una simpatica provocazione?

altro che modello "superfisso", qua siamo al "nulla si crea, nulla si distrugge" di lavoisier.

vabbè, hai vinto il premio IG nobel.

Ne deduco che un Bill Gates qualsiasi, che e' ricco in quanto ideatore (OK, insieme ad altri, ma nessuno degli altri e' povero) del concetto commerciale di sistema operativo, e' ricco a spese di chissa' quanti poveri. Chi sono questi poveri? Onestamente non capisco, ti prego di spiegarmelo con parole semplici, oggi ho un gran mal di testa!

E tu stesso (o io, se e' per questo) a spese di chi sei diventato cosi' ricco? Do per scontato che tu sia un cittadino istruito italiano, per cui la probabilita' che tu sia nel decile piu' alto di reddito al mondo e' piuttosto alta - lo so, dovrei quantomeno mettere un grafico, ma ho mal di testa, come dicevo sopra.

Claudio, dirci che è evidente a tutti non ci aiuta. Potresti spiegarci in modo chiaro e logico come funziona secondo te?

Mio padre è figlio di contadini migrati a Milano senza niente. Hanno consumato pochissimo e risparmiato tantissimo. I loro figli sono andati tutti all'università e hanno una situazione economicamente stabile. Mio padre poi ha fatto il botto nella ricerca medica di base e ora è ricco (non ricchissimo, ma ricco).

Se mi spieghi a danno di chi è avvenuto questo processo mi fai felice: adoro farlo incazzare la domenica a pranzo. E' uno dei pochi plus di essere tornato in Italia.

 

 

 

Comunque io Claudio lo capisco. 

Recentemente sono stato su di un blog di astronomia e mi sono permesso di fare notare come sia del tutto evidente a qualsiasi persona di buon senso che la terra e' fissa ed e' il sole che le gira attorno? Come altrimenti?

Io soffro di mal d' auto, figuriamoci quanto soffrirei se la terra girasse alle velocita' che dicono. E poi, vi sembra di muovervi a voi? Il sole non lo vedete sempre sorgere da una parte e tramontare dall' altra?

E' un'ovvietà, una banalità per chiunque viva nel mondo reale e non nel mondo virtuale dell'accademia.

Credo che per mettere in discussione (nel mondo reale) una tale banalità, più che i ponderosi tomi di astronomia e le teorie fumose come quelle di Copernico o di Galileo, occorra la profonda falsa coscienza di chi forse dalla negazione di tale ovvietà trae non solo il suo sostentamento economico, ma anche la tranquillità dei suoi sonni.

E non mi dite che grazie a quelle teorie siamo riusciti a mandare l' uomo sulla luna perche' Capricon One l' ho visto anch' io!

 

 

 

Lasciamo pure da parte Marx,

in effetti, scusa, l'hai proprio lasciato da parte...

 

Hai ragione sul fatto che i ricchi sono ricchi a danno dei poveri... in alcuni casi però, dove per esempio ci sono rendite di posizione e di monopolio. Ti sembrerà paradossale, ma in quei casi ci vuole più mercato e più concorrenza...

 

i "ricchi" non costringono "i poveri" a lavorare per loro, nè mi pare che la nostra legge sia una legge fatta dai ricchi per i ricchi. "il povero" sceglie di mettersi nelle mani del "ricco" perchè crede che sia la migliore opzione disponibile. i "ricchi" sono ricchi a spese loro (o dei loro genitori... ma questo vale anche per i poveri, no?).

vediamo ora cosa ne pensa una persona di buonsenso.

OK Ritiro l'aggettivo dotto. Qua siamo all'ABC, mi sembra.

Addio

perdonami per non essere dotto. credevo che alle tue esternazioni (motivate tra l'altro da sapientissima acredine) anche un non dotto come me potesse rispondere. così, giusto per non alzare troppo il livello della tua esimia riflessione.

Stavo preparando un post, poi vista la discussione metto il commento qui. Scusate in anticipo se ripeto qualcosa di già detto e se il commento è un pò lungo.

I recenti post di Aldo e Giulio hanno sollevato interessanti spunti sul dilemma tra uguaglianza e libertà e sull'approccio che la sinistra italiana ha e potrebbe avere sulla questione. Penso che l'assoluzione della meritocrazia da parte dei giovani portata a casa da Giulio sia incoraggiante e provo a suggerire un approfondimento su quella linea: non potrebbe la sinistra concentrarsi essenzialmente sulla uguaglianza delle opportunità[UdO]?

Riprendendo l'espressione di Giulio se

Risultato = abilita x impegno x ALTRO

secondo me UdO vuole dire,

1. neutralizzare il più possibile l'impatto di ALTRO a livello individuale nel senso che il risultato di ciascuno dovrebbe, nei limiti del possibile, essere determinato solo da abilità e impegno (concorrenza ad armi pari)

2. affinchè ciascuno abbia realmente l'opportunità di esprimere il proprio potenziale, il fattore "ALTRO" deve essere impiegato in modo da massimizzare la produttività degli altri due (meritocrazia)

Provo a chiarire con qualche esempio.

Prendiamo lo studente A che ha risultati migliori dello studente  B. La  UdO non deve intedersi come impegno di risorse aggiuntive per colmare la differenza tra i due, ma come impegno a fare in modo che che entrambi devono abbiano a disposizione gli stessi mezzi in modo che la differenza nei risultati sia imputabile solo alla capacità e all'impegno impiegati. Che succede se uno dei due è più ricco e può permettersi lezioni private o viaggi di studio? E' il caso di intervenire per compensare questo squilibrio? Io direi di no.

Una delle trappole più frequenti per il pensiero di sinistra è l'illusione di poter dare tutto a tutti o comunque che sia questo l'ideale a cui tendere. La scienza triste ci insegna che le risorse sono scarse, per cui un obbiettivo realistico e non demagogico dovrebbe essere: date le risorse disponibili (che per definizione non consentono di fare tutto quello che si vorrebbe) si dovrebbe cercare di fornire a ciascun individuo l'opportunità di esprimere il proprio potenziale (determinato da quanto è capace e quanto si impegna) sotto l'ulteriore vincolo che quando i mezzi sono limitati è preferibile fornirli a chi ne farà un uso migliore.

Udo vuole dire, quindi, fornire al più ampio  numero di individui possibile l'accesso all'istruzione, all'informazione e a tutte le altre componenti del fattore altro. Se però un accesso a Internet e a una bibblioteca elettronica, così come una decente conoscenza delle lingue straniere, può (e dovrebbe) essere facilmente garantito a tutta la popolazione senza costi eccessivi, un'istruzione universitaria avanzata non può in genere essere offerta a tutti. In questo secondo caso dare a tutti l'accesso a un'università mediocre, priva i più capaci e volenterosi della possibilità di esprimere a pieno il proprio potenniale. Se un individuo è più capace degli altri, per avere le stesse opportunità (in termini relativi) occorre fornigli mezzi maggiori.

Diciamo che A ha le caratteristiche (attitudini innate + volontà di impegnarsi) per diventare il migliore idraulico del pianeta e B il migliore fisico teorico. Affinchè abbiano eguale opportunità di esprimere il proprio potenziale, ad A basta seguire un corso professionale, B invece deve poter frequentare una buona università ed avere la possibilità di svolgere attività di ricerca.

Torniamo per un istante allo studente ricco che può permettersi lezioni private vs quello meno abbiente che non può. A ben guardare, ognuno di noi è libero di scegliere come allocare le proprie risorse, alcuni preferiranno abiti firmati ai libri di testo (oppure a Voltremont che dovrebbe essere lettura di riferimento alle scuole dell'obbligo) altri ancora vacanze esotiche a viaggi di studio. Credo tuttavia che sia plausibile immaginare che in realtà i ricchi idioti e i geni poveri siano una minoranza, il grosso è fatto da persone di media capacità e medie disponibilità. Ritengo un obbiettivo sufficiente per la UdO che nessun individuo geniale sia privato dell'opportunità di mettere a frutto le proprie capacità, solo perchè è nato povero; se poi gli individui medi devono rinunciare a un giubotto o un cellulare trendy per comprarsi dei libri o studiare due ore in più alla sera, non mi pare il caso di gravare la collettività di costi. Pertanto la UdO rispetta la libertà individuale: se il nostro Will Hunting di turno decide di fare il barman invece del fisico teorico, nulla quaestio,l'importante è che, qualora decidesse di concorrere per studiare al MIT, l'accesso non gli sia precluso solo perchè, sebbene meritevole, non può pagare la retta.

Volendo distillare qualche indicazione concreta è chiaro che ci sono innumerevoli complicazioni operative. Gli individui non nascono con una targhetta che dice se sono idonei a diventare cardiochirurghi o tecnici specializzati.L'esperienza ci insegna (e la teoria economica che ci conferma) che un valutatore centrale non è il modo più efficace per fare in modo che chi è più capace venga messo in condizione di far bene, ci vuole la competizione. 

Quanto possiamo intervenire per garantire pari opportunità? Nascere in una casa piena di testi di diritto e disporre genitori o fratelli competenti in materia è un innegabile vantaggio competitivo che difficilmente potremmo proporci di compensare. Come obbiettivo di politica possiamo però proporci che le selezioni per accedere alle professioni giuridiche siano il più obbiettive possibili (e non siano influenzabili dall'"interessamento" dei parenti) e che anche chi non nasce a casa di un principe del foro possa accedere a costi ragionevoli alla conoscenza del diritto.

Quanto c'è di sinistra in un ragionamento di questo genere? Forse molto poco, ma non ritengo questo profilo rilevante (chi vuole approfondire la distinzione tra destra e sinistra può leggersi il post di Michele, Ubi maior,minor cessat).

Aldo e Giulio ci hanno spiegato che l'uguaglianza a cui può fare riferimento la sinistra non è più e non può più essere quella comunista. L'esperimento del processo di Cortona ci conforta sulla disponibilità dei giovani di sinistra ad accettare le implicazioni concorrenziali della meritocrazia. Quindi perchè non fare un passo in più? Chiaro che in questa sede non si può e non si vuole proporre un programma politico esaustivo, semplicemente, se la sinistra ha bisogno di idee, questa era una.

 

 

Ottimo post, secondo me.

Per renderlo proprio completo, bisognerebbe forse meditare su un paio di cose:

1)    comunque esistono sempre delle “code della distribuzione” con cui fare i conti, ossia persone troppo poco brave per competere accettabilmente col resto della società; cosa fare di costoro? Li lasciamo affondare?

2)    Esistono poi le code di direzione opposta, quegli individui ricchi di talento , fortunati ed ossessivamente determinati che finiscono per trovare la strada giusta per accumulare enormi quantità di ricchezza e quindi di potere. Possiamo tranquillamente convivere con questa situazione?

 

 

 

1. neutralizzare il più possibile l'impatto di ALTRO a livello individuale nel senso che il risultato di ciascuno dovrebbe, nei limiti del possibile, essere determinato solo da abilità e impegno (concorrenza ad armi pari)

2. affinchè ciascuno abbia realmente l'opportunità di esprimere il proprio potenziale, il fattore "ALTRO" deve essere impiegato in modo da massimizzare la produttività degli altri due (meritocrazia)

 

Centro. C'e' stato negli ultimi quindici-vent' anni un dibattito accademico sterminato sull'eguaglianza delle opportunita', e alcune proposte sono grosso modo proprio lungo le linee che dici tu (l'ex marxista John Roemer, e Marc Fleurbaey -che penso abbia inventato lui la 'formula' spiegata da Giulio- sono fra i nomi da cercare. Suggerisco questo libro di testo).

Purtroppo la sinistra politica non ha recepito davvero l'importanza di queste idee, anche si ci ha flirtato a parole (parlo degli UK, sull' Italia ho perso le speranze). Anche il New Labour non ha avuto il coraggio di mettere in pratica l'enfasi sulla responsabilta' individuale e di intaccare la dependency culture generata dal welfare state.

Grazie 1000 per il link e per le dritte bibbliografiche.

Credo che il nodo della questione, che non vuole entrare nella testa dei sinistri (speriamo nei giovani però), sia il punto 2: nell'illusione di voler dare tutto a tutti, si finisce per dare poco a parecchi vedi mio esempio dell'università mediocre per tanti (non è mai possibile dare a tutti) in luogo di una buona per i pochi potrebbero metterne a frutto gli insegnameti.

Caro Aldo,

grazie per aver scritto la lettera a tutti noi. Pur non essendo piena di retorica e di parole altisonanti, a mio parere ha un contenuto molto forte soprattutto alla fine, dove affermi che la sinistra dovrebbe interessarsi della gente, e non dello stato.

A dir la verità, io faccio fatica a considerarmi di sinistra nell'attuale senso del termine, tanto che ero tentato di mettere un punto di domanda alla fine del titolo. Se dal punto di vista etico sono un progressive, infatti, da un punto di vista economico sono un conservative anche se, secondo me, la parola non è quella giusta. Come dice anche Mr. Bisignano in un commento qui sopra, Diliberto e Ferrero sono molto più a destra che i vari liberali. Questi hanno significato qualcosa solo nell'epoca Giolittiana, ma poi nulla più. Quindi oggi liberalism, almeno in Italia, significa più prog che con. Negli anni '60-70, la Sinistra era veramente progressive su alcuni fronti, perchè propugnava dei diritti per i lavoratori nel settore secondario che all'epoca erano indispensabili. Oggi i problemi sono altri e, rimanendo immutabile l'apparato che è stato creato all'epoca, si fa più male che bene. Basta vedere solamente la dinamica della forza lavoro: all'epoca l'occupazione dipendente nel secondario era molto più alta che non adesso; da questi dati si nota che solo dal '92 al 2003 si è ridotta dal 37,4% al 32,9% e secondo le stime dell'Istat oggi si è al 30,7% (a dir la verità sarebbe bello vedere la composizione di questi dipendenti, cioè quanti sono operai e quanti nei vari uffici, e anche le serie storiche degli anni precedenti). Togliere quei diritti che sono stati dati ieri significa darne altri che si creerebbero domani, ed è proprio il non voler capir questo che sta creando problemi alla mia parte politica. Se c'è un problema a livello politico lo si risolve con degli interventi e quando tutto finisce bisogna valutare se bisogna mantenere la situazione o no. Togliere oggi l'articolo 18 del famoso statuto dei lavoratori significa sì lasciare che le aziende licenzino di più, ma anche preparare i lavoratori ad una società dove in un decennio ci sono migliaia di cambiamenti (ovviamente non basta questo, servono ammortizz. sociali + formazione + quant'altro).

Non so da dove derivi questa paura del domani da parte nostra che dovremmo guardare all'orizzonte, ma resta il fatto che questo atteggiamento lo si sente anche nei giovani: in maniera molto leggera rispetto ai senior, dalla mia esperienza e dalla esperienza di Mr. Zanella come scrive nell'altro post, però qualcosa rimane. Ora bisognerà vedere come il PD e gli altri partiti di centrosinistra (mi dispiace ma non ho mai avuto fiducia da Ferrero in poi e pure Vendola mi puzza) vorranno valorizzare i giovani che guardano avanti. Una speranza forse c'è, ed è composta da Civati, Renzi ecc. ma è troppo presto per capire a che punto vorranno arrivare.

Nel frattempo vi ringrazio, Aldo e voi tutti di nFA, a nome di tutti noi che stiamo faticando ma ci stiamo impegnando affinchè la sinistra ridiventi Sinistra. Il vostro attestato di fiducia con questa lettera (perchè vedendo anche nei commenti credete molto di più al mancino che al destrorso), anche se siete dei ultraliberisti con l'orecchino, vale molto.

in attesa di giorni migliori, vi saluto

MO

 

Una speranza forse c'è, ed è composta da Civati, Renzi ecc. ma è troppo presto per capire a che punto vorranno arrivare.

Diccelo tu: Civati, Renzi, Serracchiani, Zingaretti, il poker del PD. E' troppo presto? Perche'? Se non o fanno loro...

Ahimè, non di poker si trattava, ma di carta più alta.