La vicenda di Torino, stando alle cronache, è presto riassunta.
Nel 1997 una bambina di soli sette anni viene trovata per strada in condizioni drammatiche, conseguenti ad uno stupro. Risulterà poi anche colpita da malattie sessualmente trasmesse. Dopo un iter processuale di primo grado durato dieci anni, il convivente della madre viene condannato dal Tribunale di Alessandria a dodici anni di reclusione. L’imputato impugna la sentenza e il fascicolo rimane fermo per altri nove anni in appello. Quando viene fissata l’udienza di discussione, il reato si è estinto per il decorso dei termini di prescrizione e la Presidente del collegio, a quanto narrano le cronache, chiede “scusa al Popolo italiano”. Il ministro invia gli ispettori, il procuratore generale di Torino dice che è colpa del sistema perché dà troppe possibilità di appellare, mentre vi sono gli autorevoli giornalisti nostrani che chiedono sostanzialmente di abolire l’istituto.
Nel frattempo, il Governo ha posto la fiducia su di un disegno di legge che, di fatto, non fa altro che prolungare i termini di prescrizione. Esso non interviene seriamente e profondamente sui mali del sistema, anzi li aggrava. Anche questo, tuttavia, non piace alle camere penali, le quali hanno indetto l’ennesimo sciopero della durata di un’intera settimana, sciopero che nessuno si fila e che porterà a prescrizione certa qualche reato in più.
Insomma, il solito teatrino italico.
La vicenda di Torino, in tutta la sua drammaticità, squarcia il velo sulle condizioni della giustizia in Italia, che a loro volta si riverberano sulla competitività del Paese in generale. Cominciamo dai magistrati. Il tentativo di difesa del Procuratore generale di Torino non è accettabile. Uno stupro di quel genere non può essere trattato al pari del furto di una mela in un supermercato. Da sempre è previsto che i fascicoli a rischio di prescrizione debbano avere una corsia preferenziale rispetto agli altri procedimenti. Oltretutto, le circolari del CSM consentono di dare la precedenza a reati più gravi rispetto a quelli che suscitano minore allarme sociale. Quel reato si è prescritto semplicemente per disorganizzazione della corte d’appello di Torino. Punto. La stessa ANM ha diffuso un comunicato in cui stigmatizza la vicenda
E veniamo ai nostri opinion maker. La soluzione, secondo loro ma anche secondo gran parte della magistratura, sarebbe quella di abolire l’istituto della prescrizione, magari a seconda della tipologia dei reati. Oppure, come proposto dalla magistratura, di “sospendere” e quindi di sterilizzare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Partendo dal caso concreto, apparentemente, impedire che reati così gravi possano prescriversi soddisfa il palato forcaiolo della ggente. Senonchè, guardando la vicenda con un occhio più tecnico, sorge qualche dubbio. Stando all’articolo di stampa, le prove apparentemente erano schiaccianti. Come è possibile che una persona così pericolosa non abbia subito nessuna misura cautelare? Solitamente a una persona accusata di questi reati viene applicata la custodia in carcere, con grande approvazione della ggente, ed il processo passa per una corsia preferenziale. E ancora, se le prove erano così schiaccianti ed evidenti, come mai l’imputato non ha scelto la via del rito alternativo che avrebbe consistito di ottenere un sostanzioso sconto di pena (da dodici anni inflitti a esito del dibattimento a otto anni con giudizio abbreviato)? Di certo non poteva prevedere, al momento della scelta del rito, che i magistrati di Torino si sarebbero fatti prescrivere il fascicolo sul tavolo. Vuoi vedere che il tizio in questione, magari, era pure innocente?
Ma supponiamo che fosse colpevole come Giuda. L’istituto della prescrizione ha lo scopo di adattare il fatto al passare del tempo. Difatti, a distanza di tanti anni dal reato, si attenua l’allarme sociale così come la richiesta di punizione da parte di eventuali vittime. Ne è una riprova proprio il caso di Torino dove la ragazza, ormai adulta, dice di volere semplicemente dimenticare. Ma soprattutto mira anche a garantire l’imputato che, a distanza di tanti anni dal fatto, può essere cambiato completamente. Il caso in questione è semplicemente emblematico anche sotto questo profilo. Supponiamo che l’imputato avesse avuto venti anni al momento del fatto. Adesso ne avrebbe quaranta: nella stragrande maggioranza dei casi una persona diversa. Potrebbe essere uscito dal degrado sociale che traspare dalla vicenda, essersi trovato un onesto lavoro, un’altra donna con la quale ha fatto dei figli che adesso sarebbero in procinto di diventare maggiorenni, pagare un mutuo. Può una persona, per quanto si sia macchiata di un reato come quello contestato, aspettare più di venti anni (non dimentichiamoci che il processo pendeva appena in appello, c’era la possibilità di ricorrere in Cassazione con il rischio che questa annullasse la sentenza e il fascicolo tornasse in appello: una storia semplicemente infinita) per conoscere il proprio destino?
Chi scrive condivideva la richiesta della magistratura di sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ma questa vicenda dimostra in maniera inequivocabile come tale richiesta sia infondata e pericolosa. Un imputato rischia di essere ostaggio della giustizia italiana per tutta la sua vita. Una prospettiva semplicemente spaventosa. La materializzazione degli incubi di Kafka.
Questa è una prima lezione che dobbiamo trarre dalla vicenda. Ciò non significa affatto che il sistema, così come è concepito in Italia sia giusto. Tutt’altro. Come spiegato nell’articolo del 2014, esso è profondamente ingiusto e classista. A prescriversi sono prevalentemente i reati commessi dai colletti bianchi (corruzioni, reati fiscali, truffe complesse, violazioni edilizie e paesaggistiche e via discorrendo) nonché, in generale, di coloro che hanno i mezzi finanziari per sostenere costosissimi dibattimenti.
Il nuovo meccanismo approvato in Senato, salvo sorprese, considerati i numeri della Camera, dovrebbe essere definitivamente ratificato anche dall’altro ramo del Parlamento. A quanto ci risulta, dovrebbe prevedere, un allungamento dei termini di prescrizione, correlati alla durata del processo
Viene prevista una sospensione della prescrizione per 18 mesi dopo il primo grado e per ulteriori 18 mesi dopo il secondo. In soldoni, se i giudici di primo grado riescono a concludere il processo entro il termine di prescrizione, questo si allunga di ulteriori tre anni. Il nuovo meccanismo non piace agli avvocati che hanno proclamato l’ennesima astensione per una settimana dalle udienze, emettendo un comunicato contenente dei passaggi semplicemente farneticanti, tipo questo:
Che è necessario, infine, svelare l’uso della prescrizione come un sapiente strumento attraverso il quale la magistratura esercita un potere incondizionato sul processo, facendo quotidianamente della prescrizione un uso surrettizio e strumentale, esercitando di fatto una incontrollata ed arbitraria discrezionalità dell’azione penale.
Del resto i nostri penalisti sono ossessionati dalla separazione delle carriere, problema che, nell’Europa civile, nessuno sente. Manco a dirlo, non sono contenti nemmeno i magistrati che vorrebbero una sospensione sine die, a seguito della sentenza di condanna in primo grado. In definitiva, ritornando a Torino, è chiaro che questa ulteriore “epocale” riforma non mette mano ai problemi sostanziali, ma si limita semplicemente a prolungare l’agonia dell’italica giustizia. Dunque è, o meglio, sarebbe necessario mettere mano al sistema. Una seria riforma della prescrizione presuppone, una riorganizzazione generale della giustizia, compresa una profonda rivisitazione del nostro meccanismo processuale.
Come abbiamo più volte spiegato, nel 1988 il nostro codice di procedura è stato modificato sulla falsariga di quello americano. Si tratta del cosiddetto “processo accusatorio”, in cui la prova si forma in un dibattimento complesso caratterizzato dal principio dell’oralità, con audizione e controesame dei testimoni proposti dalle parti. Il presupposto affinchè questo sistema funzionasse, era che esso si celebrasse con le modalità descritte solamente in un ridottissimo numero di casi: non più del 20%. Il rimanente 80% doveva passare per i cosiddetti "riti alternativi", ovvero patteggiamento o abbreviato. Ciò non ha funzionato. Vi sono addirittura distretti di corti d’appello in cui il rapporto è esattamente l’inverso: 80% di dibattimenti a fronte di 20% di riti alternativi. Il mix tra la disorganizzazione della giustizia, il nostro processo penale e l’istituto della prescrizione all’italiana crea un circolo assolutamente vizioso, per cui di fronte a una ragionevole probabilità di ottenere la prescrizione si celebrano più dibattimenti del necessario. Il che, a sua volta, alimenta ulteriormente l’aspettativa di prescrizione e via discorrendo. Chiunque volesse seriamente affrontare il problema dovrebbe chiedersi come mai il presupposto teorico del nostro processo non si è realizzato.
Non lo fa assolutamente nessuno.
Non la magistratura, non gli avvocati, non l’accademia ed ancor meno la politica. Nel nostro provincialismo, avvocati ed accademia pensano di avere il processo più bello del mondo, mentre i magistrati sono fermi alla costituzione più bella del mondo. Eppure basterebbe volgere il proprio sguardo all’estero, dove, guarda caso, la giustizia funziona.
Prendiamo il sistema che abbiamo così scioccamente scimmiottato: quello americano. Al di là di due fondamentali elementi di differenza, costituiti dal fatto che in USA non vi è l’esercizio obbligatorio dell’azione penale e la pena è effettiva e non virtuale come quasi sempre avviene in Italia, nell’imitazione ci siamo fermati al primo grado, senza considerare le fasi successive. Negli USA non esiste l’appello nel merito.
Analogamente anche nel continente europeo, Germania ed Austria hanno previsto che la prova si formi solo nel processo, nel contraddittorio delle parti. Ciò implica che il giudice veda il testimone per valutarne la credibilità. Coerentemente, Italia, Germania e Austria prevedono che, se cambia il Giudice, il testimone deve essere sentito nuovamente; quanto meno se in tal senso vi è una richiesta di parte. L’ulteriore conseguenza logica è, o dovrebbe essere, la seguente: un giudice che non ha visto i testimoni non può giudicare nel merito sulla vicenda. Coerentemente, gli USA, la Germania[1] e l’Austria non prevedono la possibilità di un appello nel merito.
E gli italiani? Come al solito sono più intelligenti degli altri. Dopo aver introdotto il sistema all’americana in primo grado, hanno conservato l’istituto dell’appello, tipico di un meccanismo processuale inquisitorio (in cui la prova si forma, in parte, fuori dal processo). E così, in Italia, si possono appellare tutte le sentenze dalla condanna per una guida in stato di ebbrezza a quella per un omicidio e la Corte d’appello può ribaltare una sentenza di primo grado svoltasi con rito accusatorio nel merito senza aver mai visto un solo testimone. La botte piena e la moglie ubriaca.
In definitiva e come solito, la lezione che possiamo trarre dalla vicenda è che il meccanismo della prescrizione all’italiana ed in generale il malfunzionamento del sistema sono dovuti a ottusità ideologiche, provincialismo, interessi corporativi, superficialità e disinteresse verso il funzionamento della pubblica amministrazione.
In fondo, nulla di nuovo sotto l’italico sole.
[1] Per la precisione, in Germania è previsto un appello nel merito contro sentenze emesse dagli Amtsgerichte, giudici monocratici corrispondenti più o meno alle nostre vecchie preture. In tal caso, il giudice d’appello deve risentire nuovamente i testimoni. Un meccanismo altrettanto demenziale, ma, almeno coerente sotto il profilo logico.
Interessante, ma appena finito di leggere ho capito che era stato scritto da un magistrato.
Infatti, non sfiora neanche il problema della resposnabilità dei magistrati, né delle connesse enormi ingiustizie che vengono commesse da questi nelle sentenze di primo grado, né quelle commesse dai PM durante il procedimento penale.
La responsabilità del magistrato, inserito nell'habeas corpus inglese del 1689 o giù di lì a seguito della "gloriosa rivoluzione", è uno degli elementi che ha regalato al cittadino inglese la fiducia nel suo sistema giudiziario da 3 secoli e mezzo.