Protezione dell'occupazione: alcuni effetti economici e un'idea per riformare

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Quali sono i costi della protezione legale dell'occupazione? Chi li paga? È possibile ridurli senza intaccare il livello di protezione garantito oggi? In questo post passiamo in rassegna alcuni lavori empirici che hanno analizzato il caso italiano.

1. L’importanza di guardare ai dati.

Forme di restrizioni ai licenziamenti più o meno marcate sono presenti in moltissimi paesi (si veda il ranking internazionale fornito dall’OECD). Il motivo è semplice: ivincoli ai licenziamenti hanno lo scopo di assicurare il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro e trasferirne il peso sul soggetto – l’impresa – che può "neutralizzarle" con maggiore facilità, in quanto dispone di un più agevole accesso al credito. Qualunque lavoratore avverso al rischio è ovviamente favorevole alla protezione del proprio impiego.<o:p></o:p>

Tuttavia, la presenza di vincoli ai licenziamenti induce le imprese a modificare il proprio comportamento. Sapendo che licenziare implicherà un costo, le imprese reagiscono riducendo le variazioni della forza lavoro nel corso del ciclo economico, “appiattendone” il profilo nel tempo. Questo allo scopo di minimizzare i costi di aggiustamento. Se ciò da una parte rende effettivamente più stabili i rapporti di lavoro (perché si riducono le separazioni), rende anche più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro da parte chi è in cerca di occupazione (perché si riducono anche le assunzioni). <o:p></o:p>

Senza scendere in ulteriori dettagli, si vede che siamo in presenza di un trade-off e pertanto un certo ammontare di restrizioni ai licenziamenti può aumentare il benessere collettivo se i benefici (in termini di stabilità) superano i costi (in termini di code per ottenere lavori protetti). Tuttavia, non è chiaro quale sia l’ammontare ottimale. <o:p></o:p>

Per cercare di capirlo, è necessaria una valutazione quantitativa degli effetti dei costi di licenziamento su una serie di variabili economiche allo scopo di poterne soppesare costi e benefici. Per esempio, quali effetti hanno i vincoli ai licenziamenti sui tassi di occupazione e disoccupazione? Sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita dal mondo del lavoro? Sul livello dei salari? Sulla dimensione e sul numero delle imprese operanti sul mercato? Come per altri temi, il dibattito sull’art. 18 che si riaffaccia periodicamente in Italia lascia invece regolarmente da parte gli aspetti quantitativi. E' invece importante metterli al centro della discussione.

Prima di iniziare a farlo, e' utile un rapido riepilogo dell'evoluzione della legislazione italiana in materia.

2L’evoluzione della legislazione italiana in materia di protezione dell’impiego

Nel 1966 viene introdotto per la prima volta nella legislazione italiana il principio per cui il datore di lavoro può licenziare un lavoratore, senza incorrere in costi aggiuntivi, solo qualora ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo (Legge 604, 1966). La prima fa riferimento a eventi che incrinino il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il secondo a motivazioni di natura economica. Se il licenziamento non avviene per giusta causa o giustificato motivo, l’articolo 8 della Legge 604 prevede la Tutela Obbligatoria, obbliga cioè il datore di lavoro “a risarcire il danno versando una indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità.” <o:p></o:p>

L’entità del costo cui l’imprenditore incorre in caso di licenziamento non giustificato, nonché l’estensione dei soggetti coperti dalla tutela legislativa, viene modificata nel 1970 e nel 1990. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300) del 1970 prevede, in caso di licenziamento ingiustificato, l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare (Tutela Reale) il lavoratore e corrispondergli una indennità a titolo di risarcimento del danno subìto. Si noti però che in alternativa al reintegro il lavoratore può scegliere di percepire un’indennità pari a quindici mensilità (che si aggiunge a quella liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno). Ritorneremo su questo punto in seguito. <o:p></o:p>

L’articolo 18, com’è noto, si applica solo ai datori di lavoro che occupino, nell’unità produttiva nella quale ha avuto luogo il licenziamento, più di quindici lavoratori. Lo Statuto dei Lavoratori introduce, dunque, l’obbligo di reintegro per i lavoratori appartenenti ad imprese “grandi” (così come definite dalla legge) mentre non prevede vincoli ai licenziamenti per i lavoratori appartenenti ad imprese “piccole”.<o:p></o:p>

La legge 108 del 1990 “rimedia” a questa mancanza occupandosi proprio delle imprese piccole. Approvata in fretta e furia per evitare un referendum il cui quesito chiedeva di estendere l’art. <st1:metricconverter productid="18 a" w:st="on">18 a</st1:metricconverter> tutte le imprese, la legge 108 impone, in caso di licenziamento ingiustificato avvenuto in un’unità produttiva con meno di quindici lavoratori, l’obbligo di risarcimento (Tutela Obbligatoria) con un’indennità pari a minimo 2,5 e massimo 6 mensilità. <o:p></o:p>

Riassumendo, dal 1970 per i lavoratori impiegati in imprese grandi licenziati senza giusta causa o giustificato motivo è previsto il reintegro più il risarcimento dei danni. Per i lavoratori delle imprese piccole, invece, prima  del 1990 non esisteva alcuna restrizione ai licenziamenti. Dopo il 1990 deve essere corrisposto loro un indennizzo in caso non ricorra la giusta causa o giustificato motivo. <o:p></o:p>

Quali sono gli effetti di questa impostazione legislativa? Un effetto importante e' il seguente: praticamente tutti i licenziamenti individuali siano impugnati in sede di giudizio dal lavoratore, perché quest’ultimo non ha niente da perdere. Per questa ragione le aziende italiane non ricorrono (quasi) mai ai licenziamenti individuali quanto piuttosto a quelli collettivi per i quali esistono regole molto più certe, non si va quasi mai in giudizio ed esistono tutele per i lavoratori licenziati. Di fatto i licenziamenti avvenuti durante la crisi sono tutti collettivi.

3.  Effetti economici della protezione dell’impiego

Un argomento spesso usato ed abusato afferma che l’art. 18 impedisca alle imprese di crescere e che rimuoverlo aiuterebbe a risolvere il problema del nanismo delle imprese italiane. Borgarello, Garibaldi e Pacelli (2004) e Schivardi e Torrini (2008) analizzano l’effetto dell’art. 18 sulla dimensione delle imprese italiane, guardando alla propensione delle imprese a crescere intorno alla soglia critica di 15 dipendenti. Entrambi i lavori concordano sul fatto che l’effetto soglia esiste, cioè la probabilità di assumere uno o più dipendenti decresce intorno alla soglia di 15 dipendenti, ma è un effetto che si aggira intorno al 2% ed è quantitativamente troppo limitato per spiegare perché le dimensioni delle imprese italiane sia molto minore rispetto alla media europea (per maggiori dettagli si veda il post di Fabiano Schivardi su LaVoce.info).

Questi risultati potrebbero indurre a pensare che in fondo le restrizioni ai licenziamenti non alterino più di tanto il comportamento delle imprese. Non è così. Semplicemente le imprese aggiustano il loro comportamento alterando altri margini in maniera significativa. Per esempio un costo di licenziamento “piccolo”, quale quello che dal 1990 grava sulle imprese con meno di quindici dipendenti (descritto sopra), ha effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita dalle imprese. Dopo il 1990 sembra infatti che le assunzioni e le cessazioni di rapporti a tempo indeterminato siano calate del 13 e del 15 percento annuo, rispettivamente, nelle imprese piccole rispetto alle grandi, senza però influire sul livello medio di occupazione. La riforma ha quindi fornito maggiore stabilità agli occupati imponendo però code più lunghe per l’accesso ai posti protetti (come mostrato in questo lavoro di Kugler e Pica).

Tale maggiore stabilità tuttavia non è gratuita e, forse inaspettatamente, non la pagano solo gli outsiders attraverso tempi di attesa più lunghi. Un aspetto spesso ignorato dei costi di licenziamento consiste nella possibilità che le imprese li facciano pagare almeno in parte ai lavoratori attraverso minori salari. Un’ulteriore analisi della riforma del 1990 da noi recentemente condotta (e alla quale rimandiamo per i dettagli) mostra in effetti che i salari settimanali si riducono in media in un range che va dallo 0.4% all’1% circa dopo la riforma nelle imprese piccole rispetto alle grandi. I lavoratori già presenti in azienda non subiscono riduzioni del salario reale ma i nuovi assunti entrano con salari d’ingresso minori. Inoltre, l’effetto è più marcato per i “colletti blu” con meno di 30 anni e nelle regioni nelle quali il tasso di occupazione maschile è minore. Sembra quindi che le imprese traslino il maggior costo soprattutto sui lavoratori che, per caratteristiche individuali o di mercato, hanno un minore potere di contrattazione.<o:p></o:p>

Quanta parte del costo di licenziamento viene traslata sul lavoratore? Secondo le nostre stime dallo 0,4% all’1% del salario settimanale medio (quest'ultimo e' pari a 313 euro - prezzi costanti 1995 - nei nostri dati). Anche cumulato nel tempo questo effetto sembra piccolo, ma va confrontato con il valore atteso (scontato) del costo di licenziamento sopportato dall’imprenditore, che deve tener conto della probabilità di licenziare e della probabilità di perdere in giudizio (grossomodo pari al 50% secondo questo studio di Galdón-Sánchez e Güell). Nella tabella sottostante illustriamo vari scenari assumendo una riduzione del salario dell'1% a settimana per diverse probabilità di licenziamento dal 7% al 15%. La traslazione è decrescente nella probabilità di licenziamento perché è pari alla riduzione del salario del lavoratore (che non varia al variare della probabilità di licenziamento) diviso il costo atteso di licenziamento che è invece ovviamente crescente nella probabilità di licenziamento. La tabella mostra che il trasferimento dei costi di licenziamento dalle imprese ai minori salari dei lavoratori varia in un range compreso tra il 46% e il 98% a seconda delle ipotesi sulla probabilità di licenziamento, un ammontare sostanziale.

Probabilità di licenziamento:
7%10%15%
Traslazione del costo di licenziamento:
98%69%46%

Riassumendo, fin qui sembrerebbe che i costi di licenziamento offrano stabilità ai lavoratori – che la pagano attraverso minori salari e code più lunghe per ottenere un posto protetto – senza però danneggiare il livello di attività dell’economia nel suo complesso, visto che lo stock di occupati non sembra variare. Una conclusione del genere presuppone però che la produttività degli occupati sia costante.  È invece plausibile pensare che la produttività delle imprese sia influenzata dai costi di licenziamento perché questi alterano gli incentivi ad investire in capitale, sia fisico che umano. Su questo tema non esistono studi empirici specifici per l’Italia. Uno studio basato su un campione di imprese europee (Cingano et al., 2010) suggerisce però che le restrizioni ai licenziamenti abbiano un effetto negativo sull’investimento per unità di lavoro, lo stock di capitale per unità di lavoro e la produttività del lavoro. Le stime indicano che una riduzione dei costi di licenziamento dal livello della Grecia (90esimo percentile del livello di protezione) a quello della Danimarca (10mo percentile) produrrebbe un incremento dell’11,2%, dell’11,4% e del 7% di investimenti, stock di capitale e produttività del lavoro, rispettivamente. L’effetto si attenua però al crescere della dimensione e delle risorse finanziarie delle imprese; si attenua cioè per le imprese che dispongono (presumibilmente) di un migliore accesso al credito. 

Questo spinge a pensare che le imprese che hanno scarso accesso al credito, a fronte di maggiori costi di licenziamento, non riescono a sostituire il fattore diventato relativamente più caro (il lavoro) con il fattore diventato relativamente meno caro (il capitale) e che sono invece costrette a tagliare gli investimenti e a ridurre il rapporto capitale/lavoro con una ricaduta negativa sulla produttività. Corollario di questo risultato è che un mercato del credito efficiente può ridurre (e magari annullare) l’effetto negativo dei costi di licenziamento sulla produttività facilitando l’accumulazione di capitale e l’adozione di nuove tecnologie.

Ci sembra di poter concludere che le restrizioni ai licenziamenti, i cui benefici in termini di stabilità sono chiari, hanno anche dei costi. In nessuna delle dimensioni analizzate (dimensioni d’impresa, flussi di occupazione, salari, produttività e investimenti) i costi sono tali da poter dire che, presi uno per uno, siano davvero insopportabili. Ma come si suole dire, è la somma che fa il totale.

4Che fare?

Sulla base dell’evidenza empirica descritta cerchiamo infine di capire se c’è lo spazio per pensare ad una riforma che – a parità di protezione del lavoratore – possa ridurre i costi della protezione stessa, e quindi ridurre le inefficienze di cui sopra. Il punto di partenza del nostro ragionamento è il dato secondo il quale a fronte di una decisione di reintegro del giudice, solo in rarissimi casi il lavoratore sceglie di rientrare nel posto di lavoro optando invece per l’indennità alternativa di quindici mensilità. Di conseguenza, ci sembra che una riforma articolata come segue possa offrire un livello di protezione analogo a quello offerto dalla legislazione attuale, con costi minori per le imprese:

  1. ciascun lavoratore riceve per legge dall’impresa una sostanziosa indennità monetaria – crescente con l’anzianità – al momento del licenziamento;
  2. il lavoratore che rifiuta l’indennità può agire in giudizio (per esempio in caso di discriminazione). In questo modo perderà l’indennità monetaria prevista ex lege ed affronterà il rischio del giudizio, al termine del quale il giudice potrebbe ovviamente dargli (come già oggi, del resto) torto o ragione. In quest’ultimo caso, il lavoratore (come previsto dalla legislazione attuale) verrebbe reintegrato o riceverebbe – a sua scelta – un’indennità ancora maggiore (oggi fissata in 15 mensilità). 

Si noti che si tratta di una riforma che garantisce almeno lo stesso livello di protezione esistente oggi. Si introduce infatti, a parità di possibilità di agire in giudizio per ottenere il reintegro, la possibilità per il lavoratore di percepire (a sua scelta) un’indennità monetaria automatica al momento del licenziamento (indennità oggi pari a zero). Se il lavoratore sceglie invece di ricorrere in giudizio perde il diritto all’indennità monetaria automatica, ma può ottenere il reintegro dal giudice.

Il guadagno di efficienza deriva dal fatto che la presenza dell’indennità monetaria automatica dovrebbe far sì che il numero dei ricorsi in giudizio (e i costi ad esso legati) si riducano. Con questo sistema, infatti, i lavoratori faranno un calcolo costi-benefici: meglio un’indennità ex lege oggi o un eventuale reintegro nel futuro (un futuro che può essere molto distante nel tempo data la lentezza della giustizia civile in Italia)? Non tutti i licenziamenti economici verrebbero presumibilmente impugnati davanti al giudice come invece avviene oggi. Il costo per le imprese sarebbe quindi minore perché verrebbe eliminato (almeno in parte) l’inutile costo dell’incertezza del giudizio con ricadute positive sulle dinamiche del mercato del lavoro, sui salari e sulla produttività.

Come ulteriore corollario i contratti a tempo indeterminato diventerebbero più convenienti rispetto alle varie tipologie di contratto a tempo determinato e ai molti modi che oggi esistono di mascherare dei lavoratori dipendenti come finti autonomi. Questa a noi pare l’unica via per ridurre davvero la dualità del mercato del lavoro.

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Commenti

Ci sono 144 commenti

Grazie dell'articolo, credo che questa serie sarà molto interessante. Mi piacerebbe avere alcune info aggiuntive: (1) ok la disamina normativa ma si potrebbe avere qualche dato in piu' su cosa succede effettivamente nei tribunali (mi pare di capire che TUTTI i lavoratori ricorrano, che la metà circa vinca la causa ma che solo una percentuale bassa opta per il reintegro: corretto? si possono avere le cifre?) (2) se la probabilità di reintegro è effettivamente del 50% e rifiutando l'indennità proposta si puo' ottenere il reintegro (uguale economicamente al PV dei salari futuri)  o un'indennità piu' alta, perché il lavoratore non dovrebbe ricorrere in giudizio? Equivalente certo ipotizzando lavoratori molto avversi al rischio? (3) se invece l'indennità automatica risulta piu' conveniente, non vorrebbe dire che il costo del licenziamento è superiore rispetto a quanto avviene ora? mi spiego meglio, se il lavoratore sceglie l'indennità automatica vuol dire che il suo valore atteso è superiore a al valore atteso di andare in causa, che corrisponde alla situazione attuale; se questo è vero mi pare che il costo del licenziamento per l'impresa aumenta.

Grazie per le risposte.

Si, anche a me finendo di leggere l'articolo sono venuti dubbi simili. Voi dite 

Il guadagno di efficienza deriva dal fatto che la presenza dell’indennità monetaria automatica dovrebbe far sì che il numero dei ricorsi in giudizio (e i costi ad esso legati) si riducano.


Ma in pratica proponete di sostituire un'indennità incerta (dovuta all'esito del giudizio) con una certa (se il lavoratore lo desidera). Affinchè questo rappresenti un miglioramento per l'impresa l'indennità certa deve essere sufficientemente bassa. 

Dato il vostro meccanismo quindi mi aspetto la seguente selezione. Se sono un lavoratore che crede di perdere in giudizio, sceglierò l'indennità certa. Se sono un lavoratore che crede di vincere in giudizio, faccio la causa. Data questa selezione mi aspetto quindi che la proporzione di cause vinte dai lavoratori sia più alta di quella attuale (solo quelli che sono abbastanza sicuri di vincere fanno causa, mentre allo stato attuale lo fanno tutti perchè non c'è alternativa). Quindi l'effetto finale per l'impresa mi sembra un costo maggiore rispetto alla situazione attuale. 

Rispetto alle tue domande (2) e (3), mi viene da dire che l'ipotesi sottostante è che andare in giudizio abbia comunque costi di transazione molto elevati (pensa solo agli avvocati...). Poi c'è l'incertezza. Poi c'è il fatto che per uno che rimane senza lavoro pare lecito assumere che un uovo oggi sia preferibile ad una gallina domani.

Infine, il tuo punto (2) non mi pare funzionare perfettamente. Il reintegro vale il PV dei salari futuri. E la maggior parte di lavoratori propendono per le (massimo) 15 mensilità. Dunque: 15 mensilità + PV dei salari futuri con un nuovo lavoro (incerto) > PV dei salari futuri con reintegro. Se assumiamo che, di 'sti tempi, trovare un nuovo lavoro può risultare piuttosto difficile, allora che tasso di sconto applicano 'sti lavoratori? Ma, in ogni caso, se la preferenza è per l'indennità, e se ciò è vero (anche) perchè si dà molto più valore al futuro prossimo, allora meglio ancora un'indennità più piccola, ma certa e immediata, no?

Gli unici dati li ho sentiti da un telegiornale

Nel quinquennio 2007-2011(TG3 delle ore 14.20 del 7 febbraio): 31000 numero di cause intentate (media 6200/anno) in capo all'articolo 18, 300 reintegri sentenziati di cui 230 poi risolti con la scelta dell'indennizzo da parte del licenziato reintegrato

Se l'impresa ci guadagna o meno dipende da quanto prezza il rischio e da qual è il suo tasso di attualizzazione. Secondo me il guadagno c'è.

Nel sistema attuale quando assumo un dipendente,  so che se dopo un anno voglio licenziarlo dovrò pagare un ammontare incerto che dipende dal fatto che io riesca o meno ad accordarmi e che di conseguenza si vada o meno in causa.

Con la proposta, io saprei ex ante quanto mi costa licenziarlo e potrei tenere conto di questa informazione nel formulare la mia decisione di assunzione.

In generale, credo che per un'impresa sia un fattore positivo sostituire un costo futuro incerto con uno predeterminabile. 
In generale, la eliminazione di un cospicuo numero di cause inutili (dico inutili perchè mere formalità dall'esito scontato in partenza) dovrebbe giovare a tutti (meno che agli avvocati che sulla cosa lucrano).

Ad oggi praticamente tutti i licenziati in modo individuale per ragioni economiche ricorrono in giudizio (circa 8000 le sentenze nel 2009 secondo Pietro Ichino su suo sito) perchè non hanno niente da perdere. Secondo un articolo del Corriere del 8/2/2012 e opinioni di giuristi del lavoro i lavoratori che scelgono il reintegro dopo aver vinto sono pochi perchè o hanno già trovato un altro posto o sanno benissimo che l'azienda dove tornerebbero è ora un ambiente ostile. Quindi oggi in equilibrio diciamo che il lavoratore che ha ragione in sede di giudizio prende i salari maturati nel frattempo (quindi possono essere 1/2 ma anche 5/6 anni a seconda della durata del processo) + 15 mensilità. Ma ha ragione solo con 50% delle probabilità e non sa quanto durerà il processo, quindi l'idea che possa accettare una cifra minore subito è ragionevole e contribuirebbe a sfoltire i processi che sono un costo inutile.

Vogliamo lasciare in principio la possibilità di ricorrere in giudizio perchè questo in effetti è un deterrente per le imprese che volessero approfittarne ingiustamente. La possibiltà di reintegrazione si potrebbe anche eliminare ma allora forse bisognerebbe prevedere più di 15 mensilità in caso che il lavoratore abbia ragione in giudizio.

Il punto sta tutto in come fissi l'indennità certa e crescente con anzianità di servizio al momento del licenziamento rispetto a quella incerta ottenibile solo in giudizio. Ma un modo c'e' sicuramente che ti permette di evitare i giudizi inutili responsabilizzando il lavoratore (che andrebbe in giudizio solo in casi in cui crede davvero di aver ragione) e dando una certezza all'azienda che può valutare subito costi e benefici (l'azienda non ha la sicurezza di poter licenziare comunque, perchè nei casi più ingiusti il lavoratore ti farebbe causa).

L'indennità crescente con l'anzianità si riferisce all'anzianità anagrafica o lavorativa?

Lo chiedo perchè in questo articolo Boeri e Garibaldi sostengono che "Come dimostrano l’esperienza dell’Austria e della Francia, la scelta di far crescere i costi di licenziamento con l’età (anzichè con la durata del posto di lavoro) fa aumentare la disoccupazione fra i lavoratori più anziani."

con l'età lavorativa, certo, grazie per la precisazione. 

Ottima idea, la serie di articoli giusta al momento giusto.

Il meccanismo proposto funziona se si trascura che, specialmente in un periodo come questo, chi fosse licenziato e indennizzato o finanche dimessosi (costretto come alternativa al licenziamente)  non troverà mai più un posto di lavoro. Poichè solo un irresponsabile si dimetterebbe volontariamente senza già avere un nuovo posto, il licenziamento individuale sarebbe evidente ed il possibile nuovo datore di lavoro penserà che il candidato abbia magari stuprato paio di colleghe o rubato almeno metà ufficio o officina o menato l'ex datore di lavoro o il capo o mezzo ufficio o reparto.

A nulla servirebbe una dichiarazione dei motivi del licenziamento: essere licenziati a torto o ragione costituisce uno stigma che preclude ad una nuova assunzione.

Era una risposta seria?

Io in vita mia mi sono sia dimesso (in Sicilia, da un TI), sia mi hanno fatto "redundant" (nel RU, il mio lavoro era volato offshore in Messico, dove con il mio stipendio ci pagavano un team di 3 persone con esperienza pluriennale (*)), e non ho mai avuto problemi a trovare un altro lavoro. Aneddotico per quanto possa sembrare, più o meno tutte le persone che conosco che in una maniera o nell'altra hanno perso il lavoro, prima o poi ne hanno trovato un altro.

Bisogna cambiare il sistema italiano in maniera che queste stigmate di cui parli (se ne parlavi seriamente) diventino materia di studio soltanto per chi si occupa di storia dell'economia.

(*) capitasse oggi, ci pagherebbero almeno 15 laureati con esperienza in India. Credimi, è un ottimo incentivo a produrre più valore tramite innovazione originale ;)

La proposta dell'articolo l'ho trovata molto conservatrice, abbastanza iniqua (e dei disoccupati attuali che ne facciamo?), e non credo che restituirebbe al sistema paese italia molta competitività o ne aumenterebbe granché la produttività.

Sostanzialmente, servirebbe forse, nel migliore dei casi, a gestire meglio ed a mitigare la decadenza economica e sociale del paese. In molti scenari, non servirebbe a nulla.

Spero che le altre proposte siano più interessanti.

Personalmente mi risulta uno scenario di riferimento molto diverso da quello tratteggiato nella proposta:

- la L. 108 è utilizzata (solo) da una piccola minoranza di quanti escono per licenziamento nelle micro imprese (sotto i 15 dip.) esattamente come una percentuale infinitesimale, degli stessi occupati nelle micro imprese, sono affiliati a sindacati;

- qualunque proposta si possa articolare in Italia oggi in materia di "art.18" e connessi, non può non tenere conto del fatto che praticamente nessun lavoratore affronta ricorsi giudiziari col datore di lavoro da solo ma esclusivamente attraverso l'"ufficio vertenze" del sindacato )che attualmente mobilita migliaia di avvocati a tempo pieno..)

Una parte molto importante della discussione in atto (al tavolo del Ministro Fornero e nei partiti che dovranno votare la riforma..)  in realtà non sta ragionando su una diversa regolamentazione del licenziamento individuale "non discriminatorio" ma del nuovo assetto (ruoli, competenze, responsabilità, autonomia) delle rappresentanze sindacali in materia.

Buona parte di quello che "funziona"  fuori dall'Italia in materia si regge sul ruolo diretto - in materia -dei lavoratori e non su quello dei Sindacati (persino in Germania dove contano parecchio, una grossa parte dei licenziamenti individuaie si realizzano "automaticamente" o con mediazioni "pro forma").

La questione è politica  (..purtroppo)  come insegna il caso Marchionne e le soluzioni come l'art.8  che una parte del Sindacato aveva già accettato e gestito.

Buttarla (esclusivamente) sull'aspetto tecnico-giuridico, a me pare, fuorviante.

Mi pare che l'articolo nell'elencare i costi del licenziamento assuma che i lavoratori siano tutti uguali. Ma uno dei principali motivi per cui si vorrebbe poter interrompere il rapporto di lavoro e' il semplice mismatch: un lavoratore non e' adatto al lavoro per cui e' stato assunto. Questo porta una perdita sia di produttivita' per l'impresa, sia di salario potenziale  per il lavoratore, e a legislazione attuale nessuno dei due ha interesse ad interrompere il rapporto. 

L'indennità automatica non spingerebbe i dipendenti a farsi licenziare invece che dimettersi?

E di conseguenza l'azienda a fare di tutto perché il dipendente si dimetta?

..perché la protezione dal lavoro non possa essere oggetto di contrattazione tra lavoratori e imprese, anziché essere fissata ex lege.  Se la contrattazione fosse esclusivamente individuale, si potrebbe pensare a problemi di selezione avversa e/o segnalazione, in quanto i lavoratori che si ritengono meno capaci troveranno più conveniente essere protetti e viceversa.  Ma la presenza di organizzazioni sindacali in grado di riunire gruppi eterogenei di lavoratori e prendere parte ad una contrattazione collettiva risolve questo problema.  Quindi dov'è l'intoppo?

Nessuno (a parte qualche Associazione Datoriale e non ufficialmente...) vuole una contrattazione individuale lavoratori/imprese e (quasi) nessuno accetta di far arretrare, dalla legge verso la contrattazione (sindacale), la disputa sul licenziamento.

I licenziamenti collettivi che oggi si contrattano in realtà sono un passaggio previsto dalla legge per accedere alla CIG e agiscono solo in presenza di motivazioni economiche aziendali (di mercato, ecc.). Una parte della discussione in atto rischia però di smontare il giocattolo sindacale/datoriale che oggi gestisce questi strumenti di welfare.

Tutto si tiene o niente si terrà, se Monti andrà per la sua strada e piuttosto della crisi/elezioni/sboom in Parlamento lo si voterà a sufficienza...

Mi sembra evidente che l'attuale sistema oltre a fornire una forma di 'protezione'  ai lavoratori,  costosa sia per le imprese che per i beneficiari,  è una innegabile fonte di guadagno per alcuni, ovvero per gli avvocati. Non a caso sono la categoria più rappresentata (in termini assoluti e relativi) in parlamento, ovvero in quel posto dove si (s)fanno le leggi. Per qs ultimi non sembrano esserci costi occulti, solo una fonte di reddito.  Chissà cosa direbbero se lavoratori ed imprese finissero per accordarsi da soli.

 

La soluzione proposta mi sembra interessante:  le imprese potrebbero invero fare un passo avanti è cominciare a dire qual è l'indennità monetaria che sarebbero disposte a pagare per evitare le incertezze e i costi derivanti dalle procedure attuali. In fondo l'onere (o il vantaggio)  della prima mossa spetta a loro poichè hanno già espresso la propria insoddisfazione per lo status quo.

Al di fuori dei casi di discriminazione, che implicano un giudizio da parte di un tribunale, dove chi afferma di essere stato discriminato dovrebbe avere l'onere della prova, ritengo che il lavoro non vada “protetto” ma che vadano tutelati economicamente i periodi di disoccupazione tra un lavoro e l'altro, tramite un'assicurazione obbligatoria e universale (anche i dipendenti pubblici) senza alcun limite dimensionale aziendale.

Sono quindi contrario a indennità crescenti con l'anzianità (facciamo un TFR bis?) e favorevole alla eliminazione di ogni forma di cassa integrazione, ordinaria, straordinaria ed in deroga; a favore di un'assicurazione universale obbligatoria pagata in parti uguali tra datore e lavoratore dipendente, un po' come avviene in buona parte dell'europa continentale. Questo tipo di ammortizzatore prenderebbe in carico anche i casi di ristrutturazione e crisi (senza quindi licenziamento) per periodi pero' solo inferiori all'anno e si preoccuparebbe anche della riqualificazione professionale del dipendenti, al fine di reintrodurli nel mercato del lavoro opportunamente formati. Varrebbe anche nel caso in cui è il lavoratore a licenziarsi (con in questo caso una franchigia iniziale).
Oppurtuni programmi di start-up potrebbero anche aiutare chi vuole mettersi in proprio (formazione, tutoring e sostegno nei primi anni).

Il problema come noto è dato dalle risorse. Avendo a suo tempo indicato un differente sistema di finanziamento del SSN (da beveridge a bismark) che potrebbe portare all'abbandono dell'IRAP, le aziende potrebbero avere circa 33 miliardi a disposizione per finanziare questi ammortizzatori.

Enteremmo nella normalità europea, con sussidi di disoccupazione alla tedesca, da cui esci se rifiuti un'occasione.

Francamente il modello danese mi sembra troppo oneroso (4 anni, pur a scalare, ma con un prelievo dell'8% a carico dei soli lavoratori) e penso che in Italia 400-500 giorni lavorativi (a seconda dell'età) all'75% e con copertura previdenziale siano un buon punto di inizio.

Naturalmente bisogna anche eliminare ogni altra barriera che ostacoli la crescita dimensionale delle imprese e obbligi di fatto il sistema all'attuale controproducente nanismo. Dico controproducente perché è noto che micro e piccole imprese hanno produttività dimezzata rispetto alle grandi (come si puo' verificare partendo da questi datc) e soffrono piu' delle grandi del carico burocratico e delle norme fiscali.

Sono convinto che parlare in questo momento storico/economico dell’Italia ( e dell’Europa più in generale) di riforma del mercato del lavoro sia estremamente difficile.

Se fossimo in una fase di sviluppo, in cui il passaggio da un lavoro ad un altro si presentasse più facile, credo che i sindacati ed i lavoratori si siederebbero ad un tavolo di trattativa con altro spirito.

Inoltre è necessario un mutamento culturale che ancora on si vede: il passaggio dalla tutela del posto di lavoro al lavoratore (come, ad es. alcune proposte di Francesco Forti)

Ma credo ci sia un problema più generale.

Quando si prevede la (nuova/diversa) qualificazione professionale dei lavoratori temporaneamente senza lavoro (sempre Francesco Forti), bisognerebbe anche sapere/prevedere quale sarà la domanda di nuove professionalità che saranno richieste dal mercato del lavoro dopo sei mesi/un anno, (posto che troppe aziende si sorreggono solo con sussidi, diminuzione del costo del lavoro attraverso lavoro nero e lavoro precario, e quindi sarebbero espulse da un mercato più competitivo.

E questo non credo sia possibile senza una programmazione economica fatta da un governo che abbia una visione ed un progetto (in particolare un po’ più lungo di un anno).

 

Il disoccupato viene in contatto con una richiesta di lavoro per cui comprende che gli mancano alcuni elementi. La ditta che lo assumerebbe per esempio richiede una certa competenza. Il disoccupato si rivolge all'ufficio del lavoro che gli organizza uno o piu' corsi per coprire le carenze formative, in cambio di una attestazione scritta che il datore di lavoro indende assumerlo a formazione eseguita. 

Mi sono recentemente iscritto ad un gruppo su Facebook chiamato Informatici Palermo. Jeri un altro dei membri ha chiesto:  "Qualcuno conosce ditte SERIE che organizzano corsi a Palermo? Non parlo di corsi Regionali che si fanno giusto per passare il tempo, ma corsi professionali di programmazione, PL/SQL, J2EE, .NET...", ed in 24 ore ha ricevuto esattamente zero risposte, tant'è che si è risposto da solo:  "dalle innumerevoli risposte pervenute, immagino che non ce ne siano... come tutto a Palermo..". Io tra l'altro una dozzina d'anni fa qualcuna la conoscevo, ma per quanto ne so sono tutte fallite o liquidate perché nel mercato in cui operavano contava più che il proprietario fosse un parente di un politico potente (sinistra, centro, destra, fate vobis) che altro.

In Europa c'è una richiesta inaudita di persone capaci di mettere mano sui software SAP. Da mia moglie sono mesi che cercano qualcuno con almeno 2 anni di esperienza (2, non 20!), ed offrono pubblicamente un salario base lordo di 63 mila Euro annui, più svariati benefit (alcuni anche abbastanza importanti), ed hanno ricevuto poche risposte perché essendo a meno di 100km da Londra, ne subiscono la concorrenza, ed a Londra per quel tipo di lavoro paagano almeno 75 mila Euro annui lordi di stipendio base. Questo nel momento in cui c'è disoccupazione record nel Regno Unito. Quante scuole di SAP ci sono in Sicilia, o in Calabria, o in qualsiasi altra zona ad elevata disoccupazione giovanile del Bel Paese? Zero.

Mia moglie ha conosciuto un architetto Britannico che con la crisi del 2008-09 ha deciso di cambiare carriera, se n'è andato in India a farsi corsi su corsi su SAP (perché non è che nel RU la situazione sia migliore che in Italia per quanto riguarda la formazione di un certo livello, almeno nel mio campo, oggi giorno offre di più l'India), ha lavorato in India per un anno per quattro copechi, ed oggi si vende come consulente (con un paio d'anni di esperienza, quindi poco più che junior) per 415 Euro lordi al giorno (che per un consulente SAP sono una tariffa abbastanza bassa).

Questo è un caso che conosco personalmente, ma chissà quanti altri lavori simili ci sono per i quali c'è una richiesta importante anche in piena recessione, e per i quali se un europeo volesse formarsi, gli tocca andarsene in Cina o in India?

Mmm, quando il mercato è in espansione non vogliono nessuna modifica. Le cose vanno bene, perché cambiare? E' come pensare che dopo il boom demografico degli anni 60 lo stato pensasse di riformare le pensioni in senso contributivo per reggere al successivo picco di pensionamenti. Lo hanno fatto solo quando erano con l'acqua alla gola, ed è il modo con cui in Italia si fanno le riforme.

Questo è il momento migliore per farlo, perché per quanto impopolare una riforma possa essere la gente è convinta che non ci sia altra scelta.

Riqualificare i disoccupati sembra interessante, ma come fare? Prima ancora di chiedersi in quali settori promuovere la formazione, bisogna pensare al modello di formazione. Che valore avranno quei corsi, come saranno tenuti? 

Sulla programmazione economica ho seri dubbi, stai chiedendo ai politici di pensare cosa faranno gli imprenditori tra 5/10 anni. Facciamo che i corsi li facciano scuole private sovvenzionate dalle imprese. Loro forse sanno di cosa hanno/avranno bisogno.

Certo, potrebbe essere un modo.

Ma mi appare troppo inefficiente a fronte di una formazione programmata e rivolta ad una plurarità di utenti.

Per non parlare del ruolo della scuola.

la formazione professionale programmata  la davo per scontata.

Tuttavia le innovazioni tecnologiche creano necessità di costante riqualificazione.

Intanto complimenti per aver affrontato un problema trattato di solito come questione ideologica in modo razionale e pacato, arrivando ad una proposta costruttiva forse imperfetta ma ragionevole.

Una considerazione: sospetto che in molti casi l'articolo 18 sia semplicemente un comodo paravento dietro al quale si nasconde chi avrebbe la responsabilita di intervenire per correggere situazioni inaccettabili ma che preferisce, per quieto vivere, lavarsene le mani.

La Camusso ha detto a Che Tempo Che Fa che già ora, con l'articolo 18, le imprese possono tranquillamente licenziare per motivi economici. Cosa si può rispondere a questa affermazione?

qui, per esempio.

Ed è vero. L'articolo 18 richiede o giusta causa o giustificato motivo. I giustificati motivi oggettivi sono relativi a motivazioni economiche. Vedi mio intervento delle 11.23.

C'è una cosa che non capisco. Se i lavoratori avversi al rischio sono contenti di essere protetti dal licenziamento e se l'impresa neutrale al rischio è contenta di fornire questa protezione quando non è credit constrained, perché c'è bisogno che la protezione dal licenziamento sia legislativa? L'imprenditore e il lavoratore non possono mettersi d'accordo da soli?

 

EDIT: scusate, ho visto solo ora che tizioc aveva già pubblicato un commetno simile al mio. Pertanto il mio potete anche eliminarlo.

Giorni fa i giornali riportavano gli indici dell'Ocse (strictness of employment protection) dai quali emerge che liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano di quanto non lo sia per un ungherese, un ceco o un polacco. Con un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) l'Italia è al di sotto della media mondiale (2,11) e che tuttavia l'Italia è in cima alla top ten (indice 4,88) solo quando si voglia procedere a licenziamenti collettivi.


Ma allora il problema è l'art 18 oppure i licenziamenti collettivi?

A me sembra verissimo, il problema è che si è riusciti ad introdurre questa flessibilità soltanto in maniera molto iniqua, facendola sopportare soltanto ad un ben determinato sottoinsieme dei lavoratori (leggi: CoCoCo, CoPro, IVA monocliente, ...), che infatti hanno meno tutele di praticamente tutti gli altri dipendenti in tutti gli altri paesi Ocse.

Proviamo a vedere a dove va l'indice per i TI in aziende con più di 50 dipendenti? O per i TI nel settore pubblico?

da quando Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca sono diventati i nostri peer da imitare?

PS Il problema e' sia l'art. 18, sia i licenziamenti collettivi

Dal 2008 il principale indicatore dell'Ocse è questo (version 3) che produce un ranking differente.

 

L'obiettivo primario di questa proposta, rendere più certi e snelli i costi del licenziamento, lo capisco, ma proprio non riesco a vedere come questo sistema sia in grado di ridurre la dualità del lavoro: dove  sarebbero i disincentivi per l'esorbitante numero di contratti a tempo determinato che esistono oggi in Italia?

dell'esorbitante numero di contratti? Lavoratori, datori, hanno esigenze diverse, stipulano contratti diversi

La dualita' si puo' ridurre o rendendo tutti inamovibili oppure rendento nessuno inamobilie. Credo che gli autori del post abbiano in mente il secondo caso.

Gli incentivi per gli imprenditori che ricorrono al lavoro a tempo determinato sono da una parte il costo ( contributi sociali a metà, nessuna copertura per malattia, no ferie, no XIII, no tfr, no premi) e dall'altra la flessibilità di licenziamento derivante dalla possibilità di non rinnovare il contrato ad ogni scadenza. L'eventuale abolizione dell'articolo 18, riallineerebbe la flessibilità di licenziamento solo parzialmente perchè il licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato continuerebbe comunque ad essere regolato dall'articolo 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604 inerente " Norme sui licenziamenti individuali". L'articolo sancisce l'illegalità del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo illegalità però sanabile con la corresponsione al licenziato di una indennità, ma senza obbligo di reintegro . 

Dal punto di vista del costo del lavoro 100 € di imponibile fiscale per il lavoratore (e quindi a parità di netto) costano al datore di lavoro:

---per un lavoratore a tempo indeterminato 187,6 €

---per un co.co.co. 129,7 €

QUI lo sviluppo.

Pertanto il lavoro "precario" continuerà ad essere molto conveniente indipendentemente dall'articolo 18 la cui abolizione agevolerà in infima parte l'assunzione a t.i. dei giovani.

Il disincentivo sta nell'eliminare tutta quella serie di contrattualizzazioni che nascondono dietro ad un velo di precarietà un posto di lavoro fisso.

Si tratterà di usare finalmente il giusto contratto per le giuste condizioni. Ho un progetto di ricerca? Assumo ricercatori a progetto. Ho bisogno del ragazzo delle fotocopie? Assumo a tempo indeterminato un ragazzo per le fotocopie. Un domani mi comprerò lo scanner e le fotocopie non mi servono più? Licenzierò il ragazzo delle fotocopie. Non ne assumerò 5 in 10 anni, non dovrò spostare il ragazzo delle fotocopie in contabilità anche se non sa una cippa di partita doppia, non assumerò un ingeniere per fare fotocopie solo perché so già che non potrò licenziarlo e dovrò spostarlo altrove.

E' vero che in teoria esistono 46 tipi di contratto in Italia ma le imprese ne utilizzano in pratica solo 4: il tempo indeterminato, il dipendente a tempo determinato, il cococo a progetto e  la finta partita IVA. Di modi per aggirare il tempo indeterminato ne esistono infiniti, potenzialemnte anche la nuova norma di Monti che permette di aprire agli under 35 una società con 1 euro. Il problema è che finchè il costo del licenziamento per un contratto indeterminato è così più alto, l'impresa ha sempre un vantaggio a fare questi contratti. E se metti un limite ad uno (per esempio divieto di rinnovo di contratti determinati o progetti per i cococo) le imprese passano ad altro tipo di contratto temporaneo o finta partita IVA come nei vasi comunicanti. Non basta neanche uguagliare aliquote contributive (che già è difficile per come protestano i veri lavoratori autonomi) per annullare i vantaggi di un qualunque contratto temporaneo finchè il costo di licenziamento rimane così alto per il tempo indeterminato. Per il resto però il contratto indeterinato conviene all'impresa che non deve trovare trucchi per assumere a tempo deterinato e non rischia che il lavoratore a tempo determinato vada dal giudice.

L'idea è quindi di rendere il costo del licenziamento più certo e quindi minore per l'impresa, nell'assunzione che la maggior parte dei lavoratori accetterebbe l'indennità subito e solo quelli che pensano di essere stati discriminati si arrischiano in un lungo contenzioso. Se si riuscisse anche a sostituire la reintegra (anche se in equilibrio il lavoratore ne ususfruisce raramente) sarebbe ancor meglio, ma politicamente mi pare difficile e poi bisognerebbe compensarla in denaro, a quel punto il costo dell'indennità di licenziamento per alcune imprese  sarebbe troppo alto. In questo caso si potrebbe pensare che, per agevolare questa scelta, lo Stato (o le regioni oggi per competenza) si accolino le spese di riqualificazione del lavoratore. La regione Lombardia aveva pensato una cosa simile, ma se l'è rimangiata.

Gentile Sig. Brogliato, se è un'azienda minimamente seria, avrà un minimo di programmazione ed il ragazzo delle fotocopie farà un corso di aggiornamento per usare lo scanner o per essere riposizionato in altra mansione.

Può darsi che nel frattempo qualche altro dipendente sia andato in pensione, sia stato spostato ad altra mansione superiore, ecc.

Nel frattempo, forse, nel ragazzo delle fotocopie sarà cresciuta una fidelizzazione nei confronti dell'azienda per la qual lavora che, per la medesima, può rappresentare un valore.

Perchè si pensa solo e sempre alla possibilità di licenziare facilmente?

 

Perchè si pensa solo e sempre alla possibilità di licenziare facilmente?

 

C'è chi lo fa (ma ci sono anche quelli che si divertono in modi peggiori...) ma credo che la sostanza sia, da un lato, che la nostra cultura imprenditoriale più diffusa (sicuramente in quei due-tre milioni di datori di lavoro in più - che abbiamo - degli altri Paesi UE)  è a dir poco arcaica o se preferisce, un po'  "grezza" e, dall'altro lato, il sistema di rapresentanza e istituzionale è  coerente con quella mentalità. Troppi nostri datori di lavoro hanno atteggiamenti paternalistici verso i dipendenti e siccome sanno che "il sistema" prevede strettoie legali e burocratiche in mano ad associazioni ed avvocati, si comportano di conseguenza.

Il datore di lavoro che descrive lei esiste ma è una minoranza (e comunque, solo nella grande industria) e tutto il resto del mercato del lavoro è semplicemente un mix di pastoie legali e burocratiche e di interessi a protezione (legittima) dei vari gruppi in gioco.

Personalmente credo che l'opportunità che si presenta al Paese oggi sia enorme, specialmente dal punto di vista culturale (per crescere e allontanarci un po' dalle nostre piccinerie provinciali) ma i motivi per remare contro sono altrettanti...

 

 

Perchè si pensa solo e sempre alla possibilità di licenziare facilmente?

 

perchè questo è il paese del "Cummannari è megghiu ri futtiri" ed un articolo 18 tra le palle di chi comanda è come un coito imterrotto per chi fotte.

Perché non è sempre il ragazzo delle fotocopie è un fenomeno, perché spesso quando qualcuno va in pensione non lo si sostituisce perché da tempo l'azienda era in superorganico.

Non deve nemmeno passare il messaggio che l'imprenditore abbia foga di licenziare, non a caso confindustria si è detta contraria al passaggio dalla Cigs al sussidio di disoccupazione.

Il problema è che oggi abbiamo una normativa del lavoro decisamente positivistica, in cui le aziende possono solo crescere, al più rimanere ferme mentre la realtà è ben diversa. E questo non voler prendere atto della realtà ha un costo che poi viene comunque girato alla collettività.

Chissà perchè sono convinto che l'art.18 sia la classica pagliuzza nell'occhio, e i sindacati fan casino (Camusso fa casino) perchè non contano più un piffero fra i lavoratori.

 

Per questo non partecipo all'interessante dibattito su UK vs Italy (di cui mi ero occupato con un post sulle società), perchè in gioco c'è di tutto , non solo l'art.18, scemi i sindacati a non capirlo. Non per niente Marchionne ha sempre parlato di "relazioni industriali" e mai di art. 18.

 

Sui numeri: la CGIA di Mestre ha calcolato in 156.000 le aziende che ricadono sotto l'articolo 18, mentre le controversie nel 2006 sono state circa 9.000. Ovvero circa il 6%. Non male.

Anche io ho lo stesso "sospetto".

 

Qualcuno nei commenti sopra tirava in ballo anche gli avvocati.

 

In fono se le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro fossero più snelle, trasparenti ed eque, basterebbero sindacati più snelli per gestire i casi realmente problematici ingiusti e discriminatori.

 

Moltissima gente dovrebbe trovarsi da lavorare, dopo anni, un bel problema (per loro).

 

Non per niente Marchionne ha sempre parlato di "relazioni industriali" e mai di art. 18.

 

Il Sig. Marchionne risponde così ad una domanda sull'art. 18 sul CdS di oggi:

 

Tra queste spicca la riforma del mercato del lavoro. Che cosa pensa dell'articolo 18? 
«Che ce l'ha solo l'Italia. Meglio assicurare le stesse tutele ai lavoratori in uscita in modi diversi, analoghi a quelli in uso negli altri Paesi. Diversamente, le imprese estere non capiscono e non vengono qui a investire».

 

che senso ha % di vertenze su numero di aziende. Forse una in media una vertenza ogni 17,3 aziende. Poichè i dipendenti di dette aziende sono circa 7,8 milioni una vertenza ogni 867 dipendenti.

 

quanto al falso scopo ben più interessante sarebbe l'eliminazione della C.I.G. straordinaria per le aziende decotte. Ho sentito o letto da qualche parte che ne esiste una i cui lavoratori sono in cig da 14 anni. Ma contro questo anche Confindustria alza le barricate: anche l'azienda decotta ha un CDA e un CEO che non lavorano gratis. 

Ha senso la percentuale, ha senso. Fai una piccola riunione fra imprenditori di PMI con >15 dipendenti e scopri che almeno uno ha avuto una causa ex art. 18.

 

E' stato letteralmente spennato dall'avvocato (che come sentono "azienda" vedono un limone che cammina), poi la causa si protrae e tu vivi nell'incertezza, poi si cerca magari una mediazione, e sono altri soldi, perchè è una contrattazione quella che si fa.

Senti queste storie e pensi "ma chi me lo fa fare?". Ora se queste storie si sentissero ogni morte di papa (tipo la nevicata a Roma) uno può anche pensare "vabbè, ma sarà un caso", poi le senti spesso e ritorni al punto 1 .

 

Dividere per il numero di lavoratori, invece, è poco interessante, chi si sente colpito dalla vicenda è l'imprenditore e il dipendente (che se è stato licenziato un motivo ci sarà).

 

Sulla CIG straordinaria e in deroga concordo, difatti sento che la Fornero vorrebbe cambiare anche quella. Difficile, come fai notare anche in Confindustria c'è a chi conviene.

secondo te costituisce giusta causa o giustificato motivo per il suo licenziamento il fatto che il magazziniere se la spassi con la moglie, consenziente e felice, del sciur Brambilla?

Secondo te cosa pensa el sciur Brambilla medio della mia Brianza?

 

questo è proprio il caso in cui l'avvocato ti spenna come un limone e ti spreme come un pollo. A meno che il magazziniere si impegni in focosi amplessi con la signora Brambilla durante l'orario di lavoro e trascurando le sue mansioni, NON è giustificato motivo, e allora devi coprirlo con qualche altra motivazione. Poi magari esce fuori che tre mesi prima al magazziniere avevi dato una gratifica per il lavoro svolto, per cui licenziarlo per scarsa produttività non regge...

Io conosco almeno due casi in cui non fare un cazzo non costituito giustificato motivo.

E dico in senso letterale: uno dei due l' ho scoperto chiedendo:

"Come mai X non accende mai il PC?"

E no, il signor X non era sommerso da scartoffie o telefonate, semplicemente non faceva un cazzo.Almeno i due giorni che ho passato alla scrivania in parte.

Tornando alla tua domanda, immagino che per la legge non lo sia. E credo sia una legge stupida, visto che una cosa del genere palesemente inquina i rapporti in azienda.

Sono d'accordo sul proteggere le discriminazioni contro cio che uno è (razza, religione, orientamento sessuale,...), non contro i suoi comportamenti.

o.k. ma qui la tesi è che:

 

 l'eliminazione dell'articolo 18  e quindi dei suoi costi renderebbe possibile assumere con contratto a t.d. i giovani , in breakeaven economico.

 

Userò i tuoi numeri: 156000 aziende sottoposte ad art18, 9000 casi a cui aggiungo i miei (TG3 ore 14.20 dello 07/02): casi nell'ultimo quinquennio: 31000, pronunciamenti avversi all'azienda 300,  scelta reintegro 70, scelta indennizzo 230.

Sia C il costo di lavoro annuo di un t.i., C/1,45 quello di un t.d. e il lordo sia, per un t.i., sia C/1,7    (i rapporti 1,45 e 1,7 derivano da questa mia analisi 

Si consideri una impresa con 16 dipendenti di cui 4 a t.d. e si immagini che affronti un caso l'anno di licenziamento con successivo ricorso del licenziato per articolo 18.

 

Costo situazione attuale: Cx12 + Cx4/1,45+ 230/31000x6,15xC/1,7 + 230/31000*C = Cx14,8

Il terzo termine è la probabilità di pronuncia avversa (230/31000) moltiplicata l'indennità corrisposta ( lordo= C/1,7  moltiplicato per gli anni del processo assunti (5) + 15 mesi), l'ultimo termine il costo degli avvocati  (assunto uguale al costo annuo di un t.i.)  

Costo con tutti gli addetti a t.i e senza articolo 18 = 16xC; rapporto 1,08.

Notare che un ricorso l'anno è altissimo ( uno / azienda, 0,08 / dipendente) (tuo dato dà una media di ,0577 per azienda, ,00115 per dipendente) e che 5 anni di durata del processo puo considerarsi un massimo.

 

E' poi chiaro che vale il lemma di Trilussa ma i conti non si possono fare con il worst case. (che il d.d.l. soccomba sempre nel qual caso dopo un paio di volte dovrebbe stare più attento)

... nel senso che delle 156.000 dovremmo vedere quante sono pubbliche o semi pubbliche (municipalizzate e altro), che quindi non licenzierebbero nemmeno per sbaglio, poi i 9.000 magari non sono uno per azienda, ma potrebbero essere raggruppati, poi non sempre il datore di lavoro è soccombente (anzi, sembra che vinca nel 40% dei casi, sempre secondo la CGIA di Mestre), quindi i "numeri" sull'art. 18 sono solo delle indicazioni, non il Vangelo.

 

Tanto che, ribadisco, per me l'art.18 è un falso problema di discussione, è solo un argomento "motivazionale" del tipo: "ah non me lo dire XZY l'ho preso come magazziniere, ma pensa solo a dormire dietro gli scatoloni, ogni volta che lo becco a dormire mi dice che si è appena addormentato, e non lo posso nemmeno licenziare sennò mi fa causa". Poi senti le storie (facciamo il 3% delle aziende ha avuto una causa ? Va bene ? dimezzo il dato ab oculo ?) sulle cause e ti scoraggi.

 

Erano le BR a dire "colpirne uno per educarne 100", qui gli imprenditori sono educati a colpi di "colpiti tre, educati 100". E' questo il dato aziende/cause te lo fa capire. Metti che tu paghi l'avvocato, il dipendente no (ha il patrocinio gratuito) e vedi quale è la parte avvantaggiata.

Tu emigrando dalla R.I. al R.U. hai assimilato troppo la loro cultura.

Noi che siamo rimasti nella R.I., fra le altre cose, faremo di tutto perchè al capo della nostra Polizia non venga dimezzato lo stipendio (> 600 k€/anno) per allinearlo a quello del capo di Scotland Yard (≈ 300 k€/anno): costi quel che costi financo rinunciare all'articolo 18! Non vorremmo che qualche altro stato ce lo rubi, da qualche anno il mercato delle competenze è impietoso. 

In realtà [New] Scotland Yard è responsabile principalmente per un area di 1572 km2, poco più grande del Comune di Roma, anche se molto più popolata e con un PIL maggiore. Il capo della polizia italiana credo abbia ben altre responsabilità.

 

Un argomento spesso usato ed abusato afferma che l’art. 18 impedisca alle imprese di crescere e che rimuoverlo aiuterebbe a risolvere il problema del nanismo delle imprese italiane. Borgarello, Garibaldi e Pacelli (2004) e Schivardi e Torrini (2008) analizzano l’effetto dell’art. 18 sulla dimensione delle imprese italiane, guardando alla propensione delle imprese a crescere intorno alla soglia critica di 15 dipendenti. Entrambi i lavori concordano sul fatto che l’effetto soglia esiste, cioè la probabilità di assumere uno o più dipendenti decresce intorno alla soglia di 15 dipendenti, ma è un effetto che si aggira intorno al 2% ed è quantitativamente troppo limitato per spiegare perché le dimensioni delle imprese italiane sia molto minore rispetto alla media europea (per maggiori dettagli si veda il post di Fabiano Schivardi su LaVoce.info).

 

Mi sono imbattuto in questi dati ISTAT (tassi di natalità e mortalità delle aziende, vedere tabelle excel, scheda TAV 1) da cui risulta che ogni anno vi è un tasso lordo di turnover di aziende con dipendenti prossimo al 20% (media di 5 anni =19.5%).

In che significa che ogni anno solo 80% delle imprese che c'erano prima rimane. Quel 20% che cambia è costituito da un 10.6% che apre ed un 9% che chiude. Il dato diventa ancora piu' macroscopico nel settore delle costruzioni, in cui ISTAT segnala un turnover del 29%.

Non parliamo delle microaziende composte dal solo titolare ma di aziende che hanno almeno un dipendente o che lo hanno assunto anche dopo.

 

Mi sembra un dato enorme che forse nasconde un modo per aggirare l'art 18. Chiudo un azienda (licenziando tutti) e ne apro un'altra, assumendo chi voglio.  Inoltre questo dato potrebbe spiegare la mancanza di un evidente addensamento di aziende sotto i 15 dip.  Semplicemente chiudo un'azienda e ne apro due. Purtroppo ISTAT non dice quanti dipendenti sono coinvolti in questo giro di chiusure ed aperture. In linea di massima penso anche un milione l'anno.

 

 

 

Semplicemente chiudo un'azienda e ne apro due. 

 

devono essere in comuni diversi e in ogni caso ne puoi aprire massimo quattro.

 

Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non

imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti

ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque

dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non

raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non

imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.

 

le imprese di costruzioni che spariscono di solito lo fanno con il malloppo versato da chi ha prenotato un appartamento.

Due articoli, il primo sulla scorta del secondo.

 

Il fatto di postarli non indica affatto un'adesione ai concetti espressi ma il tentativo di riavviare il dibattito. 

 

1) La modifica dell’articolo 18 peggiora ulteriormente la competitività del nostro sistema produttivo (keynes blog)

2) LA STRANA ECONOMIA DELL'ARTICOLO 18, di Roberto Tamborini

 

Il punto chiave del secondo è second me questo:

 

Stabilito questo punto, dovrebbe essere più semplice individuare il principale effetto di una riduzione del costo di licenziamento: si creano più posti di lavoro ex ante, ma sono quelli via via a più basso rendimento atteso (quelli che non verrebbero attivati se l'asticella fosse più alta). Quindi, come sempre in economia (ma quanti si scordano questo principio basilare), c'è il rovescio della medaglia. Se questo insieme di lavoratori assunti è a basso rendimento, quando l'impresa lo scopre potrà licenziarli. Bene, ma notate che se non ci fosse incertezza sul rendimento dei lavoratori, e l'impresa avesse saputo prima quali erano a basso rendimento, non li avrebbe assunti. Risultato: aumenta il turnover, cioè la creazione /distruzione di posti lavoro, ma non (necessariamente) la creazione netta di posti di lavoro, quelli che sopravvivono ex post. Chi sostiene che in questo modo si alimenta una prassi "usa e getta" del lavoro è forse un po' enfatico, ma dice qualcosa che ha un grano di verità.

 

L'autore, forse per ragionamenti stile superfisso, sembra non considerare che l'elevato turnover aiuta ad ottenere il best fit tra lavoratore ed impresa e tendenzialnente ogni azienda tenderà ad avere i lavoratori piu' adatti al suo business ed ogni lavoratore tenderà a rimanere nell'azienda in cusi si trova meglio. Questo mogliora molto la produttività, quindi non è un gioco a somma zero, come lasciato intendere. In un mercato fluido, come sperimento in CH, che non ha nemmeno l'indennizzo in caso di  licenziamento economico ma solo ottimi ammortizzatori, migliori come durata e prestazioni economiche di quelli tedeschi, non bisogna solo considerare il licenziamento da parte dell'azienda ma anche quello del lavoratore.  E in CH trovamo la percentuale minore di disoccupazione indigena, quella massima di occupazione maschile e femminile e quella maggiore di lavoratori stranieri. 

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