Premessa: una visione generale
L’università è istituzione essenziale per il futuro del nostro paese, come massimo produttore di ricerca, soprattutto ma non solo di base, e come luogo di formazione. La situazione attuale non è particolarmente rosea. L’università italiana si piazza nelle posizioni di rincalzo in tutte le classifiche internazionali sulla qualità della ricerca[1]. Anche i suoi difensori più accaniti, al massimo affermano che la qualità media è buona. Le poche punte di eccellenza sono dovute più a circostanze fortuite e all’impegno di singoli ed esistono nonostante, anziché grazie, agli incentivi posti dal sistema. Dal punto di vista didattico, si registra un’alta percentuale di abbandoni, mentre la maggioranza degli studenti non riesce a finire gli studi nei tempi previsti. La qualità dei laureati è profondamente diseguale da corso di laurea a corso di laurea, e soprattutto da università a università, ma tali differenziazioni non sono formalmente riconosciute, almeno per gli impieghi pubblici. La reputazione dei docenti è macchiata da una serie di scandali concorsuali, che in pochi casi configurano responsabilità penali ma sono la spia di un più diffuso atteggiamento che troppo spesso privilegia nella scelta dei docenti i rapporti personali fra maestro ed allievo a scapito dell’efficienza delle istituzioni.
Nel complesso il sistema ricerca italiano appare poco efficiente ed in chiaro affanno, ma è anche ricco di tradizioni e risorse umane. Molti professori e ricercatori svolgono con entusiasmo e dedizione il loro lavoro. La profonda riforma che proponiamo è anche nel loro interesse, oltre che ovviamente in quello degli studenti e della comunità nazionale. Per definire le linee guida, è necessario definire le cause dell’attuale situazione. La visione più comune fra i docenti attribuisce tutti i problemi alla mancanza di fondi. Si sostiene che la spesa per l’università (p.es. in rapporto al numero di studenti) sia inferiore a quella degli altri paesi avanzati e che sia in calo per colpa dei tagli alla spesa pubblica. Dati i fondi insufficienti, i docenti italiani sono riusciti a produrre ricerca di buona qualità: per migliorare la posizione delle università basterebbe aumentare i finanziamenti. La nostra visione è differente.
i) In primo luogo, il finanziamento pubblico non ci sembra così carente. I confronti internazionali sono inevitabilmente influenzati dal gran numero di fuori-corso: la spesa per studente appare bassa se sono inclusi come studenti a tempo pieno, molto più alta, addirittura ai massimi OCSE se sono esclusi. Gran parte della spesa viene destinata al personale, ed i particolare agli stipendi dei docenti. La struttura degli stipendi privilegia i docenti più anziani, senza riconoscimento della produttività individuale – salvo un sistema Inoltre, è in atto un massiccia ondata di pensionamento di professori che nei prossimi anni ridurrà drasticamente sta riducendo la spesa per il personale, e quindi anche i costi della struttura.
ii) L’idea di una università pubblica prevalentemente finanziata dalle tasse ci sembra socialmente ingiusta. È infatti noto che la percentuale di studenti universitari sulla classe di età di riferimento è correlata positivamente col reddito delle famiglie[2]. Quindi il finanziamento pubblico implica un trasferimento dai contribuenti in generale al sottoinsieme di famiglie più ricco della media. Tale trasferimento continua per tutta la vita lavorativa, in quanto i laureati hanno prospettive di reddito più elevate dei semplici diplomati, e la differenza è superiore alle tasse pagate[3].
iii) Infine, un aumento degli stanziamenti senza cambiamenti istituzionali profondi ignora, a nostro avviso, l’esperienza storica. Almeno dagli anni Sessanta, ogni aumento di spesa è stato utilizzato per aumentare il numero degli addetti e/o i loro salari[4]. Un aumento delle risorse, compatibilmente con le condizioni della finanza pubblica, è sicuramente auspicabile ma sarebbe inutile senza un cambiamento dell’organizzazione. L’organizzazione attuale è il frutto dell’incapacità dei governi di gestire il passaggio da università di élite ad università di massa negli anni Sessanta, aggravata da una potente spinta sindacal-corporativa degli anni Ottanta.
Il problema è stato affrontato negli ultimi anni – ed anzi si può dire che l’università è uno dei settori del pubblico impiego più interessati da un processo di riforma che a nostro avviso si muove nella giusta direzione. Nel 2006 il governo Prodi ha istituito l’ANVUR, una agenzia governativa per la valutazione della qualità della ricerca (ed in prospettiva della didattica) ma ne demandò la definizione di struttura e funzionamento ad un regolamento. Nel 2011 il governo Berlusconi ha nominato il primo consiglio direttivo, rendendo l’agenzia pienamente operativa, ed ha introdotto il principio di utilizzare i risultati della valutazione per distribuire parte dei fondi del finanziamento pubblico. Lo stesso governo ha approvato una legge di riforma organica (legge Gelmini) che ha interessato l’organizzazione delle università (scomparsa delle facoltà) la governance (con un aumento del potere dei rettori) ed il reclutamento dei docenti. Infine, l’attuale governo Monti, nel decreto spending review ha lasciato alle università la possibilità di aumentare le tasse, seppur con alcuni limiti. Questo processo di riforma ha incontrato una ostilità profonda e diffusa da parte del corpo docente – o almeno delle sue componenti più sindacalizzate che per ora hanno ottenuto solo risultati parziali. Ci impegneremo s favorire la piena attuazione della riforma ed in particolare delle procedure di valutazione della qualità della ricerca e di abilitazione nazionale. Ritiene infatti che i risultati di tali operazioni, oltre che utili in sé, siano necessari per formulare una riforma più incisiva e di lungo periodo. È infatti nostra opinione che la piena attuazione della riforma Gelmini potrà rappresentare solo un primo passo, assolutamente insufficiente per risolvere i problemi di fondo del sistema universitario .
L’università che vogliamo
a) vogliamo un sistema misto, che mantenga, almeno nei prossimi decenni una prevalente componente pubblica secondo la tradizione europea. Auspichiamo però anche lo sviluppo di una forte componente privata di qualità, che si aggiunga alle università attuali.
b) riteniamo inevitabile una diversificazione del sistema universitario, con un decentramento delle lauree di primo livello in college locali ed una concentrazione dell’insegnamento a livello di dottorato di ricerca e della ricerca in un numero relativamente ridotto di sedi. La selezione di queste ultime dovrà però avvenire attraverso una competizione aperta per le risorse e non attraverso l’assegnazione di attestati di eccellenza a priori con opache decisioni ministeriali.
c) è necessario aumentare la percentuale deli studenti frequentanti sulla popolazione in età corrispondente e contemporaneamente ridurre drasticamente il numero dei fuori-corso. Sarà in tal modo possibile migliorare la qualità della forza-lavoro italiana ed allo stesso tempo abbassare l’età di entrata nella forza lavoro.
d) per migliorare la qualità del sistema è necessario aumentare le risorse totali, ma riteniamo ingiusto aumentare gli oneri a carico dei contribuenti. Lo stato dovrebbe finanziare i costi minimi di gestione e, in maniera molto generosa, la ricerca di base. Il resto dovrà essere pagato dalle tasse universitarie, integrate da altri redditi (proventi da convenzioni, sponsorizzazioni, contributi degli ex-allievi). Sarà quindi necessario istituire generose borse di studio per gli studenti meritevoli di famiglie di reddito medio-basso ed offrire agli altri l’accesso a prestiti, da ripagare sul reddito futuro
Per raggiungere obiettivi si propone una strategia di riforme graduale, articolata in provvedimenti di breve periodo a costo zero o quasi, da approvare al massimo in sei/otto mesi, provvedimenti di medio periodo (da approvare in due-tre anni) e provvedimenti di lungo periodo, da adottare in cinque-sette anni. Per i provvedimenti di medio e soprattutto di lungo periodo si dovrebbe lasciare alle università (e/o alle regioni) una certa libertà di anticipare o ritardare il passaggio alla nuova normativa, eventualmente fornendo vantaggi aggiuntivi alle università che decidessero di accellerare la transizione.
Interventi di breve periodo
1.1) In primo luogo, è necessario diffondere all’esterno tutte le informazioni disponibili sul lavoro dei docenti – e soprattutto sulla loro produzione scientifica, per un elementare obbligo di correttezza nei confronti dei contribuenti che pagano l’università ma anche a tutela dei moltissimi docenti produttivi. A tal fine, basterebbe rendere pubblicamente consultabili le informazioni (elenco delle pubblicazioni e delle attività scientifiche) già presenti sul sito ufficiale di ciascun docente, aggiungendo i risultati della Valutazione della qualità della ricerca quando saranno disponibili.
1.2) Riteniamo la valutazione dell’attività scientifica uno strumento assolutamente indispensabile per la politica universitaria. Solo con una valutazione corretta ed efficace è possibile premiare le università, i dipartimenti ed i docenti virtuosi. È necessario avviare un processo di valutazione anche per la didattica, basata su una combinazione di indicatori oggettivi (p.es. successo degli studenti nel trovare lavoro dopo la laurea, con opportune ponderazioni per tener conto delle possibilità offerte dalle singole regioni) e valutazione degli studenti.
1.3) Proponiamo di ridurre drasticamente gli stipendi dei docenti che svolgono una libera professione (medici, avvocati etc.). Il taglio dovrebbe essere in teoria proporzionale al tempo che la libera professione sottrae all’attività universitaria. Un taglio del 30% potrebbe ridurre la spesa complessiva per stipendi per un importo fino al 10% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Tali risorse potrebbero essere utilizzate per il reclutamento di nuovi docenti e per il finanziamento della ricerca.
1.4) Riteniamo necessario incentivare le università a usare i fondi disponibili per reclutare nuovi docenti (ricercatori a tempo determinato) piuttosto che per promuovere quelli già in servizio. A tal fine si potrebbe differenziare la percentuale riutilizzabile per il reclutamento dei fondi resi disponibili dai pensionamenti dei docenti in servizio. La spending review stabilisce un massimo del 20% fino al 2014 (un docente assunto ogni cinque pensionati) fino al 2014, aumentato al 50% nel 2015. Si potrebbe mantenere tale scansione per le promozioni interne ed aumentare le percentuali (p.es. al 50% subito ed al 100% dal 2014) per le assunzioni di ricercatori a TD
1.5) È necessario aumentare il finanziamento alla ricerca di base. Attualmente i Programmi di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) ricevono solo 120-130 milioni di euro, meno del 2% del totale delle risorse per l’università. Aumentando tale percentuale al 5% si potrebbero quasi triplicare i fondi per ricerca. Contemporaneamente, sarebbe necessario spingere il Consiglio Nazionale dei garanti della ricerca, istituito dalla legge Gelmini e nominato nel 2012 ad adottare procedure di distribuzione dei fondi quanto più vicine agli standard internazionali e più trasparenti possibile.
1.6) È assolutamente necessario rivedere le procedure di accreditamento delle università private e telematiche. Le procedure attuali sono integralmente gestite dal ministero e sono tutt’altro che trasparenti. Si propone di istituire una commissione di esperti non ministeriali e stabilire dei requisiti minimi per il numero e la qualificazione dei docenti. Sarebbe inoltre opportuno stabilire dei risultati minimi (in termini di qualità della ricerca e della didattica) per le università private e telematiche che volessero utilizzare finanziamenti statali, dopo un adeguato periodo di prova.
1.7) Infine è opportuno rendere pubbliche le opportunità di lavoro. A tal fine, le università dovrebbero comunicare al Ministero tutti i bandi di concorso, per qualsiasi tipologia di contratto. Il ministero dovrebbe pubblicarli in una apposita sezione del suo sito. Si dovrebbero uniformare le procedure per le domande, riducendo al minimo gli obblighi di documentazione per i concorrenti[5].
Medio periodo (due-tre anni)
Didattica
Proponiamo di
2.1) Stabilire un numero massimo di studenti per corso di laurea, per permettere una programmazione del numero massimo di studenti per corso di laurea e quindi mantenere un rapporto equilibrato docenti/studenti. Tale massimo dovrebbe essere ottenuto attraverso test di ammissione che dovrebbero essere generalizzati per tutti i corsi di laurea. Le università saranno libere di scegliere la procedura di test, sia singolarmente, sia con pool fra più sedi.
2.2) Lasciare alle singole università autonomia nella sperimentazione della struttura dei corsi ed eventualmente della istituzione di nuovi diplomi, salvo i limiti imposti dal reciproco riconoscimento all’interno dell’Unione Europea
2.3) Centralizzare l’esame di stato per l’accesso alle professioni, con forme di valutazione molto selettive, possibilmente a numero chiuso. Tale misura dovrebbe essere però applicata ad un numero ridotto di professioni di maggior impatto sociale (p.es. medicina)
Finanziamento
2.4) Aumentare la percentuale del finanziamento pubblico (FFO) distribuito ai singoli atenei sulla base dei risultati della VQR ed eventualmente della valutazione della didattica. La legge Gelmini stabilisce un massimo del 10%. Si propone di aumentare progressivamente (p.es. in cinque anni) tale percentuale almeno al 30%.
2.5) Lasciare maggiore autonomia alle università nella gestione dei fondi statali. In particolare, si propone di autorizzare le università la possibilità di concedere premi ed incentivi monetari ai docenti, per una percentuale fissa (e crescente nel tempo) del monte-stipendi tabellare (p.es. 10% nel primo anno, 15% nel secondo etc.) . Tali premi dovranno essere concessi a seguito di attività specifiche e documentabili (p.es. produzione scientifica, attività amministrativa, corsi). Questo provvedimento ha un duplice scopo – preparare la liberalizzazione degli stipendi con un test del comportamento delle università e compensare i docenti strutturati più produttivi per la riduzione delle prospettive di carriera (cf. 1.4)
2.6) Liberalizzare totalmente le tasse universitarie, con l’obbligo di destinare una percentuale minima (e consistente – p.es. il 20%) del gettito a borse di studio per studenti da famiglie a basso reddito e meritevoli. Offrire a tutti gli studenti la possibilità di accendere prestiti sull’onore. Le università saranno incentivate ad aumentare la quota di risorse proprie (tasse, introiti da fondi privati e/o da endowment), fino a raggiungere, in cinque-sei anni, un importo almeno pari al FFO. La crescita delle risorse proprie permetterebbe di ridurre i trasferimenti diretti alle università e quindi di trasferire risorse al finanziamento alla ricerca. Sarebbe anche possibile aumentare i fondi per il diritto allo studio – in particolare per coprire i mancati rimborsi dei prestiti di studio da parte di i laureati che non raggiungessero i minimi di reddito.
2.7) Possibilità di trasferire le competenze delle università alle regioni in cambio di una corrispondente trasferimento di gettito fiscale, sul modello dell’università di Trento
Reclutamento
2.6) Ridefinire alla luce dei risultati dell’abilitazione nazionale le procedure della legge Gelmini – in particolare la scelta dei commissari, la loro durata in carica, la struttura dei settori concorsuali. Si precisa che noi consideriamo tali procedure, per quanto un indubbio progresso rispetto alla tradizione della commissione italiana, una soluzione provvisoria da superare in un orizzonte di medio-lungo periodo (cf. punto 3.2).
Lungo periodo (cinque anni e più)
Proponiamo di:
3.1) Liberalizzare gli stipendi dei docenti. Si propone di ridurre gradualmente lo stipendio tabellare fino ad un livello non superiore allo stipendio di un professore di scuola media superiore di equivalente anzianità (proporzionalmente ridotto per i professori a tempo parziale secondo il punto 1.3). Tale stipendio corrisponderebbe all’obbligo di fornire numero di ore minimo di insegnamento ed a partecipare alle riunioni degli organi collegiali, con libertà di esercitare la professione e/o attività economiche esterne. Ciascuna università sarebbe poi libera di stipulare con i singoli docenti contratti integrativi, generici (per l’insieme dell’attività) o specifici (indicando la remunerazione prevista per determinati risultati scientifici, o compiti amministrativi e didattici), indicando se necessario vincoli all’esercizi delle libere professioni. La durata del contratto sarà stabilita di comune accordo fra l’università ed il docente e potrà al massimo coincidere con la cessazione dal servizio per raggiunti limiti di età. Ciascuna università potrà adottare le procedure che ritiene più opportune per la formulazione delle proposte di contratto da sottoporre ai docenti (p.es. il Consiglio di Amministrazione su proposta del dipartimento, oppure un comitato di esperti indipendente). Il nuovo regime potrebbe essere applicato gradualmente, iniziando dai docenti nuovi assunti, ed essere esteso a tutti i docenti in servizio entro un tempo massimo, per esempio di dieci anni. Contestualmente, si dovrebbero studiare, nei limiti delle compatibilità finanziarie, misure per il prepensionamento agevolato dei docenti più anziani, che non volessero accedere al nuovo regime.
3.2) Liberalizzare le procedure di reclutamento, abolendo la distinzione per fasce. La selezione sarà effettuata da una commissione interna all’università, integrata se necessario da esperti esterni. Il possesso di un dottorato di ricerca o titolo equivalente sarà requisito indispensabile per l’assunzione di studiosi non in servizio presso università italiane (o straniere), salvo casi eccezionali e motivati di comprovata abilità professionale. Di regola, i contratti iniziali per i docenti a tempo pieno, i contratti dovranno avere una durata limitata (dai 6 ai 9 anni). Potranno essere prolungati a tempo indeterminato a seguito di giudizio del dipartimento controfirmato dal rettore sulla base di pareri di autorevoli esperti esterni. Le università saranno inoltre libere di stipulare contratti per tipologie diverse di impegno didattico e scientifico (p.es. per specifici corsi), che non prevedano stabilizzazione nei ruoli dello stato.
3.3) Aumentare la libertà dei singoli atenei di scegliere la governance e le forme organizzative preferite. La riforma Gelmini ha avviato un complesso processo di stesura di nuovi statuti e di totale riorganizzazione, limitando in maniera molto rigida la libertà di scelta degli atenei in materia di organi di governo e di organizzazione interna (p.es. con limiti minimi alle dimensioni dei dipartimenti). Il processo è ancora in atto e sembra opportuno lasciare qualche anno di sperimentazione prima di mettere mano alla materia.
3.4) Abolire il valore legale del titolo di studio, facendo attenzione che Il trasferimento agli ordini professionali dell’onere di certificazione non si traduca in restrizioni alla concorrenza nei rispettivi ambiti. È importante sottolineare come l’abolizione deve essere il punto di arrivo del processo di riforma piuttosto che un rimedio taumaturgico.
Note
[1] Si veda, per esempio, Andrea Moro “L’Italia produce poca ricerca. In tutti I settori”, noisefromamerika.org, 22/5/2012, e Alberto Bisin "L'universita' italiana produce poca ricerca. Risposta a De Nicolao", noisefromamerika.org, 6/5/2012.
[3]La differenza fra I redditi netti percepiti nel 2010 fra persone con e senza diploma di laurea percettori di reddito è di circa otto mila euro (fonte: nostra elaborazione dati Istat). La probabilità di essere impiegati è inoltre più alta se si possiede una laurea.
[5] Per evitare l’introduzione di clausole vessatorie, come l’obbligo di consegnare la domanda a mano, introdotta in un famoso concorso all’Università di Roma 3 (si veda Michele Boldrin, Concorsi manipolati: il caso di Roma 3, noisefromamerika.org 25/1/2010)
Parliamo di tasse universitarie. Nell'incipit del suo articolo, che avete linkato, Andrea Moro afferma questo (grassetto mio):
Se tale affermazione fosse vera, avrebbe molto senso il vostro proposito di aumentare le tasse universitarie per gli studenti, evitando un "sovraccarico" sulla fiscalità generale.
Purtroppo, è falsa. Facciamo un confronto internazionale per dimostrarlo.
Questo grafico è tratto da Education at a Glance 2012 dell'OCSE.
Sull'asse X è rappresentata la percentuale di studenti che beneficia di forme di supporto al diritto allo studio, e possiamo vedere che l'Italia si colloca nella parte sinistra, sotto il 25%. Teniamo per un attimo da parte questo dato.
La collocazione dell'Italia sull'asse Y (tasse universitarie pagate in media per le università pubbliche) smentisce clamorosamente la conclusione di Moro.
Siamo terzi in Europa per tasse universitarie: ci superano solo UK e Paesi Bassi. La nostra tassazione universitaria non è patologicamente bassa: gli studenti di molti altri Paesi europei pagano ancora di meno dei nostri. Alcuni punti si collocano proprio sull'asse X: lì sì che l'università è gratis!
Visto che gli studenti italiani già pagano l'università molto di più della maggior parte dei loro colleghi europei, perché aumentare ancora la tassazione universitaria, vista anche la scarsa percentuale di studenti che usufruiscono di borse di studio?
la useremo, grazie