Perché si dicono tante sciocchezze nel dibattito economico in Italia

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Dove cerco di eviscerare il modello economico che sta alla base della miriade di baggianate che si odono con allucinante frequenza nel dibattito economico italiano.

La leggerezza e l'ignoranza con cui tanti temi di politica economica sono discussi in Italia dai media e dai policy makers è assolutamente sorprendente. Molto spesso si tratta semplicemente di una quasi congenita incapacità a raccogliere i dati rilevanti e organizzarli in modo minimamente coerente. Andrea ha discusso un esempio recente sui mutui; un altro esempio è l'ossessiva ripetitività con cui i media italiani riportano periodicamente in modo allarmato il 'calo occupazionale nella grande industria', apparentemente senza accorgersi che è da un bel pezzo che l'occupazione si crea altrove.

Ma c'è qualcosa di più, un difetto che possiamo chiamare di natura squisitamente teorica. Agli economisti piace molto citare questo pezzo di Keynes, tratto dalla Teoria Generale:

 

The ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood. Indeed the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of some defunct economist. Madmen in authority, who hear voices in the air, are distilling their frenzy from some academic scribbler of a few years back.

[Traduzione. Le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Governanti senza giudizio che ascoltano voci nell´aria, stanno in realtà distillando i loro deliri da qualche scribacchino del passato].

 

La ragione principale per cui tale pezzo ci piace tanto (a parte, naturalmente, il fatto che siamo ridicolmente vanitosi) è che su questo punto Keynes ha sostanzialmente ragione. Nessuno, per quanto si professi scevro da influenze ideali e guidato esclusivamente dalla pratica, può veramente ragionare su materie di una certa complessità senza uno schema concettuale.

I molti ragionamenti curiosi che vengono continuamente proposti, e che c'entrano con l'economia moderna come il cavolo a merenda, sono dunque frutto di una qualche modello teorico. Michele si è recentemente lamentato delle spiegazioni bizzarre che vengono continuamente offerte per spiegare i persistentemente bassi salari italiani, ma questa è lungi dall'essere l'unica area in cui le corbellerie abbondano. Per capire il fenomeno non basta quindi lamentare genericamente l'ignoranza dei più. Se esiste uno schema concettuale comune che sta alla base di tanti ragionamenti errati è importante individuarlo e capirlo.

Qual è, dunque, tale schema concettuale? Possiamo chiamarlo 'il modello dei bisogni fissi e dei fattori fissi di produzione'. Si tratta, semplificando, di un''interpretazione particolarmente rozza dei modelli di Sraffa e Leontief che per brevità chiamerò in seguito il modello superfisso. Tale modello economico è in auge particolarmente tra sindacati e sinistra radicale, ma è pure assai diffuso anche in altri schieramenti politici cosi come tra pensatori indipendenti alla Beppe Grillo. I suoi elementi di base si possono descrivere come segue.

Primo, i bisogni sono fissi. Uno mangia x etti di pasta in un mese, consuma z paia di scarpe e percorre y chilometri in macchina. Tali bisogni vanno comunque soddisfatti, indipendentemente dai prezzi; il risparmio è una variabile residuale. Una prima conseguenza è che, se i prezzi salgono, i consumi restano gli stessi, indipendentemente dal reddito. Inoltre, il risparmio, essendo residuale, è determinato dall'inflazione.

Non solo il livello assoluto dei prezzi è irrilevante: anche i prezzi relativi (i rapporti fra i prezzi di due beni diversi) lo sono. Infatti, se i bisogni sono fissi, ne discende che esiste una quantità fissa per ciascun bene da produrre. Se il prezzo della pasta scende e quello delle scarpe sale non potrò mettermi la pasta ai piedi: sempre x etti di pasta e z paia di scarpe dovrò consumare.

Secondo, sono fissi anche i metodi di produzione. Per produrre una scarpa ci vuole x cuoio, z macchine e y lavoro. Ne discende che non solo i prezzi relativi dei beni, ma anche i prezzi relativi dei fattori di produzione sono irrilevanti, dato che comunque la stessa combinazione di capitale, lavoro e materie prime va usata in ogni caso. Siccome poi i bisogni, e quindi la quantità di cose da produrre, sono anch'essi fissi, risulta fissa e non dipendente dai prezzi relativi la quantità totale di fattori (in particolare, il lavoro) che viene impiegata in una economia.

Terzo, il mondo non cambia. La gente ha bisogno di mangiare sempre gli stessi quantitativi di pasta, di usare lo stesso numero di scarpe e di percorrere lo stesso numero di chilometri in macchina, anno dopo anno. Tali beni verranno inoltre prodotti allo stesso modo: non esiste progresso tecnologico, se non quello uniforme che, cambiando tutto nella stessa proporzione, non cambia nulla. Non ci sono pertanto rilevanti fluttuazioni nella produzione dei beni di consumo, il ché a sua volta implica che non ci sono rilevanti fluttuazioni nell'occupazione dei fattori di produzione, in particolare il lavoro.

Ho ovviamente sovrasemplificato, nessuno crede veramente che non ci sia progresso tecnico. Ma il punto cruciale è che il modello nega l'esistenza di un importante ruolo allocativo dei prezzi, tanto nelle decisioni di consumo come in quelle di produzione. Una volta eliminato il ruolo allocativo, ai prezzi resta un ruolo meramente redistributivo. Chi, come me, era giovinetto negli anni Settanta ricorderà probabilmente lo slogan sindacale del 'salario come variabile indipendente'. Il riferimento concettuale di tale slogan era esattamente il modello superfisso, per cui un aumento del salario non crea altra conseguenza che un maggiore afflusso di risorse al fattore lavoro. Si noti che questo è diverso dall'affermare che, dal punto di vista empirico, le conseguenze avverse di un aumento dei salari sull'occupazione sono ridotte; questo è un esercizio pienamente legittimo, che è stato al centro per esempio del dibattito sulla 'minimum wage' negli USA. Qui stiamo parlando di una cosa diversa, ossia della negazione totale di un qualunque legame teorico tra il livello del salario reale e l'occupazione.

La mia tesi è che il modello superfisso fornisce una spiegazione semplice e unificata di tanti errori concettuali che vengono continuamente ripetuti, tanto dalla gente comune come dai media e dai politici. Il modello ha infatti le seguenti implicazioni.

1) La tassazione dei redditi e dei consumi non genera alcuna perdita di efficienza, e si concreta semplicemente in un trasferimento della ricchezza da un settore all'altro. Per esempio, un recente provvedimento del governo ha abolito lo 'scalone', un provvedimento equivalente all'abbassamento dell'età pensionabile per un sottogruppo di lavoratori, finanziando parzialmente la maggiore spesa con un aumento dei contributi sociali sui lavoratori atipici. Tale provvedimento è stato particolarmente applaudito da sinistra radicale e sindacati. Come si può con tanta leggerezza, ci si chiede, aumentare il costo del lavoro e rischiare quindi di aumentare la disoccupazione? La risposta è semplice: nel modello superfisso tale rischio semplicemente non esiste, dato che l'impiego del fattore lavoro è fisso.

2) Essendo tutto fisso, ora e per sempre, è anche irrilevante la forma contrattuale che si adotta per l'acquisto dei fattori di produzione. Per produrre 10 tonnellate di pasta l'anno servono, diciamo, due lavoratori. Assumerli a tempo indeterminato o a tempo determinato non fa alcuna differenza, dato che tanto si produrranno 10 tonnellate di pasta l'anno per sempre. Quindi, se d'imperio si trasformano i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, l'unica conseguenza è di carattere distributivo. I lavoratori a tempo indeterminato non possono essere minacciati da licenziamento, hanno maggiore potere contrattuale e quindi spuntano salari più alti. Non esiste alcuna altra conseguenza negativa.

3) Mi è spesso capitato di sentire parenti e amici lamentarsi dell'inflazione 'provocata dall'euro'. Le cifre che si sentivano menzionare e che venivano frequentemente ripetute parlavano di livelli inflazionistici a due cifre, tra il 20% e il 50%. Le cifre erano palesemente assurde, dato che implicavano una diminuzione dei salari reali estremamente drastica; a sua volta una simile drastica riduzione non poteva che avere drammatiche conseguenze macroeconomiche. Ma quando mi azzardavo a chiedere a parenti e amici come la terribile inflazione avesse cambiato le loro abitudini di consumo, ricevevo normalmente solo occhiate incuriosite. A nessuno, apparentemente, veniva in mente che cambiamenti tanto forti nei prezzi dovessero modificare il comportamento individuale di consumo (e, ancora meno, che dovessero avere un effetto macroeconomico di prima grandezza). Un modo di ragionare tipico del modello superfisso.

4) Se il ruolo dei prezzi è principalmente redistributivo, allora le liberalizzazioni e più in generale il modo in cui sono organizzati i mercati non risultano rilevanti per l'efficienza, dato che comunque la stessa quantità di beni viene comprata e venduta. Questo spiega lo scarso entusiasmo a favore delle liberalizzazioni che caratterizza tanta parte dei nostri politici, sia a sinistra che a destra. Per esempio, liberalizzare le licenze di taxi per far scendere i prezzi non genera un aumento di persone che usano il taxi e quindi di occupazione nel settore. La gente va in taxi solo quando ci deve andare, e ci va indipendentemente dal prezzo. Far scendere i prezzi della corsa in taxi serve solo a trasferire reddito dai tassisti ai consumatori dei loro servizi. Essendo questi ultimi persone dal reddito medio abbastanza alto, non pare esservi alcuna buona ragione per liberalizzare il settore. Lo stesso ragionamento ovviamente si applica a molti altri settori.

5) Se si vogliono manipolare i prezzi a fini redistributivi, in un mondo superfisso risulta assai più efficace intervenire mediante la fissazione d'imperio di prezzi e tariffe piuttosto che mediante liberalizzazioni e privatizzazioni. Tale fissazione d'imperio può avvenire o mediante interventi di carattere amministrativo o mediante la proprietà pubblica delle imprese che producono i beni il cui prezzo si intende controllare. In nessuno dei due casi si verificano inefficienze allocative.

6) Dato che la quantità di lavoro è fissa, un modo efficace di ridurre la disoccupazione è quello di mandare in pensione anticipatamente i lavoratori anziani. In tal modo, il loro posto verrà immediatamente occupato dai più giovani. L'incremento della spesa pensionistica non è ovviamente un problema, può essere finanziata senza alcun costo per l'efficienza economica mediante un aumento delle tasse.

Mi fermo qui, il pezzo è già troppo lungo. Sono convinto che tanti altri ragionamenti bislacchi sono facilmente giustificabili se si ipotizza che la gente ha in mente il modello superfisso. Il modello implica anche, si noti, che in generale i problemi di incentivo sono poco rilevanti; quando tutto è fisso c'è un modo solo di far le cose, ed è facile controllare se le fai o non le fai. E questa, da sola, è un'altra enorme fonte di errori.

Ovviamente, al modello superfisso si applica lo stesso giudizio che il mitico ragionier Fantozzi diede de 'La corazzata Potemkin': trattasi di una cagata pazzesca. Ma, a tutta evidenza, trattasi anche di cagata estremamente diffusa e per questo estremamente pericolosa.

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Commenti

Ci sono 48 commenti

Avendolo visto in "costruzione" attendevo compiaciuto l'apparizione di questo eccellente pezzo di Sandro, che mi sembra individuare chiaramente le radici dello stupidario economico a cui assistiamo quotidianamente. Provando, fra le altre cose, che nel lungo periodo una scuola ed un'università di qualità contano, eccome contano, per lo sviluppo non solo economico, ma anche sociale e politico di un paese.

Nel caso qualcuno pensasse che "il modello superfisso" (anche questa, azeccata espressione di Sandro) fosse una curiosità accademica che nessuno usa e di cui nessuno è consapevole, se ne ricreda rapidamente. Ecco, cortesia d'un dedicato lettore, un esempio recente di "sciocchezze fondamentali", firmato da due dei nuovi "guru" di questa particolare versione del pensiero privo di vincoli logici ed empirici. Se volete divertirvi, eccone un'altra a firma d'uno dei "super guru" (P.A. Garegnani, il quale purtroppo i suoi lavori "scientifici" non li rende accessibili on line ...) nella quale apprendiamo come si fa l'analisi empirica quando si pratica la teoria economica "conflittuale". Uno spasso per chi lavora con i dati, un vero spasso.

Notate che i "padri nobili" di questo sciochezzaio sono sempre gli stessi: Keynes , Kalecki, Sraffa, Dobb ... sino ai baroni rivoluzionari locali, Graziani e Garegnani. Mancano all'appello Pasinetti, Roncaglia, Parinello, Amendola, Lunghini ... dove son finiti quelli? Usciti dal giro buono? Una scissione nella chiesa della "critica dell'economia borghese" con cui ci hanno massacrato la frontal cortex quando eravamo loro allievi e vittime?

Fa impressione, dopo trent'anni e passa, leggere ancora frasi come queste

 

Ci

limiteremo a ricordare che la più visibile di esse verte su un

insanabile `vizio di circolarità' che caratterizza il tentativo

neoclassico di assumere come un dato esterno all'analisi la dotazione

di capitale espressa in valore, e di pretendere al tempo stesso di

determinare all'interno dell'analisi il saggio di profitto, benché a

sua volta quest'ultimo rappresenti una componente essenziale per il

calcolo del capitale, ossia proprio del dato assunto come esterno.


Con le dimostrazioni di Sraffa e Garegnani sulla `incoerenza internà

del modello neoclassico l'approccio compatibilista entrava dunque in

una fase di evidente difficoltà, laddove invece l'impostazione

`conflittualistà traeva nuova linfa e fonti di ispirazione.

 

Domanda retorica: secondo voi le insegnano nelle aule delle università italiane, queste frottole? Temo di sì, e non solo all'Università del Sannio ...

Come stupirsi, poi, se i giornalisti economici scrivono ciò che scrivono, i politicanti ed i sindacalisti promettono la luna nel pozzo, e l'intero paese crede nella teoria che lavorando di meno, aumentando la spesa pubblica e facendo più scioperi cresceranno i salari reali?

 

 

Bella questa idea del modello super-fisso!

A parte gli influssi accademici, questo modello super-fisso ha grande diffusione nella vulgata perchè ha il grande vantaggio di essere sempliciotto: un certo prezzo (ad esempio il salario) si muove ed una sola cosa cambia (ad esempio la distribuzione del reddito).

Eppure stento a credere che le persone non facciano un po' di autoanalisi e non ragionino su quanto le loro decisioni siano influenzate dai prezzi. 

Si aggiunga poi il dogmatismo, ovvero lo sprezzo per la verifica empirica: un modello che piace ad un certo studioso per le sue implicazioni politiche non verrà mai falsificato, appunto perchè manca la volontà (se non la capacità) di confrontarlo in maniera rigorosa con i dati.

Eppure in certe aree dell'economia si è formato negli anni un consenso abbastanza solido, ad esempio nella gestione della politica monetaria. Vedi l'articolo di domenica di Francesco Daveri sul Sole, che citava un decalogo di nove (?) leggi di politica monetaria formulato da.... qualcuno mi aiuti perchè non mi ricordo più il nome!

E' proprio vero che la cattiva economia (quella dogmatica) deve scacciare quella buona (quella basata sulla verifica empirica) dal dibattito politico e sui media? Speriamo di no! 

 

 

Eppure in certe aree dell'economia si è formato negli anni un consenso

abbastanza solido, ad esempio nella gestione della politica monetaria.

Vedi l'articolo di domenica di Francesco Daveri sul Sole, che citava un

decalogo di nove (?) leggi di politica monetaria formulato da....

qualcuno mi aiuti perchè non mi ricordo più il nome!

 

Ho provato a ritrovare l'articolo (con poco sforzo) su internet senza successo. Qualcuno sa chi ha scritto questo decalogo? (Taylor maybe?) Tutto mi sembra tranne che le banche centrali usino una regola chiara per la conduzione della politica monetaria. Se un consenso si é formato non sembra che funzioni molto bene, come fa notare Michele.

 

 

Il "modello super-fisso" è morto da tempo immemorabile, e ti ringraziamo per aver aggiunto la tua palata di terra su quel tumulo. Riposa in pace da talmente tanto tempo che persino il becchino ufficiale comincia a stare male...

 

Illuminante e chiarificatore. Grazie Prof. Brusco.

Aggiungo questa cosa, se mi permette: il tema dell'informazione economica è centrale nel nostro Paese anche perché è da troppo tempo che la cultura giuridica predomina l'impostazione dei problemi. Molte volte ho sentito impostare un problema di incentivi come un problema di attinenza al sistema legale, prima ancora di essere impostato in chiave economica. E se non è la cultura giuridica lo è la cultura keynesiana (come dice Lei). Quella degli anni '30 non quella neo-keynesiana.

A dire il vero, preoccupa come vengano affrontati questi temi dagli italiani: con presunzione. A me sembra che ognuno possa dire la sua sul sistema economico con dovuta arroganza e presunzione. Le faccio alcuni esempi: un'amica laureata triennale in lettere si lamentava di avere salari bassi e che non ci sia lavoro e che il Governo dovesse intervenire; un amico ingegnere aereospaziale si lamentava che non ci fosse lavoro per lui a Roma; un amico giurista non capisce perché non abbattono le tasse e diminuiscono il debito contemporaneamente. Forse ho amici ignoranti, e presuntuosi (perché pensano che le mie risposte siano di pari valore alle loro affermazioni), ma una cosa è certa: non sanno minimamente quel che dicono perché a scuola non l'hanno insegnato e dai giornali non possono certo capirlo.

Aggiungo un'esperienza personale: da due anni ho creato un corso al liceo che insegni ai 25 (malcapitati) studenti le basi dell'economia politica e della politica economica. Molti sono interessati e molti vogliono capire nel profondo le implicazioni della macro e della microeconomia sulla loro vita pratica. Dal corso ho dedotto che c'è una vera "domanda di conoscenza" teorica e pratica sul funzionamento del sistema economico.

Ma come fare per cogliere questa domanda di conoscenza e contemporaneamente eliminare l'ignoranza per influenzare positivamente il futuro dibattito sull'economia?

 

L'inferenza "Garegnani, dunque Bertinotti", mi sembra alquanto forzata. Gli Hobbsbawn e i Ken Loach esistono anche in Gran Bretagna (e sono anche giustamente stimati,a mio modo di vedere), tuttavia cio' non implica necessariamente l'esistenza di un Bertinotti britannico (un comunista presdiente della Camera) o cattiva informazione economica.

La stessa Cambridge che e' tuttora istituzione universitaria blasonata e rispettata anche per il suo approccio all'economia (tra l'altro anche da participanti a questo blog, vedi: http://www.btinternet.com/~pae_news/Camproposal.htm, dove l'appello e' firmato dallo stimato storico dell'economia Nicola Giocoli) non implica l'esistenza di cattiva informazione economica in UK.

Ancora, mia moglie che e' Italiana ed ha un master a Siena mi dice ad esempio che anche in Italia e' possibile fare ricerca economica seria e tuttavia non supinamente mainstream. In questo modo si puo' contribuire, arricchendolo, al dibattito di politica economica e sulla stampa, anziche' impoverirlo o, come sostiene Brusco, danneggiarlo.

 

 

Interessante questo movimento, non m'ero mai accorto che esisteva. Trovo affascinante l'idea di "cambiare" o "riformare" un intero campo di ricerca scientifica a base di appelli con firme raccolte mondialmente. Suppongo l'idea sia che se la "maggioranza" degli "economisti" firmano l'appello, poi aboliamo "mainstream economics" sulla base di un criterio democratico e facciamo la economics riformata. Infatti, la facciamo fare agli "studenti" che, contrariamente a quanto il loro nome suggerirebbe, se "studiano" a Cambridge evidentemente sanno già quello che dovrebbero imparare. Carino, veramente interessante come approccio. Che abbiano organizzato anche qualche sit-in alle riunioni dell'Econometric Society o della AEA? La cosa interessante, almeno per me, è notare che sulla rivista dell'economia anti-autistica appare un articolo (si fa per dire) di Joe Stiglitz (che una volta era un "normal economist" ma ora ha visto la luce della verità che fa vendere libri) nella quale ruba idee mie e di David K. Levine, ma da buon economista alternativo non ce ne riconosce la paternità. Poiché le distorce, non avendole evidentemente capite, e finisce poi per dire cose incoerenti, forse non dovrei risentirmene ... Evviva, dunque, l'economia alternativa. Rimango in ansiosa attesa dell'ingegneria aeronautica post-moderna, quando l'adottano fatemelo sapere che smetto di viaggiare ...

Passiamo ad altro. Si fa ricerca economica seria in Italia? Direi di sì, se ne fa un po' ed è abbastanza di più di quella che si faceva una volta. Ma è poca roba, concentrata in pochissimi posti, sempre pronta a morire travolta dalla "realtà dei fatti" e comunque minoritaria, ossia poco visibile, ininfluente nel dibattito culturale e completamente estromessa da quello giornalistico e politico. Su questo fatto, difficile da negare, si concentrava Sandro. 

 

Ricordo solo che l'appello menzionato da Jan Cigar (?) scaturiva da un caso di discriminazione intellettuale preventiva a danno di un gruppo di studenti di Cambridge. Di qui la mia adesione e, a giudicare dalle firme, penso anche quella di molti altri. Che non significava certo condivisione di una particolare scuola più o meno eterodossa di pensiero. E comunque "Let a hundred flowers bloom; let a hundred schools of thought contend" (Mao Zedong, 1957): chi crede nel mercato, anche delle idee, non può certo aver paura della competizione tra le stesse. [Purché di competizione appunto si tratti, e non di posizione dominante, ma qui, ahinoi, mi sa che nel caso dell'Italia abbia ragione Sandro] 

 

 

 

aggiungerei alla lista un'altra implicazione, che ho notato leggendo un interessante editoriale di pietro ichino :

7) nel modello superfisso la produttivita' del lavoro non aumenta se si lavora meglio ma si lascia invariato tutto il resto. quindi, giacche' nel modello il resto e' invariato per definizione, perche' dovremmo legare la remunerazione alla produttivita del singolo e pronunciare la parola "meritocrazia"?

 

condivido pienamente il succo del post ma mi pongo una domanda.

Assodato che in Italia vige la regola estesa del superfisso, del gattopardesco "tutto cambi affinchè tutto resti com'è", mi chiedo: tale modello è economico o politico? Cioè, l'economia in Italia è governata da regole economiche o da regole politiche?


Provo a ragionare.


Se l'Italia fosse un modello economico, allora le ricette qui generalmente presentate sarebbero sufficenti. Prendiamo ad esempio le liberalizzazioni nei servizi. Se avessero agito su di un sistema economico avrebbero portato dei benefici: concorrenza, calo delle tariffe per gli utenti. Ma poi mi ricordo di telecom e autostrade, della privatizzazione dei grandi istituti bancari e assicurativi di diritto pubblico, e mi è chiaro che così non è stato.

Essendo io convinto che in tali sistemi tali ricette siano vincenti mi pongo il dubbio se il sistema Italia sia stato correttamente modellato prima di decidere le cosa applicarvi.


Se la logica sopra è corretta significa che le ricette di cui sopra sono applicate al sistema sbagliato: è come applicare gli schemi dal basket al calcio. E pretendere di vincere.


Il modello superfisso in Italia è una realtà (che ho intellettualizzato oggi, cosa di cui ringrazio l'autore...), che come spero di aver chiarito sopra, va ben oltre quanto scarpe consumiamo all'anno. Va ben oltre l'economia, ma su questa pesantemente si riflette. Ed è con questo modello che ci dobbiamo confrontare.


Concludo con due considerazioni:

. attenzione a non sottovalutare la voce del popolo. Se l'Italiano medio ragiona come descritto, colui che ha respirato la superfissa atmosfera italiana per decenni, questo per me vale da conferma empirica.

. E poi, attenzione alle ricette che proponiamo: potrebbero essere corrette, ma per un sistema diverso dal nostro...

 

Non sono d'accordo.

Il modello superfisso, per quanti proseliti possa avere,non esiste nemmeno nella Corea del Nord, e per capirlo non serve essere esperti di economia, basta il buonsenso.Sfido chiunque convincere mia nonna che un'azienda in cui tutti lavorano a pieno ritmo non produce più di una in cui nessuno fa nulla.

Il limite delle nostre privatizzazioni è che di regola non sempre sono state abbinate a liberalizzazioni efficaci, più spesso si è trattato di privatizzazione di monopoli.Ed in ogni caso si è cercato di mantenere un controllo sulle imprese privatizzate tramite selezione degli acquirenti, con tutti i deliri sui "noccioli duri" e la difesa dell' italianità che ne conseguono.

Perfino nel caso più "virtuoso" delle telecomunicazioni, in cui i prezzi sono effettivamente calati dopo le privatizzazioni, si sono fatte scelte molto discutibili:

  • selezione degli azionisti di controllo di Telecom: prima Fiat, poi Gnutti, Pirelli e infine Telefonica, sempre scelti dal palazzo e non dai mercati
  • mancata separazione dei servizi dall' infrastruttura, con conseguenti comportamenti anticoncorrenziali da parte di Telecom (qualcuno si sorprende se nel riparare i guasti danno la precedenza ai propri clienti rispetto a quelli altrui?)

In altri casi si è semplicemente venduta una società che controlla la quasi totalità del suo mercato di riferimento (ENEL) o sono stati autorizzati aumenti di tariffe a fronte di diminuzioni di costi e inadempienze contrattuali (Autostrade).


La mano pubblica ha lavorato per gli imprenditori "amici" anzichè per il mercato, e queste sono le conseguenze. 

 


Sono d'accordo con ginogino. Pensare che il dibattito economico in Italia sia cosi' fallimentare perche' sostenuto da un modello anacronistico vuol dire sopravvalutare chi il dibattito lo alimenta: i media e i governanti. Semplicemente i primi sono di una incompetenza disarmante in qualsiasi campo, i secondi aggiungono ideologia o interesse privato all'incompetenza. So che si tratta di editti qualunquisti ma vista dall'esterno la situazione appare cosi' disperata che perfino i qualunquisti hanno ragione.

Infine: il dibattito, almeno degli ultimi anni, e' incentrato soprattutto su due argomenti: il fantomatico rincaro dei prezzi dopo l'ingresso dell'euro e il precariato. Per quanto riguarda il primo penso che ci serva altro che il modello superfisso a spiegare quelle cifre di inflazione percepita (alcuni sondaggi dicono che il 93% della popolazione avverte un rincaro del 100% in 4 anni). Suggerisco che semplicemente pochi sappiano cosa sia e cosa misuri l'inflazione e ne fraintendano il significato sociale e forse gli economisti dovrebbero fare un po' (eufemismo per tanta) di autocritica sulle proprie capacita' comunicative (ve lo dico da uomo di scienza).

Per quanto riguarda i secondi - i lavoratori precari - c'e' molto piu' spazio per parlare di modello superfisso almeno per quanto riguarda le obiezioni di carattere ideologico a qualsiasi posto di lavoro che non sia "a tempo indeterminato": vedi molta sinistra. C'e' anche da dire pero' che in Italia l'intero mercato di trattazione dei lavoratori e' basato sui sindacati e di conseguenza sui CCNL. i CoCoCo etc non hanno rappresentanza sindacale e non hanno potere contrattuale avvelenando cosi' il mercato e infilandosi in una situazione di malcontento inespresso che alla fine si paga.

Per finire: posso anche capire non parlare di economia se non si e' studiata, pero' l'ingegnere aerospaziale amico di format che non puo' nemmeno lamentarsi di non trovare lavoro a Roma lo vedo un po' un concetto forzato.

 

 

 

 

Ottimo.

Magari gli autori di questo blog possono suggerirmi la risposta ai problemi della misurazione del capitale insiti nella teoria dell'equilibrio generale. Qualche articolo illuminante?

Grazie

 

E' uno scherzo o dici sul serio?

Felicissimo di farlo, sono un esperto mondiale del problema. Forse il migliore (dopo LLP, ovviamente).

Due banali richieste preliminari:

- faccio spesso consulenza e corsi gratuiti, ma solo a persone con una identità ben definita (altrimenti non è tax-deductible come lavoro "good-will").

- Puoi definire in modo preciso i "problemi di misurazione" a cui ti riferisci? In altre parole, che difficoltà c'è a misurare l'acciaio in tonnellate e le case in cubatura?

 

Interessanti parallelismi con il modello superfisso.

E' il libro che mi è venuto in mente leggendo questo ottimo pezzo. Un ottima lettura per tutti coloro che lavorano nelle amministrazioni pubbliche, e per tutti gli aderenti al modello superfisso, che, purtroppo, vive e lotta con noi.

http://mises.org/books/socialism/contents.aspx

E' per caso disponibile da qualche parte una versione in inglese di questo testo mirabile? Mi sarebbe molto utile per parlare di questa notizia (http://www.guardian.co.uk/society/2012/mar/23/minimum-alcohol-price-could-rise) con alcuni amici, e starei quasi per tradurlo io, ma non vorrei fare del lavoro inutile se una traduzione esistesse già.

Grazie

Sergio de Ferra

Intanto grazie Sandro, veramente un bel pezzo. Volevo condividere questo momento epifanico molto collegato a quello hai detto che mi è successo un anno fa. Michele Boldrin fece un seminario e presenteva dati sulla distribuzione dei redditi. Distribuzione che vedeva un peggioramento dei redditi della classe media. Dal pubblico si levò un lamento, le quote distributive erano andate a favore dei redditi alti e ciò era l'effetto evidente delle politiche liberiste. Michele con pazienza (una volta tanto) cercò di spiegare che non era un problema di quote ma di crescita della produttività dei singoli che era stata bassa per una pletora di lavoratori a medio reddito e che le quote ex post registravano proprio questa mancanza di crescita. Mi resi conto che erano veramente due mondi a parte, il mondo super fisso in cui la produzione avviene e poi si decide (politicamente) a chi spetta quale fetta e il mondo reale fatto di decisioni individuali, individui che rispondono ad incentivi e che producono certi risultati e che poi, solo poi, si aggregano. Credo ci sia qualcosa di filosofico, una dicotomia profonda  in questi due approcci all'economia e alla società, ma non sono un filosofo... Un caro saluto a tutti.

buona notte. intanto mi presento. amo le discussioni astratte e detesto le maiuscole. ho studiato filosofia e non ho mai smesso di esercirtarla sono estasiato dalla purezza dei concetti economici.

sono anche molto contento di aver scoperto questo blog, credo che avrò molto da imparare.

penso anche che il diavolo si nasconda nei dettagli. c'è una cosa che in questo interessante articolo mi ha colpito particolarmente, ed è un'avversativa (se ho buona memoria di analisi del periodo) con cui inizia un periodo. cito testualmente: "non solo il livello assoluto dei prezzi è irrilevante..."
nell'esatto istante in cui l'ho letta ho avuto questa visione: una signora di mezza età che esce di casa verso le 8 per le varie incombenze e rientra verso le 19, finite le incombenze stesse si occupa di mettere a tavola la famiglia e poi di rilassarsi un  paio di ore prima andare a dormire.

ecco. poi la stessa signora la vedo durante la venticinquesima, ventiseiesima e ventisettesima ora della giornata girare come un'assatanata per tutti i supermercati del suo quartiere (e limitrofi) per segnarsi su un taccuino tutti i prezzi. poi la vedo tornare a casa e durante la ventottesima ora aggiornare il file di excel apposito, prendere le decisioni migliori (e che magicamente rendono più efficiente il mercato) e infine durante la ventinovesima ora recarsi a fare gli acquisti razionali sotto l'occhio benevolo di milton friedman che le sostiene la carta di credito al momento dell'acquisto.

 

complimenti per il blog

l'incessante lavorìo di rilevazione, confronto, elaborazione dei prezzi della pasta viene svolto dai produttori e distributori della stessa. la signora di mezza età può stirarsi du' camicie in più (oppure lustrarsi la bici da corsa: le signore di mezza età non son più quelle di una volta, il mercato efficente ha giovato loro parecchio).

una volta che il maschio di casa "che si occupa di politica" ha dato mandato ai suoi rappresentanti di combattere le barriere d'accesso al mercato, cioè licenze commerciali, libertà di prezzi e di comunicazione, monopoili o cartelli di produttori, in una parole la concorrenza, la signora può stare serena. non è necessario, in un settore passabilmente concorrenziale, fare gare d'appalto ogni volta, il buon prezzo secondo le mie preferenze mi viene servito subito. e il direttore commerciale che ha sbagliato di un centesimo, perde il posto. bello, vero?

per pasta e mutande, funziona benissimo. con carrozzieri e dentisti, magari meno; con l'acqua del sindaco, non mi far parlare.

"...C'è una battuta che gira tra i miei colleghi: «Sai qual è la differenza tra il Giappone e la Grecia?». L'agghiacciante risposta è: «Tre anni».

Nel nov 2012 Luigi Zingales sul "Sole" scriveva così, equiparando Grecia e Giappone come avviate entrambe, a tre anni di distanza, ad un default   a causa del debito pubblico del 200%  del PIL. Il fatto che la Grecia fosse vincolata dall'Euro e dalla BCE e la Bank of Japan invece potesse "stampare" Yen non faceva alla fine molta differenza per Zingales ("... Il Giappone può monetizzare il proprio debito. Ma nel momento in cui il mercato realizza che questo succederà, il costo del debito aumenterà per compensare creditori internazionali del rischio di inflazione/svalutazione. Me se la situazione è così tragica, perchè il mercato non penalizza i titoli giapponesi? La semplice risposta èche la speculazione al ribasso è timorosa. Come ho scritto molte volte, chi gioca al ribasso rischia molto: a fronte di guadagni limitati rischia perdite illimitate. Per questo i ribassisti si muovono solo quando vedono la possibilità di un guadagno immediato. Con una Banca del Giappone seriamente impegnata in massicci acquisti di titoli pubblici, il rischio di perdite per un ribassista è troppo elevato. Per questo aspettano. Il mercato è anestetizzato dalla Banca Centrale. Ma questa anestesia non è salutare, perchè ritarda il momento dell'aggiustamento. Più tardi il Giappone si sveglierà, più tragico sarà il risveglio. È un monito a tutti coloro che vorrebbero un Banca Centrale Europea altrettanto tollerante della Banca Centrale giapponese...." mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2012-11-06/tokyo-sembra-atene-063652.shtml).

Bene. Sono passati quasi tre anni da quando Zingales dava tre anni al Giappone per seguire la Grecia. Le banche centrali nel frattempo hanno fatto il contrario esatto di quello contro cui metteva in guardia Zingales, persino la BCE. Cosa è successo ?

 La Bank of Japan ha subito dopo iniziato a comprare tutto il debito pubblico giapponese stampando yen e  ad un ritmo triplo della FED e Bank of England.  Compra titoli per 80 trilioni di yen all'anno quando lo stato giaponese ne emette per 50 trilioni, per cui finanzia l'intero deficit annuale e in più riduce anche l'ammontare di debito sul mercato. Continuando a questo ritmo nel 2017 il debito pubblico giapponese in mano al pubblico si sarà ridotto al 65% del PIL, meno della Germania...

Come chiunque può controllare, il contrario esatto di quello scritto da Zingales a fine 2012 si è verificato: il costo del debito pubblico giapponese si è praticamente azzerato (il decennale  JGB era all'0,82% nel nov 2012 ed è poi sempre sceso, toccando anche lo 0,2% e ora è allo 0,5% www.bloomberg.com/quote/GJGB10:IND)

Sono passati due anni e mezzo, il Giappone ha intrapreso il più colossale esperimento di monetizzazione del debito pubblico della storia (al seguito di USA, UK e persino della UE con il QE di Draghi), il suo costo del debito si è quasi azzerato e chi ha provato a vendere short il JGB, come velatamente Zingales suggeriva, ha dato lui default. Il mercato si è buttato a comprare azioni giappponesi, il cambio si è svalutato molto e l'inflazione è salita leggermente, la disoccupazione in Giappone è scesa ed è la più bassa del mondo industrializzato, sul 4% ( in Italia per dire è salita dal 6 al 12% e in Spagna credo il 20%...)

La Grecia invece, che non ha potuto monetizzare il debito e svalutare, ma è rimasta schiacciata sotto il peso del debito e debito in valuta sopravvalutata del 50%, ha continuato a disintegrarsi, con disoccupazione al 25% ecc.. e st ora per dare un default. Come analogia Giappone come Grecia non era male...

Quando uno come Zingales sbaglia in modo così plateale sulla questione monetaria e fiscale cruciale del momento, bisognerebbe fare qualche esame di coscienza intellettuale e chiedersi onestamente se non ci sia una toppa grossa come una casa nella teoria che si segue

Dopo ormai 12mila mld (in dollari) di "MONETIZZAZIONE" o "stampa di moneta" da parte delle banche centrali che hanno avuto l'effetto esattamente opposto di quello predetto, cioè hanno ridotto il costo del debito e senza particolari conseguenze non sarebbe ora di porsi qualche domanda ?

Dopo un esperimento dal vivo così colossale non sarebbe ora di chiedersi o chiedere a Zingales e i suoi colleghi ed amici qui conto delle loro schiocchezze sul debito pubblico e la "stampa moneta" ? 
Giusto come piccolo suggerimento, ormai anche McKinsey sembra esserci arrivata perchè nel suo famoso report di qualche mese sul debito globale scrive alla fine in un paragrafo che esiste anche l'opzione per il debito pubblico di farlo semplicemente sparire... cioè se stampi moneta e la usi per assorbire gradualmente i titoli pubblici sul mercato alla fine è come se non esistessero più...

....come dimostra il caso macroscopico del Giapppone che stampa 80 trilioni di yen l'anno e li usa per far sparire i titoli sul mercato appunto...


----- Luigi Zingales: nov 2012  "Se Tokyo sembra Atene"  ----

mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2012-11-06/tokyo-sembra-atene-063652.shtml

C'è una battuta che gira tra i miei colleghi: «Sai qual è la differenza tra il Giappone e la Grecia?». L'agghiacciante risposta è: «Tre anni». L'ovvio riferimento è alla situazione del debito pubblico. Per quanto paradossale, l'accostamento della grande potenza industriale asiatica al piccolo e disastrato Stato ellenico non è poi così assurdo. Con un debito pubblico sul Pil del 230% e un deficit statale del 10%, quello che dovrebbe sorprendere non è il paragone tra Giappone e Grecia, ma il numero di anni richiesti perché la similitudine si avveri. Dopo tutto la Grecia, quando nel 2010 è entrata in crisi, aveva un rapporto debito Pil di solo il 143% e un deficit del 10 per cento. Ed è ancora più sorprendente che il mercato non se ne preoccupi affatto. Con un rendimento decennale dei titoli giapponesi di solo 0,78%, il Giappone sembra lungi dalla catastrofe ellenica. Sbagliano i miei colleghi o sbaglia il mercato? Temo il mercato. Ma vale la pena di capire perché. Nonostante il livello di indebitamento molto più elevato, il Giappone ha numerosi vantaggi rispetto alla Grecia. Innanzitutto, ha un sistema industriale capace ancora di esportare. Poi ha un sistema fiscale funzionante, che rende credibile un forte aumento degli introiti fiscali in futuro. In terzo luogo, il Giappone prende a prestito principalmente nella sua valuta, quindi ha sempre l'opzione di monetizzare il proprio debito. Infine, i giapponesi sono sempre stati forti risparmiatori, e quindi la stragrande maggioranza del debito è detenuto internamente. È come se lo stato giapponese finanziasse il proprio debito in moneta, ma i suoi cittadini ossequiosi, invece di spendere questa moneta, la risparmiassero, mettendola sotto il materasso. Questa partita di giro, però, non può continuare tanto più a lungo. La coorte più numerosa di giapponesi, quelli nati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sta per andare in pensione. Tra poco invece di risparmiare affannosamente comincerà a spendere i propri risparmi. La generazione successiva è molto meno numerosa e quindi il risparmio complessivo comincerà a scendere. La coorte che entra ora nel mercato del lavoro è molto meno numerosa di quella che sta per andare in pensione. Quindi ci sarà non solo un calo del risparmio, ma anche un calo tendenziale del Pil. Presto lo stato nipponico sarà costretto a finanziarsi almeno o in parte sui mercati internazionali, che sono meno ossequenti dei cittadini giapponesi e domanderanno un rendimento più elevato. Ma con un debito pari a 230% del Pil un aumento dei costo del debito si traduce velocemente in un deficit più elevato che impaurisce i mercati internazionali e fa aumentare maggiormente i tassi di interesse. Come noi italiani abbiamo imparato a nostre spese, il vortice diventa velocemente pericoloso. Il Giappone può uscirne? Per ridurre il debito, il Giappone può aumentare le imposte. Ma per ogni punto percentuale di aumento del costo del debito il governo nipponico dovrebbe aumentare le imposte di 2,3 punti percentuali di Pil, con effetti recessivi sul Pil e un rischio di spirale negativa tra aumento delle imposte, recessione, aumento del deficit, e necessità di un ulteriore aumento delle imposte. Il Giappone può monetizzare il proprio debito. Ma nel momento in cui il mercato realizza che questo succederà, il costo del debito aumenterà per compensare creditori internazionali del rischio di inflazione/svalutazione. Me se la situazione è così tragica, perchè il mercato non penalizza i titoli giapponesi? La semplice risposta èche la speculazione al ribasso è timorosa. Come ho scritto molte volte, chi gioca al ribasso rischia molto: a fronte di guadagni limitati rischia perdite illimitate. Per questo i ribassisti si muovono solo quando vedono la possibilità di un guadagno immediato. Con una Banca del Giappone seriamente impegnata in massicci acquisti di titoli pubblici, il rischio di perdite per un ribassista è troppo elevato. Per questo aspettano. Il mercato è anestetizzato dalla Banca Centrale. Ma questa anestesia non è salutare, perchè ritarda il momento dell'aggiustamento. Più tardi il Giappone si sveglierà, più tragico sarà il risveglio. È un monito a tutti coloro che vorrebbero un Banca Centrale Europea altrettanto tollerante della Banca Centrale giapponese.

http://www.lastampa.it/2016/06/10/italia/cronache/la-pi-grande-industria-il-riciclaggio-di-denaro-xSJSQmr89cuKiyub3G8UcJ/pagina.html

questo pippone, sconclusionato come pochi altri, occupava quasi una pagina intera della stampa di venerdì scorso. molto rimane da fare ma i Nostri sembrano ben motivati, in alto i calici!

Ti e' sembrato davvero cosi'? Mi fa piacere, anzi credo ci faccia piacere!

Non capisco cosa ci sia di poco allarmante o futile da non essere considerato importante come problema. Saro' pure ignorante e semplice come modo di pensare, ma che il sistema economico attuale non mi piace sta diventando in me sempre piu' una certezza. Poi se ci sono persone importanti, auterevoli e con spanne davanti a me in cultura, intelligenza e tutto quello che vuoi che insistono che sia il "migliore sistema possibile", mi viene il dubbio di essere un completo imbecille!!

Finanza e governo devono essere separati, ma come?? chiedo umilmente inputs!!

Non sono sicuro di poterlo postare, ma leggendo l'articolo su Noam Chomsky ho travato su Netflix questo interessante documentario. Semplice, lineare, che probabilmente non affronta tutti gli aspetti ed ha varie lacune, l'autore non vi e' nemmeno molto simpatico, ma sta di fatto che quello che dice non sembra per niente sbagliato. Ripeto saro' banale ed ignorante, ma deve essere per forza piu' complicata la miglior soluzione possibile???

Requiem for the American Dream