Quando mi è stato chiesto di mettere per iscritto le mie opinioni, in quanto economista, sul tema a cui il titolo di questo articolo si riferisce ho chiesto, senza alcuna intenzione d'apparire faceto, di cosa si trattasse. Leggendo qui e lì e chiedendo in giro ho poi scoperto che ci si riferisce con questo termine a quella serie di proposizioni e precetti note altrimenti come Soziale Marktwirtschaft. Un'invenzione fondamentalmente tedesca e che conoscevo sotto il nome di Ordoliberalismo e alla quale associavo la rivista ORDO, ossia la Jahrbuch für die Ordnung von Wirtschaft und Gesellschaft (Annali dei Sistemi Economici e Sociali ) fondata, appunto, in Germania da Walter Eucken e Franz Böhm nel 1948. Fatta questa scoperta mi son detto che, in effetti, ho delle opinioni sull’argomento. Sono abbastanza precise e possono essere sinteticamente esposte con un epiteto anglosassone che, mi dicono, circola ora anche in Italia: bullshit.
Bullshit, e mi spiego. Cercherò di fare due cose in questo articolo. 1.Descrivere in poche parole l’idea teorica che sta dietro alla EsdM, evidenziando che la contrapposizione teorica fra ESdM e liberalismo “classico” o laissez-faire è spuria e retorica, nel senso che voler contrapporre una “teoria” all’altra sulla base dell’idea, falsa, che una vuole un mercato regolato mentre l’altra lo vorrebbe sregolato, è esercizio pernicioso che nasconde altre intenzioni. 2. Evidenziare che la forma concreta in cui la ESdM viene oggi proposta in Italia suggerisce che le “altre intenzioni” sono semplici da riconoscersi: la classe politica desidera utilizzare la foglia di fico offerta dalla “S” in ESdM per accaparrare maggior potere per sé e per quei gruppi economico-sociali che le sono maggiormente vicini a discapito - come potrebbe essere altrimenti? – del resto dei cittadini.
Qual è il principio di fondo dell'Ordoliberalismo? È abbastanza semplice. Il principio di fondo è che i "mercati perfettamente liberi" non esistono e che, le rare volte che i mercati si auto-organizzano danno luogo a strutture fragili ed esposte a molti rischi, primo fra tutti la manipolazione da parte d'alcuni dei partecipanti, la concentrazione del potere nelle mani di pochi (ossia, il passaggio da concorrenza a monopolio o oligopolio), la creazione di cartelli e sindacati d'un tipo o dell'altro, l'acquisizione di posizioni di "rendita", e così via. Insomma: lasciati completamente a se stessi i "mercati" tendono a degenerare e a perdere la capacità di essere quello strumento di benessere sociale e di progresso economico che altrimenti sono. Questa posizione teorica - apparentemente, ma a mio avviso non realmente - contrasta con una visione che molti classificano come liberalismo laissez-faire o liberalismo classico, secondo cui i mercati si auto-organizzano e gli individui lasciati completamente a se stessi, con al più l'ausilio d'uno stato minimo, riescono a fare benissimo i propri interessi.
La distinzione è francamente di lana caprina DOC. Anche nella posizione che viene chiamata "classica", pur riconoscendo che i mercati possano sorgere spontaneamente e auto-oganizzarsi, è chiaro che essi danno poi luogo a istituzioni, norme, e pratiche socialmente accettate e frequentemente codificate in leggi e regolamenti. La distinzione, dunque teoricamente, viene a sparire: i mercati puri, che vivono da soli senza che nessuna entità "esterna" li organizzi e controlli, non esistono se non per puro e scarsamente duraturo, caso. Stabilito questo fatto ne segue che i mercati occorre organizzarli "dal di fuori" e che le "istituzioni" (intese sia come apparati dello stato che come gruppi sociali organizzati, ma anche come norme socialmente condivise e regole abitudinarie di transazione) devono giocare un ruolo cruciale nel mantenere viva l'economia di mercato e nel far sì che il suo operare s'avvicini il più possibile all'ideale teorico dei mercati concorrenziali. Insomma: perché i mercati e la concorrenza funzionino occorre organizzare e regolare i primi e proteggere la seconda.
Arriviamo qui a un punto chiave dell'intera discussione: quella cosa che in queste diatribe un po' troppo astratte si chiama "stato" o quell'altra che viene detta "società", in che consistono e di che cosa son fatte? Mi spiego: i mercati sono composti da agglomerati di individui, organizzati più o meno formalmente in aziende, imprese, associazioni, cooperative. Questi individui perseguono il proprio benessere. Lo stato, non quello astratto ma quello che sta a Roma, ad Ancona, Napoli o Milano, è anch’esso composto dello stesso materiale: individui che, avendo scelto una certa professione, cercano di ricavare dalla medesima quanti più benefici possibile. Il regolatore statale, insomma, non è né meglio né peggio dell’agente privato. Entrambi perseguono obiettivi egoistici di massimizzazione dei propri interessi. In un caso e nell’altro la chiave del problema consiste nel disegnare e mantenere in piedi delle “istituzioni” che garantiscano e ripristino la concorrenza e la contestabilità, sempre e comunque. Il problema non è, quindi, statisti versus mercatisti, ma concorrenza versus monopolio, nell’ambito economico come in quello politico. Se la questione si pone in questa luce, allora si scopre che l’insistenza sulla lettera ‘S’ in contrapposizione alla ‘M’ è, molto spesso, puro trucco retorico per aggirare il pubblico facendo esso credere che quanto si compie per favorire interessi particolari e ben definiti sia, invece, nell’interesse di tutti. Mario Monti, sostenitore (in tempi non sospetti) di un'applicazione al caso italiano dei principi base dell'ESdM, dichiarava qualche anno fa in un'intervista al Sole 24 ore (accesso a pagamento, ma ripresa anche qui):
Quando promuovevo in Italia l'economia sociale di mercato negli anni 80, e mi chiedevo perché Ludwig Erhard avesse avuto successo in Germania con gli stessi principi che invece Luigi Einaudi non era riuscito a far prevalere in Italia, andare verso l'economia sociale di mercato era per l'Italia una sfida. Quel modello di stampo tedesco stava diventando – [...] - la costituzione economica europea. Includeva aspetti antitetici al pensiero e alla prassi dell'Italia di allora: stabilità monetaria, banca centrale indipendente, disciplina di bilancio, mercato aperto e concorrenziale. Certo, c'era anche il "sociale", ma perseguito ordinatamente, con un sistema fiscale redistributivo; non disordinatamente, con prezzi politici e altre interferenze dello Stato nel mercato. Per l'Italia, andare verso l'economia sociale di mercato voleva dire andare verso la disciplina e verso l'Europa. Questo fondamentale processo, lentamente, ebbe luogo. Oggi, il richiamo all'economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l'impressione di essere pronunciato con un'ispirazione opposta. Si è un po' insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si "rivendica", in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (ecco un'altra "conseguenza economica del Signor Bush"), la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica.
Difficile dissentire, se non per due affermazioni che sono probabilmente sfuggite all'altrimenti cauto Mario Monti. Infatti, credo anzitutto che vi sia da dubitare (anche alla luce delle recenti calamità in cui molte banche nord-europee, tedesche in particolare, sono riuscite ad infilarsi) che le regole classiche dell'Ordoliberalismo siano davvero riuscite a diventare la "costituzione economica europea". Ma tralasciamo questa affermazione che richiederebbe una trattazione propria conducendoci inevitabilmente fuori tema. Facciamo invece attenzione al punto in cui Monti suggerisce che tale insieme di regole sia stato accettato in Italia; accettazione che, io ritengo, non abbia invece avuto luogo. È vero, attraverso una serie di provvedimenti d'emergenza, salassi fiscali e rocambolesche modificazioni dei criteri d’ammissione, l'Italia è entrata nell'Euro e la sua politica monetaria viene oggi decisa, graziaddio, a Francoforte. Punto, e basta. Le liberalizzazioni, invece, non ci sono state: ci sono state delle (scarsissime) privatizzazioni, che sono un'altra cosa e che sono consistite (fatte salve pochissime eccezioni) nella trasformazione di monopoli pubblici in monopoli privati. I mercati chiave dell'economia italiana (bancario, assicurativo, dei trasporti, delle telecomunicazioni, della televisione, dei servizi professionali, ...) non sono né competitivi né liberalizzati. Sono "socialmente" regolati e manipolati dall'intervento dello stato e di una miriade di gruppi d’interesse e sindacati, Alitalia docet. L’idea che lo stato debba intervenire e regolare i fenomeni economici implica da sempre, in Italia, significati e azioni contrari al mercato concorrenziale. Implica sempre molto poco mercato e anche molto poco sociale, mentre implica molto stato o, meglio, gruppi d’interesse nel medesimo annidati. La particolare forma di ESdM introdotta in Italia a partire dagli anni '50, è andata radicandosi ed estendendosi sempre di più, degenerando progressivamente nelle forme di consociativismo, pan-sindacalismo e compenetrazione intima fra monopoli privati e potere politico, di cui il resto del paese è vittima.
L’ESdM in Italia c’è già, è quello che da cinquant’anni abbiamo ed ha prodotto i risultati sotto gli occhi di tutti. È plateale che abbia fatto danno al paese e che vada riformata e probabilmente rivoluzionata. Insistere sulla lettera S invece che sulla lettera M è solo un trucco retorico per mantenere lo status quo e, se possibile, peggiorarlo come i provvedimenti di tutti i recenti governi (quello presieduto da Mario Monti incluso) provano. Ecco a cosa servono, concretamente, le fanfare ideologiche che oggi ascoltiamo suonare, dalla Vetta d’Italia all’isola di Pantelleria, in supporto all’economia sociale di mercato. Ed ecco perché la cosidetta "Agenda Monti", che a tale ideologia e pratica esplicitamente si ispira, è dannosa per il paese: perché intende mantenerlo sul sentiero del declino in cui la versione italiana dell'ESdM l'ha avviato da tempo, pur dichiarando retoricamente che vuole cambiare tutto. Ma siccome non dice come e che cosa intenda concretamente cambiare tutto fa ritenere che si tratti del solito gattopardismo che, come ben sappiamo, non intende cambiare niente.
Considerazione: i modelli , come modelli, tendono a tagliare e a semplificare.
Io nel modello ci aggiungerei i parametri: ricerca della legalità e contrasto alla criminalità economica. Anche l'ndrangheta ha un modello economico e persegue i suoi interessi. Diciamo che persegue il monopolio e "non gradisce" (sparandola) la concorrenza?
Siamo fermi ai "clientes" dell'impero Romano, siamo passati attraverso i vassalli-valvassori, le partecipazioni statali ieri e le consulenze Finmeccanica-Tarantini.
Siamo a fine impero Romano, 300-500 d.c. Il disfacimento dei confini dell'impero, la crisi economica, la rete dei trasporti in sofferenza (pessima manutenzione), l'amministrazione imperiale in sofferenza, rendono i commerci campagna-città sempre piu' precari. Le città (i servizi e l'artigianato) soffrono, la campagna cerca l'autosufficienza non riuscendo a vendere i suoi prodotti in maniera sicura (i briganti si arrobbano le merci sulle strade). LA crisi del commercio fa aumentare le tasse per mantenere l'esercito. Inflazione, sempre piu' povertà, disfacimento delle reti commerciali. Alla fine i barbari sfondano al Nord al sud an centro. Le città si svuotano, le campagne si riorganizzano nelle "curtis". nascono i primi "signori" che a partire dal potere economico agricolo esercitano (in sostituzione alla disgregata amministrazione pubblica romana) il potere politico. Frotte di persone dalla città si trasferiscono in campagna pre cercare protezione dal signorotto (che si puo' permettere un manipolo di armati) cedendo la loro libertà. (ref. Il libro di storia di mio figlio, 1a media).