La manifestazione dei precari di sabato ha evidenziato ancora una volta le difficili condizioni di lavoro di coloro che, in Italia, non godono di protezione contrattuale e l’inefficienza del nostro mercato del lavoro che si manifesta appunto nel suo eccessivo dualismo: protezione estesa per alcuni e minima per altri. Molti commentatori reagiscono proponendo una soluzione “morale”: estendere le protezioni a tutti. Spesso abbinata a dichiarazioni da lotta di classe, lavoratori contro padroni.
Come sarebbe bello se fosse così facile. Ai precari manca sicurezza? Diamogliela. Dove prenderla? Dai padroni (o dai ricchi, o da chi non paga le tasse, e via discorrendo). Lo dico con ironia, naturalmente, ma piacerebbe anche a me vivere in un mondo in cui la redistribuzione del reddito potesse risolvere ogni problema. Non è così purtroppo, estendere la protezione del lavoro – garantire contratti a tempo indeterminato con solide garanzie contro il licenziamento – a tutti o quasi si può fare, ma a un costo: un’ulteriore riduzione del tasso di occupazione, soprattutto dei giovani e delle donne. È brutto da dirsi ma è così: più si protegge il lavoro, minore è il numero dei lavoratori protetti (a meno di non avere salari molto più bassi). Proteggere costa, riduce la produttività del lavoro e quindi l’occupazione del lavoro stesso a parità di salario. So che, messa così, è una affermazione apodittica e che chiunque sappia come trovare o massaggiare un dato proverà a contraddirmi, a mostrare che la Svezia garantisce protezione e occupazione e la Gran Bretagna all’opposto non garantisce né protezione né occupazione. Non è così, mi spiace. Ma entrare in una disamina seria dei dati non è possibile qui, perché voglio provare a fare un ragionamento più “leggero”. Chiedo al lettore di credermi, quindi, di concedermi per una volta il principio di autorità, accettare la mia provocazione e continuare a leggere.
Ma torniamo ai precari. Dovrebbero essere contenti? Meglio precari che disoccupati, dopotutto. Assolutamente no. Un lavoro precario in Italia è una sciagura. Hanno completamente ragione. Perché se si perde, il lavoro precario, si è rovinati, in Italia. Perché lavori precari ce ne sono pochi e lavori protetti ancora meno. Proviamo a immaginare un mondo diverso. Un mondo in cui di lavori precari ce ne fossero a iosa: finito uno se ne trovano altri, diversi, altrove. In questo mondo essere precario non è affatto male, specie per un giovane, magari con poca istruzione: il pizzaiolo per sei mesi, il barista per due (che lavorare la notte è bello ma stanca), il massaggiatore per un anno; un periodo a Milano, uno a Venezia, uno a Urbino e uno a Londra…
Mi rendo conto di quanto anche solo ipotizzare un mondo di questo tipo possa sembrare assurdo e che chi oggi in Italia cerca di tenersi stretto il lavoro al call center possa essere addirittura insultato da questo mio ragionamento. Non ho nessuna intenzione di insultare nessuno. Ma li vedo tutti i giorni ragazzi giovani (spesso anche italiani), che fanno esperienze sul mercato del lavoro a questo modo. Cambiano lavoro in continuazione e si stabilizzano lentamente, alcuni attraverso attività imprenditoriali, altri cercando lavori più protetti. Sto parlando degli Stati Uniti (o meglio, di New York), naturalmente. Ma non sto sostenendo che il mercato del lavoro negli Stati Uniti sia il migliore dei mercati del lavoro possibili. Anzi. È un inferno da molti punti di vista. Ma la questione del precariato non esiste. Non ho mai sentito nessuno lamentarsi del precariato. Della mancanza di assicurazione sanitaria, sì, sempre. Della disoccupazione ogni tanto, specie nei periodi di crisi come questo. Ma mai del precariato. Mai dei giovani che non riescono ad avere sicurezza sufficiente per metter su famiglia. Non esiste nemmeno la parola “precariato”. almeno non con il significato peggiorativo che ha in italiano.
E non sto parlando solo di lavoro manuale. I professori universitari, per esempio, prima di avere lavori fissi e protetti, hanno lavori precari. Cambiano università continuamente: perché si stufano di stare in città noiose, perché cambia la loro situazione familiare, perché vogliono essere più vicini a qualcuno con cui fanno ricerca… e perché l’università dove lavorano li manda via. Girano, per anni. Il lavoro fisso (si chiama tenure per gli accademici) è un obiettivo importante, naturalmente. Ma non è che senza non si vive o non si crea famiglia. Perché precariato non significa rischiare di perdere lavoro, ma al massimo trovarlo in un’altra città o in un’università meno prestigiosa. Parlo anche per esperienza. Ho tenure, adesso; ma sono stato precario per circa 10 anni girando Stati Uniti ed Europa, senza mai sentirmi precario. La stessa cosa si può dire per medici, avvocati, operatori finanziari.
Per arrivare a un mercato del lavoro di questo tipo è necessario ridurre la protezione del posto di lavoro, permettere alle imprese di licenziare per ragioni economiche, ad esempio. Mi rendo conto che possa apparire un po’ un salto nel buio. Capisco anche che possa essere inattuabile, nelle presenti condizioni in Italia. Mi riferisco sia alle condizioni economiche (l’eccessiva partecipazione dello Stato inefficiente nella vita economica) che a quelle culturali (in cui il desiderio del “posto fisso” è scolpito quasi indelebilmente nella mente di molti). Però so anche che se non si arriva a un mercato del lavoro di questo tipo i problemi dei precari sono irresolubili. Non c’è via d’uscita, purtroppo: più si protegge una parte dei lavoratori, più gli altri ne fanno le spese. Chi dice il contrario, o non capisce o è in malafede. Nel caso italiano, di solito, è in malafede.
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I commenti sono stati cancellati. Ma il loro tenore si puo' dedurre dalla mia risposta pochi giorni dopo.
Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2011: Nove risposte sul precariato made in Usa
Sapevo che le idee esposte avrebbero provocato reazioni anche fortemente negative. Alcuni lettori – che ringrazio – hanno provato a difendere le idee del post ma sono stati facilmente subissati dalla massa di insulti. Le cose che ho scritto sono definite castronerie, spocchiosità, caz…, panzane, deliranti, ridicole, un tanto al chilo, qualunquiste, scempiaggini, bischerate, vecchie e abbandonate, da bar, e – insulto degli insulti – la stessa zuppa di Boldrin.
Di me si dice che sono un famigerato, sacerdote, sciacallo, con aria da vate dell’economia, dall’alto del suo scranno universitario, professorino, pseudo-professore, servitore delle multinazionali. Mi si accusa di prestarmi (dietro compenso?) a sostenere teorie molto apprezzate dalle lobby delle multinazionali, di essere un firmatario bushista della lettera contro la riforma sanitaria americana, e addiruttura di accordare favore alla liberalizzazione della vendita di armi da fuoco. Per la cronaca, nessuna delle tre accuse è corretta. E infine mi si dice “va in mona”, espressione veneta che però mi è sempre piaciuta e mi ricorda l’infanzia.
Non mi lamento degli insulti (più di quanto non abbia implicitamente già fatto) e rispondo in gruppo a varie tipologie di commentatori.
1. Quelli che mi confondono con Boldrin. Che tutti i veneti siano uguali?
2. Quelli che richiedono dati e sono profondamente offesi dal mio riferimento al principio d’autorità, in un paese dove tale principio è (mai esplicitamente) richiesto da qualunque deficiente abbia una cravatta o millanti letture marxiane. Tornerò con un post coi dati. Ma anticipo: guardate alla correlazione tra la protezione del lavoro e il tasso di occupazione per età e sesso (sono giovani e donne a pagare le condizioni del mercato del lavoro in Italia).
3. Quelli che in Italia si può licenziare. L’Italia è uno dei paesi sviluppati in cui il lavoro è più protetto e in modo più inefficiente. Innanzitutto perché la protezione si estende indipendentemente dal merito, a tutti. E poi perché la protezione è del posto di lavoro, non del lavoratore; così che posti di lavoro economicamente inefficienti sono mantenuti e il lavoratore non è protetto sul mercato alla ricerca di un nuovo lavoro. Ebbene sì, sto parlando degli ammortizzatori sociali.
4. Quelli che Bisin riconsegni il dottorato, venga a studiare, torni a fare il ricercatore… Ma siamo matti! Con tutta la fatica che ho fatto. Mica sono nato nella buona società italiana, io, che sennò avrei fatto il professore in Italia: posto fisso e studi marxisti.
5. Quelli che facciamo pagare le tasse agli evasori, prendiamocela con le aziende che licenziano e scaricano sulla collettività, e con le libere professioni protette. Completamente d’accordo, su tutta la linea.
6. Quelli che è tutta colpa della globalizzazione, cioè dei cinesi (come il ministro Tremonti). Noi famigerati di Noisefromamerika.org ci abbiamo addirittura scritto un libro per argomentare che hanno torto. A modico prezzo in tutte le librerie.
7. Quelli che Bisin non sa cosa significhi essere precario. Non ho avuto lavoro fisso per 10 anni (più 5 di dottorato). Sarà che il precariato degli altri è sempre più verde del proprio!
8. Quelli che, quanto prende il precario Americano? Negli Stati Uniti il lavoro precario tende ad avere salari superiori a quello fisso (perché richiede la remunerazione del rischio di perdere il lavoro). In Italia non è così perché il lavoro precario è sfruttato dalle imprese che devono offrire rendite al lavoro fisso (incluse le imprese pubbliche che infatti fanno uso enorme del lavoro precario).
9. Quelli che il paragone non tiene: magari stessimo negli Stati uniti o in Gran Bretagna dove c’è una gran domanda di lavoro. Vi siete mai chiesti perché?
Infine, vorrei ringraziare il Fatto e mandare in mona quello che suggerisce che io sia pagato dalle multinazionali e il sociologo che pontifica senza avere ancora capito cos’è un mercato.
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Vedo che promettevo un post coi dati. Qualcuno me lo aveva ricordato ma me lo devo essere scordato una seconda volta. Bisognera' proprio farlo.
Ha detto:
"I giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. E poi, diciamolo, che monotonia. E’ bello cambiare e accettare delle sfida"
Monti è del 1943, non è giovane neanche per gli standard italiani.
Capisco che il pulpito da cui viene la predica abbia la sua importanza ma non esagererei. I tempi sono cambiati, in Italia e nel Mondo.