Trasformare la lotta al riciclaggio in un'opportunità per la finanza pubblica

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Siamo abituati a pensare alla presenza della criminalità organizzata e all'accumulazione illegale di ricchezza cui è finalizzata come a un grave problema sociale, ma in tempi di crisi finanziaria potrebbe rappresentare addirittura un’opportunità, un’insperata sopravvenienza attiva per un Governo forte che volesse spendere la propria forza morale e materiale, cioè il suo potere. I patrimoni riciclati, in Italia come all’estero, dal crimine organizzato, possono essere considerati come una risorsa parafiscale da utilizzare all’occorrenza, una tantum e per risolvere definitivamente un problema di modernità.

Premessa

Ci sono fenomeni che dovrebbero richiamare l’attenzione dei governi, ben più di quanto non avvenga con il terrorismo internazionale. Mi riferisco al fenomeno del riciclaggio di capitali frutto di attività criminali che sta coinvolgendo, pur con l’imbarazzo ad ammetterlo di fronte alle rispettive opinioni pubbliche, diversi paesi europei. L’effetto è quello di distorcere il mercato e la corretta competizione economica, contribuendo così a mettere in difficoltà attraverso una sleale concorrenza, fino a farlo uscire dal mercato, l’operatore legale.

La libera concorrenza è uno dei capisaldi dell’Unione Europea: per questo la lotta al riciclaggio dovrebbe prevedere una più efficace cooperazione tra gli Stati perché nessuno di essi potrebbe avere un lungimirante interesse a consentirlo, né all’interno, né al di fuori dei propri confini. Solo in seguito ad una risoluzione dell’ottobre 2011 il Parlamento Europeo si è dotato nel marzo 2012 di una Commissione speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro presieduta dall’on. Sonia Alfano. Nella particolare situazione italiana, poi, questa lotta potrebbe rappresentare addirittura un’inaspettata opportunità finanziaria.

L’ipoteca sulla nostra economia, rappresentata dal debito pubblico e dai vincoli di stabilità finanziaria impostici dai mercati finanziari, potrebbe essere alleggerita dall’aggressione legale di tali patrimoni. Quali altri mezzi avremmo oggi se non tagli alla spesa e nuove tasse per favorire un necessario risanamento finanziario? Non sarebbe politicamente più spendibile presentare ad una minoranza disonesta almeno parte del conto di un gravoso risanamento?  Le stime sui proventi annui delle attività criminali superano i 100 miliardi mentre la spesa per soli interessi sul debito pubblico, una delle principali voci del bilancio statale, potrebbe crescere dagli attuali 84 miliardi in caso di crisi finanziaria.

In un’economia senza frontiere e con movimenti finanziari telematici come si potrebbe contrastare oggi, efficacemente, l’accumulazione di tali patrimoni criminali che, ovunque celati nel mondo, mantengono pur sempre un legame con un beneficiario effettivo italiano? Un suggerimento ci può venire dalla cronaca di questi anni. Quando il governo del Kuwait volle recuperare il bottino che Saddam Hussein aveva trafugato e poi celato in “paradisi” dietro prestanome di sua fiducia, si affidò con successo alla nota multinazionale statunitense di investigazioni Kroll. Analoga sorte toccò, sempre per mano della stessa agenzia investigativa, alle fortune dei coniugi Marcos, a quelle di Duvalier così come di altri dittatori o criminali di tutto il mondo. Se il criminale si avvale di colletti bianchi per proteggere il proprio patrimonio, è molto improbabile che lo si possa aggredire prescindendo dall’ausilio di colletti bianchi. Bisogna semmai avvalersi, con sano pragmatismo anglosassone, dei migliori sulla piazza, evitando di lasciarli a vantaggio dell’avversario. Del resto, è un’attività che si autofinanzia, come ben sa l’amministrazione Usa che remunera profumatamente chi collabora. La stessa zona grigia dell’attività bancaria internazionale deve essere implicitamente incentivata a lavorare per la legalità attraverso la prospettiva di vantaggi economici.

Una rigida visione pubblicistica e burocratica, funzionale sinora solo ad assicurare impunità ai criminali, ci impedisce di avvalerci in questa azione di contrasto di intelligenze esterne alla pubblica amministrazione. C’è allora da augurarsi, nell’attuale drammatica crisi finanziaria, che il bisogno sproni l’ingegno del nostro legislatore che potrebbe rivendicare pretese non solo sul piano penale, ma anche civile verso i condannati per reati di mafia e i loro eredi, solidarmente, per il danno di immagine, per il danno da mancato sviluppo economico, ecc. Sarebbe un credito da risarcimento danni cartolarizzabile da parte degli operatori finanziari a condizione di operare con procedure credibili, capaci di trasformarle in flussi di denaro. Una sorta di sopravvenienza attiva per il bilancio pubblico! 

Spunti operativi

Avvalersi di intelligence esterne

Si è già accennato come altri Governi utilizzino abitualmente capacità di intelligence esterne alla propria amministrazione per perseguire più efficacemente obiettivi di contrasto al crimine organizzato e al riciclaggio. Nessuna attività può autofinanziarsi come questa visto che il fine dell’attività criminale che si intende contrastare è proprio l’accumulazione illecita della ricchezza. Il che significa che in questo campo ci si potrebbe avvalere delle migliori tecnologie, delle migliori professionalità, remunerandole adeguatamente e creando nuovi sbocchi professionali e bonificando infine il sistema economico dalla presenza parassitaria dei capitali riciclati. Unica condizione è volere sinceramente e con la dovuta determinazione vincere questa che sarà comunque una guerra civile per il diffuso consenso sociale che tali capitali raccolgono.

Un diverso modo di gestire i patrimoni confiscati

Con la L. n. 50 del 2010, la gestione dei patrimoni confiscati alle mafie è stata assegnata ad un nuovo ente, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata,che si sostituisce all’Agenzia del Demanio nelle competenze, unificando il procedimento di amministrazione dalla confisca alla destinazione a Enti pubblici e associazioni oppure alla vendita di beni non destinabili.

Qual è la situazione oggi? Mentre l’attività repressiva inanella ogni giorno nuovi sequestri milionari e la liquidità rinvenuta alimenta il Fondo di Giustizia, i patrimoni confiscati continuano a rappresentare più un costo che un’opportunità. Come potrebbero essere invece diversamente gestiti gli immobili residenziali, commerciali e industriali, i terreni, i beni mobili registrati, le quote sociali e le aziende che ne fanno parte? La destinazione ad Enti locali e associazioni no profit “sa di buono”, ma sarebbe preferibile, più pragmaticamente, vendere appena possibile tali asset a prezzi convenienti e rimborsare debito pubblico. Risparmieremmo marginalmente la spesa per interessi e potremmo conseguentemente abbassare le tasse e stimolare e incentivare così l’intrapresa economica. Mentre scrivo, il contatore del debito pubblico dell’Istituto Bruno Leoni segna 2.085 miliardi che gravano e graveranno sulle generazioni presenti e future.

La risposta dei soggetti che subiscono confische è nota: “avvelenare i pozzi”, vandalizzando i beni in modo da dover spendere per ripristinarne la funzionalità in un momento in cui i soldi pubblici scarseggiano e far intendere poi a inquilini, con le buone o con velate minacce, che tali beni devono restare sotto la loro influenza e, soprattutto, non devono “andare in mano agli sbirri”. Pensiamo allora a quanti, tra le forze dell’ordine, vivono nelle regioni a controllo criminale del territorio in case in affitto e al valore simbolico e sociale della presenza di un rappresentante dello Stato in quella che fu una proprietà criminale. Non si potrebbero valutare forme di locazione a prezzo politico in cambio della testimonianza resa oppure valutare la possibilità che sia il locatario a effettuare a sue spese la manutenzione interna al posto dell’affitto o con la possibilità di riscattare la proprietà?

Più che un’Agenzia, servirebbe un organismo simile ad Fondo di investimento che valorizzasse in modo diverso e con la massima trasparenza e non solo con l’obiettivo della creazione di valore per i partecipanti, il patrimonio gestito. A titolo d’esempio:

  1. Quali e quante civili abitazioni si potrebbero offrire in affitto alle forze dell’ordine?
  2. Quali e quante offrire con l’opzione del riscatto delle stesse in cambio di lavori di manutenzione straordinaria?
  3. Quali e quanti immobili destinare a esigenze di enti locali ovvero di associazioni veramente meritevoli?
  4. Quali e quante unità immobiliari valorizzare invece per il mercato e la vendita?
  5. Cosa fare delle aziende, specie se con personale impiegato? Affidarle a manager privati (tra i tanti che hanno perso il lavoro) che rispondano al Fondo condividendo un piano imprenditoriale da essi stessi proposto?
  6. Quali aziende, fabbricati o terreni agricoli affidare invece a giovani imprenditori che volessero avviare un’attività di impresa?

Servono professionalità diverse da quelle tipiche della cultura burocratica, professionalità abituate a cimentarsi nel raggiungimento di un risultato utile più che a sentirsi appagate dal rispetto di una procedura formale. Serve creatività e spirito imprenditoriale, ma poiché in questo periodo di crisi le professionalità e i cervelli si sprecano, ecco, ancora una volta, che è questione di sapere ciò che si vuole e di saper osare.

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Commenti

Ci sono 32 commenti

Tenderei a fare alcune distinzioni.
Le attività criminali non hanno  effetto distorsivo diretto sulla concorrenza con attività lecite. Sono due mondi diversi. Ad avere effetto distorsivo caso mai sono le attività lecite ma fatte nel sommerso, con evasione fiscale e contributiva.

Ma torniamo alle atività criminali, che mai potranno diventare lecite.  Le dividerei in due: quelle ridistributive (furti, rapine, scippi, estorsioni ad imprese, pizzo ai commercianti etc) e quelle che in qualche modo creano un valore aggiunto tramite la produzione o lo smercio di sostanze o prodotti illegali (droghe, armi).  Nel primo caso più che un effetto distorsivo sulla concorrenza abbiamo un peso maggiore che grava su attività lecite non protette sufficientemente dallo Stato. Nel secondo no. 

Nel primo caso mi pare doveroso che una volta scoperto e condannato il criminale, i soldi confiscati vengano in qualche modo resi ai danneggiati. Usare questi fondi per sanare il bilancio pubblico mi sembrerebbe una doppia beffa. Ma come, lo Stato non mi ha difeso quando sono stato derubato ed ora che il maltolto è stato in parte trovato trovato, lo Stato lo usa per sè?  Potrebbe valere solo quando il furto è avvenuto ai danni dello Stato (tramite corruzione pubblica o truffe varie negli appalti pubblici). 

Nel secondo caso invece sì che i capitali confiscati potrebbero avere una destinazione pubblica. È tuttavia molto difficile, dopo anni distinguere i due casi. A volte sono mischiati ed i capitali illeciti di entrabi i tipi si sono trasformati in attività lecite (ristoranti, imprese).

L'idea di affidarsi a professionisti è giusta ma attenzione che quando il danno è stato subito dai privati, sono loro che vanno rimborsati. 

Mi sembra di aver parlato chiaramente di riciclaggio di capitali di fonte criminale organizzata (mafia siciliana, camorra napoletana, 'ndrangheta calabrese e sacra corona unita pugliese)  in attività economiche o in altri attivi intestati a prestanome e utilizzati per finanziare tali attività, offrire garanzie bancarie, ecc. che creano un effetto distorsivo sulla libera concorrenza, non dell'attività criminale originaria (traffico di droga, appalti pubblici taroccati, racket, ecc.) che è ovviamente al di fuori della competizione economica.

Il traffico di droga, il racket, ecc.  sono attività ad elevata marginalità che, una volta pagate le spese dell'assistenza legale e per il sostentamento delle famiglie degli affiliati incarcerati, offrono abbondanti eccedenze che vengono reimpiegate in attività lecite nei settori più disparati, in Italia come all'estero.

Non credo che in questo caso ci sia da rimborsare ad esempio chi abbia fatto uso di droghe o chi abbia pagato il pizzo invece di denunciare. Diverso sarebbe il caso di un furto o di una rapina che rappresentano però attività più da microcriminalità che da criminalità organizzata: dove la grande criminalità ha il controllo del territorio l'incidenza della microcriminalità (es. furti in appartamento) è storicamente minore perchè "disturba" i traffici e minaccia il consenso sociale, salvo i periodi di crisi come questo in cui è più difficile controllare i cani sciolti.   

Le attività apparentemente lecite dei mafiosi possono operare effetti distorsivi sulla concorrenza mediante corruzione nelle gare d'appalto, o intimidazione dei concorrenti o potenziali clienti.

Ad esempio uno scenario tipico è il mafioso che chiede il pizzo ad un imprenditore o ad un commerciante, ed oltre ad un pagamento cash richiede anche l'acquisto di forniture dalle sue aziende, a prezzi più alti di quelli di mercato e/o con qualità inferiore.

In alcuni contesti sociali, basta solo che un'azienda abbia la fama di essere gestita da mafiosi per spaventare i concorrenti.

Sono daccordissimo. La tua disanima, nonché la difesa dei cittadini danneggiati dal crimine è ineccepibile.

Però, l'argomento di Didonna sulla "concorrenza sleale" che denari provenienti da attività illecita eserciterebbero sul mercato mi suggerisce un parallelo curioso.

Gli apologi degli alti livelli di progressività delle imposte li giustificano sostenendo che questi spingono le imprese ad investire.

Ebbene, in questo caso, l'investimento per sfuggire alle imposte mi sembra avere lo stesso effetto (ed anche la stessa natura?) del tipo di riciclaggio citato.

Di fronte ad un'imposta del 75%, ecco che io investo in un settore qualsiasi. Dove gli imprenditori, per sopravvivere, quando investono 100 devono ricavarci almeno 120 (100+10 per gli interessi alle banche+10 per il rischio d'impresa).

Io, invece, mi accontento di 30. Ci ho già guadagnato. E', o non è, concorrenza sleale e danneggiamento del mercato?

Dal punto di vista del vantaggio per l'economia generale, forse questo è proprio l'unico caso in cui avrei preferito che della valuta fosse drenata verso lo Stato piuttosto che verso un mercato concorrenziale.

In altre parole, staremmo tutti molto meglio se un Romiti od un Tronchetti P. od un De Benedetti avessero pagato le imposte, anziché comprare a destra e a manca . . . danneggiando irrimediabilmente tutto ciò che hanno toccato.

il pensiero, solo mi viene il dubbio che con un sistema legislativo elaborato da un battaglione di azzeccagarbugli e un parlamento composto in maggioranza dai medesimi si possa arrivare ad attuare pratiche destinate a cambiare il sistema.

Le leggi, come noto, vengono scritte nei ministeri, dove sono distaccate frotte di magistrati.

Il sistema legislativo deriva da loro.

Il parlamento, peraltro, non è affatto composto per la maggior parte da avvocati (che peraltro, appartenendo a diversi schieramenti, hanno opinioni contrastanti)

dei beni acquisiti illecitamente impiegando il frutto di reati è già prevista e praticata. Mi sembra poco interssante interrogarsi sulle ragioni che stanno alla base di tale sanzione, mentre è del tutto condivisibile l'idea di impiegare quei beni in maniera produttiva nell'interesse generale. L'impressione, però, è che lo si faccia poco, ci si limiti a destinarli ad associazioni di varia natura, e che l'ipotesi di rimetterli sul mercato susciti polemiche pretestuose.

Una famiglia trapanese, i Burgarella, costruirono nel XIX secolo una impresa per l'estrazione di sale marino nel Mar Rosso, impresa che iniziarono costruendo le immense saline di Aden (poi ne costruirono altre a Port Said e a Massaua). Durante la seconda guerra mondiale, i Britannici ovviamente sequestrarono le saline di Aden, e le diedero in amministrazione ad un Greco, il sig. Pericles Mavroudis. Alla fine della guerra, i Britannici diedero un bonus dello 0,5% all'amministratore, e pagarono tutti i profitti fatti nei 9 anni precedenti ai Burgarella, per un totale di £150,000 (equivalenti a 14 milioni di Euro odierni). Questa storia mi ritorna in mente ogni qual volta leggo di imprese sequestrate o confiscate.

Anche quando la confisca si conferma giuridicamente la scelta corretta, chi e come gestisce queste imprese?

Esempio: un imprenditore del trapanese, il sig. Vito Nicastro, è balzato agli onori della cronaca per aver subito un sequestro di 1,3 miliardi di Euro. La cifra è impressionante, è dello stesso ordine di grandezza, anzi non è molto distante, dal PIL di Trapani, ed è addirittura maggiore del PIL della città di provenienza del sig. Nicastro, Alcamo. E se questi si riuscisse a dimostrare la propria innocenza? Chi sta gestendo il patrimonio? Come vengono gestite le imprese? Chi gli restituirà i mancati profitti? E se fossero fondate le accuse? A chi verranno vendute queste aziende? Dove finirà il ricavato? In quale capitolo di spesa? Dove finiscono i profitti? In relazione al territorio su cui operava, è come se avessero sequestrato la Apple in California, eppure non è per nulla semplice trovare risposte fattuali alle domande appena fatte.

il primo rientra nel rischio (geopolitico) di impresa mentre per il secondo si configura esattamente il riciclaggio cui si fa riferimento nell'articolo. Il sig. Nicastri ha subito la confisca come prestanome di un boss latitante: per essere più certi dell'accusa, sarei più tranquillo se, oltre a magistrati e forze dell'ordine, ci fosse una valutazione tecnica di professionisti con grande esperienza del business, capaci quindi di dire se una certa storia imprenditoriale sia credibile oppure costruita grazie a rapporti poco limpidi.

Anche sulle amministrazioni giudiziarie nutro riserve perché rispondono più a esigenze di garanzia delle procedure che non di efficienza economica delle imprese sottoposte a queste misure. Per questo il criterio da seguire dovrebbe essere, a mio avviso, improntato a favorire il ritorno sul mercato delle stesse  sulla base di criteri trasparenti e meritocratici. E se un'impresa in mano a prestanome di mafiosi prosperava solo grazie alle minacce che fallisca pure!

In ogni caso, nei sistemi giuridici anglosassoni (so già che qualcuno sosterrà che non esistono) non si può espropriare una proprietà privata a meno di una condanna (ai fini di risarcimento, come predicava anche Beccaria).
Beati loro.

Effettivamente l'impiego dei beni confiscati sembra poco efficiente, però mi pongo il dubbio sull'effettiva realizzabilità di quanto proposto dall'articolo.

Il problema principale legato a questi beni sta nell'impedire a tutti i costi che possano tornare in mano alla criminalità organizzata. Quest'esigenza può cozzare con l'esigenza di bilancio/efficienza.

'Vendere gli asset a prezzi convenienti'. Il prezzo conveniente non lo sa nessuno, c'è l'asta. Ma la criminalità organizzata può svuotare l'asta mincciando, così ribassare il prezzo tornando in posssesso del bene.

'Affittare a un prezzo politico'. Già, ma in molti casi i locatari sarebbero amici o prestanome degli stessi criminali.

'Interventi di manutenzione'. Possono essere finti, come talvolta in autostrada.

Il problema è che, nel momento in cui il sistema che gestisce il bene è affetto da un tasso di corruzione troppo alto e capillare, penso sia difficilissimo gestire il bene in modo efficiente ed, allo stesso tempo, 'legale'.

La scelta fatta sinora è quella dell'inefficienza. Ma io non sono certa che sia sbagliata. Ho torto?

Denise

non può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Se sceglie di valorizzare i beni confiscati alla criminalità organizzata - anziché sottoutilizzarli - faccia rispettare la legalità delle aste e prevenga la corruzione: dopo tutto, è uno dei suoi compiti primari.