Pensioni, il solito pastrocchio all'italiana

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Ancora sulla sentenza della Consulta

“Le nuove regole introdotte dalla riforma adottata con la L. 214/2011 hanno modificato in modo significativo il sistema pensionistico migliorandone la sostenibilità nel medio-lungo periodo e garantendo una maggiore equità tra le generazioni”. 

Così recita una nota del ministero dell’economia nel DEF 2015. La sostenibilità del sistema nel medio-lungo periodo non può essere certo messa a rischio dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015, mentre quella a breve poteva, o potrebbe, essere seriamente messa in discussione, in special modo con riguardo all’equilibrio delle spese correnti e del parametro del deficit. Pericolo scongiurato, a detta di Renzi, attraverso la determinazione del Consiglio dei Ministri del 17 maggio con cui il governo ha stabilito che ad avere il beneficio della perequazione all’inflazione saranno 3,7 milioni di pensionati rispetto ai circa 5 milioni degli aventi diritto con una spesa pari a 2,1 miliardi contro i 18 preventivati.

Dunque l’angoscioso dilemma sull’uso del – presunto - tesoretto è stato risolto. Pazienza se il suddetto tesoretto doveva essere di 1,6 mld e non di 2,1. 

Lo Stato dunque restituisce l’11,1% di quanto dovrebbe in forza di una sentenza della suprema corte. Il resto mancia, o meglio si vedrà nei prossimi anni. Le costituende associazioni di pensionati, spalleggiati dai soliti sciacalli politici un tanto al kilo, che magari nel 2011 votarono il decreto Monti (PD e PdL-Forza Italia in testa), già urlano il loro grido di guerra e minacciano class action. 

Vediamo di fare un po’ di ordine in questo inqualificabile pastrocchio molto italiano e proviamo a fare qualche considerazione sul perché una materia così sensibile non riesca a trovare nel belpaese una meritata e stabile quiescenza. 

La spesa per trattamenti pensionistici è in Italia oggettivamente molto alta. Sempre nel DEF si può leggere la seguente tabella che riporta l’incidenza degli assegni pensionistici sul totale.

 Spesa per pensioni

 Come si vede, alla faccia di tutte le riforme che avrebbero stabilizzato il sistema, fino al 2045 la spesa per pensioni si terrà ben al di sopra del 15%, il doppio della media OCSE. Come si è arrivati a questo livello?  

ONTOLOGIA DI UN PASTROCCHIO

Il guazzabuglio creato dalla sentenza della Consulta ha origini lontane ed è insito nel sistema pensionistico stesso.

Un sistema a ripartizione, indipendentemente dall’essere caratterizzato dal calcolo retributivo o contributivo, è sottoposto a stress finanziario se non supportato da adeguate dinamiche demografiche ed economiche.

Insomma, va bene finché cresce il numero di occupati in rapporto al numero dei pensionati e finché cresce la produttività degli occupati stessi, ossia il PIL aggregato. Altrimenti non va più bene e diventa una palla al piede non solo e non tanto per i conti dello stato ma per il sistema economico stesso. Perché, siccome le pensioni vanno pagate, la tassazione sul reddito (da lavoro) deve crescere o ben via contributi sociali o ben via imposte generali. E questo ammazza il lavoro.

In Italia, da quasi due decenni, c'è poca crescita dell'occupazione e quasi nulla crescita della produttività. Quindi il PIL non cresce e da 8 anni oramai discende. Quindi il reddito da "ripartire" diminuisce e, se la fetta "ripartita" via pensioni non decresce assieme al PIL ma cresce, decresce ancor di più quel che rimane per gli altri. Quelli che il PIL lo producono, o dovrebbero.

Su questo stato di fatto per almeno tre decenni la politica ha chiuso occhi, naso ed orecchie  arrivando a mantenere in vita furti come le Baby Pensioni (Governo Rumor, 1973) che ci costano ancora 9 miliardi l’anno, o sistemi di calcolo particolarmente generosi per tutti (fino a più del 100% del reddito per alcuni privilegiati).

In questi anni si è assistito ad una forma di cannibalismo intergenerazionale, con “gli anziani” che si nutrivano avidamente dei contributi dei figli. Quando si cominciarono ad intravvedere le conseguenze di questo saccheggio di risorse, era il 1992, si mandò in scena un refrain tipicamente italiano: la toppa a coprire il buco. Allungamento - graduale per carità e non per tutti ché qualche privilegio bisogna comunque garantirlo - del periodo di osservazione del reddito utile al calcolo dell’assegno. Tre anni durò la salvifica riforma Amato che nulla salvava.

Altra toppa nel 1995 (L.335), questa volta più robusta almeno nelle intenzioni, e introduzione - graduale anzi gradualissima - del contributivo. La riforma Dini-Triplice sindacale si basava su due grandi drivers: montante dei contributi versati dai lavoratori e coefficienti di trasformazione. Ora, se per i primi è facile immaginare che poco ci sia da intervenire essendo questa materia indipendente dalla volontà dei governi, per i secondi era logico pensare ad una revisione sistematica e puntuale dei moltiplicatori in base alle aspettative di vita della popolazione. Appuntamento proditoriamente saltato perché la pensione, e il relativo diritto a percepirla (i diritti acquisiti su cui tornerò dopo), è come  la mamma, la chiesa e la nazionale di calcio: intoccabile.

Altro giro, verrebbe da dire di orologio, altra miniriforma. Prodi 1997, appena un anno e mezzo dopo la 335 di Dini, con l’accelerazione della fase transitoria che salvaguardava le pensioni di anzianità.

Non passano tre anni che si mette mano di nuovo ad un aggiustamento, questa volta con D’Alema, con l’istituzione del contributo di solidarietà per le pensioni d’oro. Tregua di quattro anni e nuova toppa con Maroni (L.243/2004) contenente, fra l’altro, il famigerato “scalone”. Di nuovo Prodi (2007) e di nuovo una riforma, la 247, con cui si introduce un nuovo elemento che diventerà gergo comune, quota 95 (somma dell’età del pensionando e  degli anni di lavoro, poi portata a 96). Questa volta il silenzio dura solo 2 anni perché nel 2009 il governo Berlusconi vara la Legge 102 destinato ad innalzare l’età di pensionamento delle donne a 65 anni. Infine arrivano il supertecnico Monti con la supertecnica Fornero e siamo ai giorni nostri.

Dunque di toppa in toppa, di riformina in riformina, le pensioni, che ogni volta nelle conferenze stampa erano messe in sicurezza da qui all’eternità, sono state rimodulate otto volte in 20 anni! Un sistema che funziona non necessita di tanti aggiustamenti. E gli aggiustamenti continui massacrano il paese. Guarda caso l'ha ricordato anche Mario Draghi l'altro ieri, dandomi l'opportunità di aggiungere questa citazione. Lapalissiano no?

Facendo finta di difendere i diritti acquisiti e valutandoli per quello che in realtà sono, ossia aspettative,  verrebbe da dire che i diritti acquisiti sono stati traditi alla media di una volta ogni diciannove mesi, senza garanzia che il film finisca qui.

PERCHÈ RENZI HA RAGIONE E PERCHÈ HA TORTO

La sentenza della suprema Corte apre un buco nei conti pubblici che già sono in equilibrio precario. Ha ragione Renzi a lamentarsi di dover aggiustare i guasti prodotti da altri perché l’Italia non può permettersi sforamenti nella disciplina di bilancio per via dell’elevato debito pubblico e per via di una crescita ancora asfittica . Pagare per intero la perequazione significherebbe dover poi reperire risorse per altri 16-18 miliardi, l’importo di una robusta manovra. Significa, molto probabilmente, far scattare le clausole di salvaguardia in materia di IVA e di accise contenute nella legge di stabilità, con pericolosissime conseguenze sul fronte dei consumi interni.

Renzi ha però anche torto perché non esistono sentenze che si rispettano in quota parte. Non si può dire al giudice “ok, mi hai condannato a 1000,00 euro di risarcimento ma io ne pago soltanto 11,00”.

Se da una parte è corretto privilegiare le pensioni più basse, dall’altra non si può incorrere per l’ennesima volta nella disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Troppe volte a sud delle Alpi si sono applicate le leggi ad alcuni e non ad altri, erogati privilegi in base al censo, alla tipologia di lavoro (chi si ricorda gli 80 euro?) o a qualche altro astruso parametro.

Naturalmente la cosa vale anche al contrario e, combinazione, proprio nelle ore in cui veniva emanata la sentenza sulle pensioni vedeva la luce anche quella sulla inapplicabilità della Tobin Tax, quella tassa per cui se sei un imprenditore di un settore paghi di più di chi opera in un altro. Altro buco di bilancio per le casse dello Stato questo, ma di importo più contenuto (700-800 milioni).

Come reagirà la Corte Costituzionale di fronte alla facilmente immaginabile massa di ricorsi da parte di chi non vedrà rispettata su di sé la sentenza?

Nella tabella successiva è rappresentata una segmentazione dei pensionati per classi di reddito. Quelli che sono nella fascia più alta hanno senza dubbio il diritto di reclamare e cercare giustizia.

 

Fonte CGIA di Mestre

Secondo quanto si è appreso dalla conferenza stampa di presentazione del decreto gli esclusi dal rimborso sarebbero dunque circa 670.000. Un esercito. Non solo, il meccanismo ipotizzato “premia” nel migliore dei casi con il 71% di quanto si ha diritto, per cui potenzialmente tutti i 5 milioni e rotti di pensionati potrebbero fare azione per il recupero di quanto loro dovuto.

I TECNICI ALLA PROVA DELLA TECNICA

Qui si pone un altro problema ben conosciuto. È mai possibile che la competenza di strapagati funzionari e direttori dei ministeri produca con questa puntualità norme e leggi che non reggono all’esame di costituzionalità? Della competenza dei politici com’è noto c’è poco da fidarsi ma è davvero inquietante che chi ha la responsabilità, e il potere, di tradurre in norme gli obiettivi del governo che impattano sulla vita dei cittadini dia prova di tanta incommensurabile ignoranza.

Già il governo Monti-Fornero aveva partorito gli esodati, un errore da penna blu cui si sta faticosamente provando a porre rimedio. Il non prevedere che una misura potesse essere cancellata da una sentenza, compromettendo i risultati di una manovra fatta in situazione di drammatica emergenza, è da bocciatura a libretto. A meno che Monti non sapesse e volesse soltanto prendere tempo scaricando su chi sarebbe venuto dopo di lui il peso dell’errore. Se così fosse il giudizio su quell’esperienza di governo sarebbe ancora più severo e senza appello.

DIRITTI ACQUISITI?

Poche formule retoriche sono così fluide e sfuggenti come questa. Si può considerare "diritto acquisito" il contenuto di una norma di legge con cui lo Stato promette un pagamento o una tassa futuri? Ci sono innumerevoli casi in cui la controparte, lo Stato appunto, ha modificato ex post i termini di tali patti: ogni volta che ha cambiato il regime fiscale ha violato una promessa scritta in una legge precedente, idem quando ha alterato un trasferimento verso questa o quell'altra categoria.

D'altro canto, esiste pure un diritto "politico" ad una pensione se si versano i contributi in età lavorativa ed esiste anche un principio costituzionale di uguale trattamento di tutti da parte della legge. Per le generazioni che non hanno usufruito della generosità della politica passata questi diritti sono ora seriamente compromessi.

Posto, per comodità di calcolo, che un pensionato ante riforma Amato andasse in pensione con un assegno pari all’80% dell’ultima retribuzione, un altro, in condizioni omogenee per anzianità lavorativa e contributi versati, ha ora diritto ad un trattamento non superiore al 50%. Una differenza non giustificata dall’aumento dell’aspettativa di vita e determinato solo dai differenti meccanismi applicati. La legislazione pensionistica non tratta tutti i cittadini nella stessa maniera ma li discrimina a seconda dell'età, della categoria professionale, del settore d'occupazione.

È giusto questo? Non lede forse il diritto del pensionato di domani ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé stesso e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”? (art. 36 della costituzione).   

Il dato è che il sistema pensionistico italiano è un gigantesco schema di trasferimento intergenerazionale delle risorse in cui chi è in cima alla piramide sta benone, chi è nel mezzo vivacchia, chi è alla base raccoglie le briciole; chi sarà la base di domani probabilmente neanche quelle.

COSA INSEGNA QUESTA VICENDA

Prima di tutto, ma è una conferma, che siamo governati da incapaci, bravi a promettere, fuoriclasse a sperperare e pessimi a programmare.

In secondo luogo che i diritti acquisiti sono un lusso che non possiamo permetterci ma che nessun politico nel pieno della sua attività avrà mai il coraggio  di ammettere perché si alienerebbe il voto di una larga fetta di elettorato.

In terzo luogo che la consuetudine di rattoppare leggi fatte male spesso le peggiora e nella migliore delle ipotesi sposta solo in avanti il problema facendo pagare il conto a chi verrà.

Infine che il dibattito sulle pensioni è infarcito di cattiva informazione e che, ad esempio, un sistema contributivo non è affatto garanzia di sostenibilità della spesa né di prestazioni. I contributi versati non sono del contribuente ma del sistema che li distribuisce più o meno direttamente ai pensionati.  Non esiste alcun accantonamento dei contributi versati; non esiste alcun impiego degli stessi soldi; non esiste alcuna indicizzazione di quanto risparmiato se non quella che è decisa con una legge e che un’altra legge potrebbe cancellare. Esiste solo un travaso di risorse dai giovani ai vecchi sperando che venga poi qualcuno ancora più giovane che faccia lo stesso e con inconsapevole generosità paghi per la generazione precedente.

Forse è proprio da qui che bisognerebbe partire se si volesse porre fine definitivamente al pastrocchio.

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Commenti

Ci sono 28 commenti

Non è la prima volta che, sia su nFA, sia altrove, viene fatto notare che buona parte dei pastrocchi bocciati dalla Consulta sembrino scritti apposta per essere bocciati (nel caso della Fornero, però, io continuo ad avere i miei dubbi, subito espressi, sull'Avvocatura dello Stato, poi sono usciti anche i tweet contro Renzi dell'avvocatessa che ha, appunto, difeso lo Stato...), o comunque scritti male e in linguaggio oscuro.

E' tempo che si cominci un bel ricambio, e possibilmente si eviti che il Dirigente escluso poi diventi "consulente", non è possibile che Governi diversi, nelle persone e nell'indirizzo politico, cadano sempre negli stessi errori, il minimo comune denominatore sono i "tecnici del Ministero", e quelli sono sempre gli stessi.

Ho letto questo articolo fino in fondo: e mi dicevo: ecco adesso arriva, adesso arriva la proposta, l'idea, la strada per affrontare questo enorme problema. Invece niente: critiche a tutti (tranne che alla corte costituzionale), ma nessuna proposta.

Il motivo è semplice e bisogna prenderne atto: la soluzione, con questi vincoli, probabilmente non c'è.

Dopo i provvedimenti già presi, come l'aumento dell'età pensionabile, non ci sono altre soluzioni che riducano significativamente la percentuale della spesa pensionistica sul PIL, rispettando i dettati dell'attuale corte costituzionale, quindi senza ridurre (neanche bloccando la rivalutazione, il modo più soft) gli importi delle pensioni già maturate.

Come avevo già scritto, si fa prima a cambiare la corte costituzionale. L'unica cosa che non può essere cambiata nella Costituzione è la forma repubblicana.

Non si elabora una proposta nello spazio di un articolo. Posto che il sistema pensionistico che ho (abbiamo) in mente è molto distante da quello in vigore, per esser seri bisogna elaborare proiezioni, calcoli dell'impatto sui conti pubblici a breve, periodi di transizione ecc.

Per i partiti politici italiani e per i governi è più semplice: mantenimento dell'attuale sistema a ripartizione e modifica di qualche parametro, ad esempio coefficienti, anni di contribuzione su cui calcolare l'assegno, tasso di indicizzazione. 

La proposta arriverà ma ci vuole tempo

Sì, dal 2000 ben due milioni di italiani, in gran parte giovani, se ne sono andati dall'Italia (dato AIRE come risultato netto di partenze e ritorni) dicendo sostanzialmente: "noi ce ne andiamo da un'altra parte a lavorare. Voi tenetevi pure i vostri diritti acquisiti".

Un commento critico sulla sentenza: www.reforming.it/articoli/corte-indicizzazione

l'articolo fa un excursus storico-normativo sul regime pensionistico "generale", ma non tratta nello specifico il tema del blocco della perequzione; che è invece una specifica sottomateria, visto che è stata oggetto di numerosi interventi anche in passato. la corte costituzionale nella sentenza ce lo racconta ai punti 5 e 6 del considerato in diritto, e dimostra come tutti gli interventi legislativi precedenti abbiano sempre integralmente tutelato solo le fasce più basse.

ma hanno anche sempre passato il vaglio di costituzionalità.

 perciò non ha tecnicamente torto il presidente se il consiglio, quando dichiara l'intenzione di modificare gli effetti della norma, ma non nel senso di restituire la perequazione a tutti.

è perfettamente conforme alla giurisprudenza costituzionale.

quello che non è andato, stavolta, è riassumibile così:

1. va bene bloccare la perequazione, ma non con "tagli" così drastici anche per fasce di reddito basse;

2. il semplice richiamo alla "contingente situazione finanziaria" non è motivazione sufficiente ad incidere così pesantemente, visto anche che, neppure nella legge di conversione "è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese di maggiori entrate, come previsto dall'art. 17 co.3 della legge 196/2009" (interpretato come "puntualizzazione tecnica" dell'art. 81 cost.);

3. il legislatore non ha ascoltato il "monito" delle precedenti pronunce ad esercitare un corretto bilanciamento degli interessi per evitare un intervento altrimenti già "minacciato" sin dai tempi della sentenza 226/1993. tra l'altro è rimasta inevasa anche l'interrogazione parlamentare sul provvedimento, nel 2013.

perciò in definitiva quello che dice la corte costituzionale è: puoi bloccare il meccanismo perequativo, ed io tengo pure conto dei vincoli di bilancio, ma questa manovra non puoi reiterarla di continuo ad capocchiam, evitando di fare due conti e limitandoti a colpire dove puoi colpire.

principio che in effetti, così espresso, mi sembra difficile da contestare in toto.

di fronte ad un ricorso che prenda spunto dalla pronuncia, il giudice del lavoro o la corte dei conti non avrebbero ancora parametri certi per stabilire circa la spettanza e l'entità dell'eventuale rimborso, in assenza di un preventivo intervento adeguatore da parte del governo. perché, in parole povere, la corte costituzionale non dice "restituite tutto".

guardare qui http://noisefromamerika.org/articolo/sentenza-corte-costituzionale-sulle-pensioni

Grazie per le osservazioni

Di solito faccio il criticone.
Questo articolo invece l'ho apprezzato molto, in ogni sua parte ma soprattutto nella conclusione:

 

I contributi versati non sono del contribuente ma del sistema che li distribuisce più o meno direttamente ai pensionati.  Non esiste alcun accantonamento dei contributi versati; non esiste alcun impiego degli stessi soldi; non esiste alcuna indicizzazione di quanto risparmiato se non quella che è decisa con una legge e che un’altra legge potrebbe cancellare. Esiste solo un travaso di risorse dai giovani ai vecchi sperando che venga poi qualcuno ancora più giovane che faccia lo stesso e con inconsapevole generosità paghi per la generazione precedente.
Forse è proprio da qui che bisognerebbe partire se si volesse porre fine definitivamente al pastrocchio.

 

Si, bisognerebbe ripartire da qui. Perché come bene dice Lei non è mica questione di contributivo/retributivo. E' proprio l'intero concetto di sistema "a ripartizione" ad essere una truffa, per le ragioni che riassume il trafiletto sopra citato. Aggiungo una considerazione ed una domanda (retorica).

La considerazione:
Nella prima parte Lei scrive che un sistema siffatto "va bene" finché c'è espansione demografica o se cresce la produttività (il PIL aggregato).
Indiscutibile, usando la locuzione generica "va bene". Ma "va bene" significa che è desiderabile, o che è sostenibile? Se significa desiderabile, ok, se significa sostenibile, mi viene da dire.. aspetta un momento.
Aspetta un momento: se si pagano le pensioni attuali con i contributi attuali, il sistema è sostenibile finché si pareggia. Quindi nella condizione (ideale) in cui il numero di pensionati sia stabile e quello di lavoratori attivi pure sia stabile, la crescita demografica zero e il PIL aggregato costante, insomma se tutto è costante, il sistema E' sostenibile.
A pelo, ma lo è, lo deve essere per forza. Non deve esserci crescita a tutti i costi.
Se non lo è, vuol dire che quando si è concepito il sistema lo si è fatto immaginando che il numero di soggetti entranti sarebbe stato sempre maggiore di quello dei soggetti uscenti.
Cioè che si è messo in piedi un sistema piramidale. Una mega catena di sant'Antonio sulle spalle dei pensionati, presenti e futuri. E' così?

La domanda (retorica):
In un sistema pay as you go, in cui le pensioni attuali sono pagate coi contributi attuali, come scrive anche Lei non esiste alcun accantonamento dei contributi versati.
Esiste però una fase - ed è una fase piuttosto lunga, quella che copre i primi 30/40 anni di esistenza dell'istituto previdenziale - in cui questo istituto incassa contributi senza erogare alcuna pensione.
Se non sono stati accantonati, che fine hanno fatto tutti quei soldi?

Quando i primi sistemi previdenziali a compartizione apparvero ai primi del 1900, mi risulta che i contributi versati dai tantissimi lavoratori venivano immediatamente usati per dare una pensione a chi allora era anziano. Ma ovviamente non aveva mai versato nulla. Il sistema quindi allora permettava immediatamente di risolvere il problema del mantenimento della popolazione anziana.

C'è una imprecisione (forse voluta) nell'articolo, dove si dice che se il PIL diminuisce e la spesa pensionistica rimane costante la tassazione deve aumentare.

E' vero e non è vero: le pensioni dovrebbero essere alimentate dalle trattenute sugli stipendi, ma in effetti lo Stato trasferisce all'INPS soldi provenienti dalla fiscalità generale. Nel 2013 95.521 mil€ più 17.005 mil€ di anticipazioni. Questi 112.000 mil€ coprono oltre il 25% delle uscite (le pensioni pagate), pari a 388.354 mil€. Una parte vanno a coprire le pensioni sociali (invalidi, persone prive di reddito, etc), ma si tratta di ca 40.000 mil€. I restanti 70.000 mil€ contribuiscono a pagare le pensioni normali (anzianità, malattia, etc.)

Qui www.inps.it/portale/default.aspx i dati INPS:

Se non sbaglio le entrate annue dello Stato ammontano a ca. 700.000 mil€: quindi il 10% delle nostre tasse va all'INPS per pagare pensioni.

Non tutti i cittadini che pagano le tasse ricevono/riceveranno una pensione INPS (tra cui il sottoscritto), tuttavia anche i non-INPS devono contribuire.

Eppure basterebbe ridurre le tasse di 70.000 mil€ e di pari importo aumentare i contributi pensionistici. In questo modo quando pago le tasse saprei che vanno a pagare scuole, ospedali, strade, sicurezza, giustizia, etc.

Penso che scriverò una lettera al riguardo alla Corte Costituzionale. Forse loro possono fare qualcosa...

Poiche' quel paragrafo e' frutto di un aggiustamento redazionale di cui son stato responsabile, rispondo io. 

Mi sembra che concordiamo, infatti. La frase, letteralmente, dice

"Perché, siccome le pensioni vanno pagate, la tassazione sul reddito (da lavoro) deve crescere o ben via contributi sociali o ben via imposte generali. E questo ammazza il lavoro."


Mi sembra descriva quel che e' successo e succede. Quello che lei suggerisce non cambierebbe la sostanza delle cose (sono pochissime le persone occupate che non sono tenute a versare contributi all'INPS sul loro reddito da lavoro) e non e' nemmeno ovvio, REBUS SIC STANTIBUS, che sarebbe una buona idea. Ripeto: rebus sic stantibus, ossia sino a che si continua a voler pagare pensioni cosi' generose e facili.

Immaginate un/una giovane talentuoso e brillante, che sia riuscito ad imparare qualcosa nella nostra scassata università, magari un paio di lingue ed abbia voglia di lavorare. La prospettiva che gli viene proposta è un lungo precariato sottopagato, e poi una volta che abbai raggiunto un reddito elevato, la sottrazione della maggior parte di esso da parte di un fisco e un sistema contributivo esosi, infine intorno ai 70 anni, una pensione magrissima. Potrebbe il/la giovane accantonare una parte del suo reddito (una parte di quanto gli resta al netto della summenzionata falcidiatura) per integrare la pensione? Certo, ma qualora questi risparmi dovessero produrre un qualsivoglia reddito, anche soltanto nominale, in quanto "rendite finanziarie pure" sarebbero ulteriormente tosate del 27% (per ora, poi si vedrà).

Sarebbe assurdo immaginare che il/la volenteroso giovine faccia le valigie e parta in cerca di condizioni più favorevoli? E che la scelta possa interessare un numero sempre più elevato di persone? E che la fuga dei "best and brightest" peggiori la già scoraggiante dinamica della produttività del Bel Paese, accelerandone il declino? E allora con un PIL in caduta libera, chi garantirà i sacri e intoccabili "diritti acquisiti", qualsiasi cosa ne dica la Corte Costituzionale? Quale sarebbe allora il piano? Aumentare ancora il cuneo fiscale e contributivo, aumentando così l'incentivo alla fuga? Chiudere le frontiere e bloccare l'espatrio dei giovani, come nell'URSS?  

Pare evidente che un/una giovane assennato/a faccia le valigie per andare verso paesi meno compromessi, punto e basta. E per quanto ignoranti siano, come si tende a dire dei giovani che escono dalle nostre scuole o università, essi partono essere rimpiazzati solo da altri assai più ignoranti che affluiscono da terre ancora più depresse.

Pare tuttavia anche evidente che questo sia un esito evidente. Come evidente è, del resto, la ovvia conseguenza che questo acuisca le divergenze strutturali in favore dei paesi più virtuosi.

Tuttavia per il momento, siamo costretti a vivere alla giornata, e, per il nuovo problema specifico di bilancio venutosi a creare per l'intervento della Consulta, mi pare che l'unica via d'uscita sarà una aliquota più pesante, rispetto a quelle già ventilate da Boeri, sulla quota del retributivo dopo il ricalcolo complessivo delle pensioni.

Quando leggo questo tipo di articoli mi viene sempre da chiedermi come facciano in altri paesi, per condizioni di sviluppo e demografia, simili all'Italia. Ad es. in Germania, Francia, UK adottano un sistema a ripartizione o a capitalizzazione, a prescindere da come calcolino l'ammontare della pensione?

A.

La norma è avere sistemi a piu' pilastri dove per esempio il primo è pubblico a compartizione ma dà solo il minimo vitale o comunque prevede dei massimi, come germania, svizzera ed altri che magari ci indicherete voi, il secondo pilastro è a capitalizzazione, privato (spesso fuori dai conti pubblci). Alla fine in questi sistemi ricevi due pensioni. Iniziano ad esistere (CH) sistemi a tre pilastri.

Primo punto: Sacconi vs Fornero

Il mondo delle pensioni, non solo per il volgo, ma anche secondo tutti gli esperti, ormai si divide tra prima e dopo Fornero. Come se prima della legge Fornero, che è soltanto l’ottava riforma delle pensioni dal 1992, non ci fossero stati interventi pesanti sul sistema pensionistico.

Osservo, infatti, che, sulle pensioni, Il Sole 24 ore, esperti come Giannino e Cazzola, sindacati dei lavoratori e perfino l’INPS (v. l’ultimo Osservatorio sulle pensioni), oltre a tutti i media e a politici di cattiva memoria e con la coscienza sporca come Salvini, parlano soltanto della legge Fornero (DL 201 del 6 dicembre 2011, art. 24, convertito dalla legge 214/2011), alla quale attribuiscono anche tutte le misure, per vari aspetti più incisive, decise dalla legge Sacconi (DL 78 del 31 maggio 2010, art. 12, convertito dalla legge 122/2010). La stessa professoressa Fornero a “In ½ ora”, tranne un brevissimo accenno ai 10.000 esodati di Sacconi, ha coraggiosamente… millantato tutto il merito impopolare del riequilibrio dei conti pensionistici nel lungo periodo, imitando il premier Monti per il risanamento dei conti pubblici. Ora, l’Autore di questo articolo fa, invece, un meritorio elenco delle 8 riforme dal 1992, che egli definisce riformette, però, oltre all'errore di non distinguere tra pensioni di vecchiaia e pensioni di anzianità, omette la più incisiva di tutte, quella Sacconi, al posto della quale menziona la legge 102 del 2009, i cui provvedimenti vengono sostituiti, accelerati fortemente e ampliati proprio dalla legge 122 del 2010.

Riepilogo, quindi: dal 1992, le riforme delle pensioni sono state 8 (Amato, 1992; Dini, 1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi, 2010; Berlusconi/Sacconi, 2011; Monti-Fornero, 2011).

Le riforme di Sacconi (2010 e 2011) sono più corpose, immediate e recessive di quella Fornero; in sintesi, esse hanno introdotto:

• “finestra” ( = differimento dell’erogazione) di 12 mesi per tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati o 18 mesi per tutti quelli autonomi;

• allungamento, senza gradualità, di 5 anni (+ “finestra”) dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti pubbliche per equipararle a tutti gli altri a 65 anni (più finestra), tranne le lavoratrici private; e

• adeguamento triennale all’aspettativa di vita, che ha portato finora l’età di pensionamento di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi e la porterà a 67 entro il 2021, che è benchmark in UE28, cioè prima della Germania e molto prima della Francia (dopo il 2018, in forza della legge Fornero, l’adeguamento anziché triennale sarà biennale).

La riforma Fornero (2011) ha stabilito, principalmente:

• metodo contributivo pro-rata per tutti (vale a dire solo per quelli che erano precedentemente esclusi), a decorrere dall'1.1.2012;

• aumento di un anno delle pensioni di anzianità (ridenominate “anticipate”); e

• allungamento graduale entro il 2018 dell’età di pensionamento di vecchiaia delle dipendenti private da 60 anni a 65 (più finestra), per allinearle a tutti gli altri,

i cui effetti si avranno soprattutto a partire dal 2020.

NB: La legge Fornero ha opportunamente eliminato la “finestra” di 12 o 18 mesi sostituendola con un allungamento corrispondente dell’età base, ma l’allungamento (già recato dalla riforma Sacconi) è solo formale.

Secondo punto: Risparmi e sostenibilità nel lungo periodo

Oltre a quella Dini che ha introdotto il metodo contributivo, le ultime 4 riforme: Damiano (2007, in parte), Sacconi (2010 e 2011) e Fornero (2011) stanno producendo e produrranno risparmi fino al 2060 per centinaia di miliardi di € (cfr. MEF).

Dopo le riforme, il sistema pensionistico italiano, come riconosciuto dall’UE, è tra i più severi e sostenibili in UE28.[1]

Terzo punto: Confronto internazionale

E’ fuorviante riferirsi ai dati pensionistici fino al 2013: sono vecchi e superati. Come spiegava la prof.ssa Fornero a “In ½ ora”, le riforme delle pensioni per loro natura producono i loro effetti nel lungo periodo. Dopo le 8 riforme varate dal 1992, come ha confermato l’ultimo rapporto della Commissione Europea, con la proiezione al 2060,[1] il sistema pensionistico italiano è tra i più severi e sostenibili nel lungo periodo. Come attesta l'ultimo Osservatorio dell'INPS sulle pensioni, [2] il numero di pensioni sta già calando (“Dall’analisi dell’osservatorio delle pensioni Inps vigenti all’1.1.2015 e liquidate nel 2014 emerge la conferma del trend decrescente degli ultimi anni, che vede passare le prestazioni erogate ad inizio anno da 18.363.760 nel 2012 a 18.044.221 nel 2015; una decrescita media annua dello 0,6% frenata dall’andamento inverso delle prestazioni assistenziali (pensioni agli invalidi civili e pensioni/assegni sociali), che nello stesso periodo passano da 3.560.179 nel 2012 a 3.731.626 nel 2015”), ma la spesa pensionistica cresce perché i nuovi assegni pensionistici sono più alti. Secondo il rapporto UE, ci sarà una piccola gobba nel 2036, poi la spesa pensionistica (incluse le voci spurie) calerà al 13,8% del Pil nel 2060, uno dei cali più alti in UE28.

La spesa pensionistica italiana, infatti, include (nel confronto internazionale) delle voci spurie (si confrontano le pere con le mele) , che sono:

1. TFR, che è salario differito e può essere riscosso anche decenni prima del pensionamento (circa 1,5% del Pil);

2. un 8% di spesa assistenziale sul totale della spesa pensionistica;[3]

3. un peso fiscale comparativamente maggiore (la spesa pensionistica italiana è al lordo di 42-45 mld di imposte, più vicino ai 45);

4. un uso prolungato, a causa dell’assenza di adeguati ammortizzatori sociali (usati invece negli altri Paesi, dove non rientrano nella spesa pensionistica), delle pensioni di anzianità appunto come ammortizzatore sociale;

5. infine, nella spesa pensionistica degli altri Paesi andrebbero sommati gli incentivi fiscali ( = minori entrate) alle pensioni integrative (v., in particolare, la Gran Bretagna).

a) Se si considera la spesa pensionistica al netto delle imposte[4] (che sono una partita di giro), il divario tra l’Italia e gli altri Paesi cala di almeno mezzo punto se non di uno intero; infatti, a fronte di una diminuzione di circa 2 punti percentuali dell’Italia (dal 15,44% al 13,49%, dati 2009), gli altri Paesi calano in media sotto il punto percentuale (ad esempio, la Francia dal 13,73% al 12,82%, la Germania dal 11,25% al 10,86%, il Giappone dal 10,17% al 9,50% e la Spagna dal 9,28% all’8,99%).

b) Inoltre, se si depura la spesa pensionistica dalle prime due voci spurie (TFR e spesa assistenziale,[3] che assommano a quasi 45 mld, cioè a quasi il 3% del Pil), e si somma la terza voce (altri 45 mld: le tasse sono una partita di giro, l’INPS paga l’assegno pensionistico netto e gira il resto all’Erario, alle Regioni e agli Enti locali), per un totale di 90 mld, l’incidenza sul Pil scende di ben oltre 4 punti percentuali. In totale, dunque, se questi miei calcoli sono corretti, il rapporto diminuisce – già ora - dal 16,8% ad un massimo del 12,5%, vale a dire già adesso è inferiore di oltre un punto al 13,8% stimato dalla Commissione Europea per il 2060.

c) Infine - ed è soltanto un di più esplicativo - andrebbe anche tenuto presente che il rapporto spesa/Pil è influenzato ovviamente anche dal denominatore, calato in Italia, negli ultimi 7 anni, di quasi 10 punti percentuali, molto più che in altri Paesi.

Quarto punto: RGS

L’RGS è nota per sovrastimare le spese e sottostimare le entrate. Sulle pensioni, le sue proiezioni, comunque superate dal rapporto della Commissione Europea,[1] sono superiori a quelle dell’OCSE, area più disomogenea dell’UE, anche per il peso della voce “pensioni private”.[5]

Quinto punto: Sentenza della Consulta

Ribadito che io sono favorevole al ricalcolo delle pensioni col metodo contributivo, al di sopra di una certa soglia, io sono critico verso la sentenza della Consulta, la cui sentenza peraltro ha registrato un risultato di 6 a 6, ed è passata soltanto per il voto che vale doppio dell’ineffabile presidente Criscuolo. In ogni caso, il congelamento dell'indicizzazione delle pensioni superiori a circa 1.400€ lordi (circa 1.100€ netti) fu un errore, poiché – come ha rilevato la stessa Corte Cost. - la soglia era troppo bassa e non fu prevista la progressività. Quindi, come ha già scritto qualcuno, il governo non è obbligato a restituire tutto a tutti.

In conclusione, mi auguro che si ritengano utili queste mie osservazioni e se ne facciano finalmente tesoro in futuro.

PS: Piccola constatazione (piccola perché gli spietati neo-liberisti fanno ben di peggio…). Predicare bene e razzolare male: è già il terzo articolo in poco tempo – immemori delle discussioni precedenti con dati e prove documentali - sulle pensioni, e il secondo sulla sentenza della Corte Cost., che rimarcano le nequizie della legislazione e dell’amministrazione italiane. A me la mitica Redazione di NoisefromAmerika ha applicato una sanzione addirittura strampalata: sono stato oggetto di attacchi plurimi e gratuiti, di una violazione della legge sulla privacy (oltre che di un hackeraggio), ma, anziché sanzionarne gli autori, sono stato punito io con la riduzione da 3 a 1 dei commenti giornalieri. Come minimo ci vorrebbe un cartellino rosso agli autori della sanzione! :)

[1] Annual Ageing Reportec.europa.eu/economy_finance/publications/european_economy/ageing_report/index_en.htm

[2] INPS – Comunicato stampa

www.inps.it/portale/default.aspx

[3] Trattamenti pensionistici e beneficiari: un’analisi territorialeLe pensioni Ivs sono il 78,3% dei trattamenti erogati dal sistema pensionistico italiano e assorbono il 90,5% della spesa complessiva. Più nel dettaglio le pensioni di vecchiaia rappresentano il 52,2% delle prestazioni e il 71,8% della spesa; le pensioni di invalidità rispettivamente il 5,6% e il 4,0%, mentre le pensioni ai superstiti rappresentano il 20,6% dei trattamenti complessivamente erogati e il 14,7% della spesa complessiva. Le pensioni assistenziali sono il 18,2% del totale e assorbono il 7,9% della spesa. Le indennitarie incidono, infine, per il 3,5% sul numero dei trattamenti e per l’1,7% sulla spesa complessiva (Tavola 5)”. www.istat.it/it/archivio/132562

[4] Gross and Net Public Pension Expenditure (% of GDP) – 2009

(figura 6.5 pg. 171 di Pension at a Glance, e l'ultimo è riportato in OECD Pensions at a Glance 2013)

[5] Evoluzione della spesa pensionistica in rapporto al Pil

Riporto le rispettive evoluzioni RGS e OCSE della Spesa pensioni/Pil (%) fino al 2035:

RGS: 2010=15,3; 2015=16,2; 2020=15,5; 2025=15,2; 2030=15,2%; 2035=15,8.

OCSE: 2010=15,3; 2015=14,9; 2020=14,5; 2025=14,4; 2030=14,5%; 2035=15,0. s21.postimg.org/718ldmavr/Immagine.png%C3%B9

Allegati:

Dialogo n. 2 nel blog neo-liberista NoisefromAmerika: pensionivincesko.ilcannocchiale.it/post/2831007.html

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Dialogo n. 3 nel blog neo-liberista NoisefromAmerika: pensionivincesko.ilcannocchiale.it/post/2832449.html

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Lettera a Carlo Cottarelli, direttore esecutivo del FMI, sua risposta e mia replicavincesko.ilcannocchiale.it/post/2832907.html

Se la piattaforma IlCannocchiale è in avaria, cliccare qui sotto: vincesko.blogspot.com/2015/05/lettera-carlo-cottarelli-direttore.html

pensioni di Maria Luisa Pesante

Vecchi contro giovani o ricchi contro poveri?

25/05/2015 Fare dell'affaire pensioni una questione di rapporti tra vecchi e giovani è in primo luogo una scelta ideologica degli economisti neo-liberali, per i quali, soprattutto nelle analisi del risparmio e dunque dei sistemi previdenziali, non esistono classi, ma solo generazioni sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Vecchi-contro-giovani-o-ricchi-contro-poveri-29951

Volevo segnalare un refuso.

 

vedeva la luce anche quella sulla inapplicabilità della Tobin Tax, quella tassa per cui se sei un imprenditore di un settore paghi di più di chi opera in un altro.

 

Credo si intenda "Robin Tax" non "Tobin tax"

certo, un'altra invenzione di 3M.

Giusto Corrado. Ovviamente era Robin tax ma ho digitato male e non mi sono accorto dell'errore

Ottimo articolo, complimenti. Finalmente qualcuno ha cominciato a spiegare che quello che non va nel sistema previdenziale italiano, specialmente in un'ottica dell'invecchiamento della popolazione, è il metodo a ripartizione, vale a dire il metodo con cui si finanziano le prestazioni. Il sistema concepito per l'Italia è perverso ed è tutto incentrato sul principio che ogni euro versato oggi verrà restituito ridotto domani. Non c'è bisogno di fare calcoli astrusi. Prendiamo quello che dice la vulgata dei booster della previdenza italiana. Un giovane che comincia ora può andare in pensione, dopo 40 anni, con un importo mensile pari fino al 70% dell'ultimo reddito. Quello che non dicono è che per avere una pensione pari al 70% dell'ultimo reddito il PIL deve salire del 3,5% all'anno, perché il PIL è l'indice al quale sono legate le rivalutazioni dei montanti. E non si dice neanche che se il PIL sale del 3,5% all'anno, mantenendo lo stipendio invariato, il nostro giovane si ritroverà con un montante pari a circa 26 anni di stipendio. Se invece riceve il 70% dell'ultimo reddito, con un'aspettativa media di vita di 15 anni, riceverà al massimo 11 anni di stipendio. Dire che si è risolto il problema contenendo la "spesa" pensionistica in rapporto al PIL è come minimo fuorviante visto che per raggiungere quell'obiettivo si aumenta il rischio di povertà di chi andrà in pensione con il contributivo, vale a dire tutti quelli che hanno cominciato a lavorare dopo il 1996. L'unico modo per salvaguardare i futuri pensionati, pur rispettando i vincoli di bilancio e l'esigenza di continuare a pagare le pensioni in essere, è quello di abbassare gradualmente le aliquote contributive fino al 10% e di estendere le agevolazioni fiscali previste per i fondi pensione anche a conti previdenziali individuali. La spinta alla crescita economica causata dall'abbassamento delle aliquote  consentirà di ampliare la base imponibile e quindi di aumentare gli introiti fiscali con cui si pagheranno le pensioni in essere.