Nonostante il tema del meeting di Pescara fosse abbastanza generale si è finiti, almeno nelle due sessioni a cui abbiamo contribuito, a parlar solo di uscita dall'Euro, dei supposti guadagni che questo garantirebbe all'Italia, delle colpe della Unione Europea e così via. Sembrava, in particolare, che tutti i partecipanti (da Bagnai all'ultimo dei seguaci, passando per gli adepti illustri Alemanno-Bertinotti(?)-Fassina-Meloni-Salvini) fossero convinti del fatto che la continua recessione italiana (13 trimestri, and counting) si debba praticamente tutta al "vincolo Euro/Europa". Date le premesse impossibile parlar d'altro che di Euro, purtroppo.
Il modello di Alberto Bagnai e le sue previsioni
Il dibattito a cui ha partecipato Francesco (pomeriggio del giorno 8/11) verteva sulle predizioni del modello econometrico elaborato da Alberto Bagnai (AB da ora) e collaboratori e che era stato usato, nell'occasione, per simulare gli effetti di una uscita dell'Italia dall'Euro ed un ritorno alla Lira. ll modello è di media grandezza (una trentina di equazioni stocastiche e un centinaio di identità contabili), simile a quelli utilizzati nei centri studi di banche centrali e ministeri economici sino alla fine degli anni '80. Questi modelli sono spariti dalla ricerca accademica da almeno 30 anni a causa dei limiti metodologici che li affliggono: essi ignorano, infatti, la risposta degli agenti economici (imprese e famiglie) ai cambiamenti di politiche (si legga il commento (c), sotto, per qualche spiegazione in piu). In ogni caso, va riconosciuto ad AB che, almeno, mette per iscritto e in forma trasparente le proprie ipotesi, il che permette di valutare da cosa egli pensi possa derivare il benefico effetto del ritorno alla lira. Molto meglio questo che le chiacchiere vuote dei politici che ne hanno adottato le teorie o degli sproloqui di alcuni suoi compagni di viaggio.
In sintesi il modello di AB simula una fuoriuscita dell'Italia dall'euro accompagnata da due mosse di politica economica: (i) una svalutazione della rinata lira del 20% rispetto alle valute dei partner commerciali più importanti e, (ii) un aumento della spesa pubblica (consumi intermedi, per circa 1% del PIL) congiunto a un aumento del 5% degli occupati pubblici (che implicherebbe un ulteriore mezzo punto di PIL di spesa). Nella simulazione di AB queste politiche accrescono il PIL di circa l'1,5% nell'anno della svalutazione, per poi ritornare sul trend (terminando quindi lo stimolo alla crescita) nell'arco di circa 3 anni. La crescita del PIL avrebbe un effetto positivo sull'occupazione del settore privato (circa mezzo milione in più di occupati) e un modesto effetto sull'inflazione, che salirebbe del 3% annuo dai suoi valori di stato stazionario. Il rapporto debito/PIL scenderebbe (di circa 10 punti rispetto allo scenario di previsione del FMI) mentre i salari reali si ridurrebbero di circa 5 punti percentuali in 5 anni come conseguenza della maggiore inflazione e dell'accresciuto costo delle importazioni.
Le osservazioni critiche di Francesco
I commenti di Francesco (FL da ora) sono cosi riassumbili (slides scaricabili qui):
a) La simulazione è condotta sotto l'ipotesi che l'uscita dell'Italia dall'euro non abbia ripercussioni sui tassi di interesse a lunga del debito pubblico (che in termini reali, nella simulazione di AB, addirittura si riducono leggermente). La simulazione postula inoltre che il debito venga ridenominato in (nuove) lire creando di fatto un default parziale (pari alla svalutazione della Lira) per tutti i detentori che vogliano essere rimborsati al valore facciale in euro del debito (la questione giuridica, peraltro complessa, darebbe origine a infinite dispute forensi). Non sono considerate le ripercussioni (potenzialmente micidiali) che tale manovra avrebbe sulla solidità patrimoniale degli intermediari finanziari.
Quanto sono verosimili queste ipotesi? Le recenti esperienze dei nostri vicini in odore di default (Grecia e Portogallo) hanno fatto registrare impennate impressionanti dei tassi di interesse reali. Sarebbe probabilmente più verosimile ipotizzare che l'uscita dall'Euro si accompagnasse a una chiusura del mercato dei capitali verso l'estero (una tassa sui risparmiatori italiani). Un'ulteriore complicazione potrebbe essere l'insorgere di una "crisi finanziaria sistemica'': l'uscita dell'Italia potrebbe scatenare la rottura di tutta l'architettura euro, con conseguenze sul commercio e, soprattutto, sui bilanci degli intermediari finanziari italiani, i cui stati patrimoniali non sono floridi. Un'ulteriore perdita di valore dei titoli sovrani detenuti nel portafoglio delle nostre banche porterebbe, verosimilmente, a un congelamento del credito. Come discusso altrove in questi casi di solito si manifestano grandi recessioni (intorno al -10% del PIL nell'anno della crisi).
b) A parte le ipotesi rosee sul contesto di contorno, i risultati riflettono l'ipotesi di un moltiplicatore fiscale piuttosto alto (intorno a circa 2). Le stime del moltiplicatore fiscale sono incerte e controverse, ma per la maggioranza degli studi empirici il valore usato da AB è tra i piu elevati. Inoltre, nel modello di AB la svalutazione ha effetti atipici: essa riduce i consumi reali ed il PIL (questi gli effetti di una svalutazione dell'euro (senza rottura dell'unione) discussi nella versione preliminare del paper di AB). Nella simulazione tali effetti negativi vengono compensati dalla grande espansione di spesa pubblica finanziata a debito. Interessante anche osservare come la simulazione preveda che la manovra conduca a una netta riduzione dei salari reali. Questa previsione accomuna il modello di AB alla maggioranza dei modelli di commercio internazionale moderni, in cui le conseguenze reali di una svalutazione del cambio nominale possono essere replicate (a saldo di bilancio invariato) da una "svalutazione fiscale'', per esempio riducendo le imposte sul lavoro e aumentando l'IVA sui consumi dei residenti. I modelli di economia aperta mostrano che la svalutazione è, nei fatti, un sussidio all'export finanziato da una tassa all'import. Il cambio nominale non è l'unico modo per implementarla, se proprio la si desidera (si veda il paragrafo sulle "svalutazioni fiscali", qui). L'altra caratteristica che accomuna il modello di AB alle analisi moderne è che l'effetto della svalutazione è temporaneo. A differenza delle storie che si raccontano nei comizi, in TV o su Twitter, l'omogeneità nominale del modello richiede che necessariamente l'effetto della svalutazione svanisca nel giro di qualche tempo. Nessuna magia quindi: se svalutare fosse davvero l'unico modo che l'Italia ha per crescere, uscendo dall'euro imboccheremmo la strada delle svalutazioni ripetute.
c) I grandi modelli econometrici simili a quello discusso da AB sono scomparsi dalla ricerca accademica (e, in quella forma, dalle banche centrali) in seguito ad un grande fallimento empirico: quello di non poter dar conto della stagflazione degli anni '70, e della conseguente "scomparsa" della curva di Phillips. Le ragioni di questa discrepanza sono note: questo tipo di modelli utilizza relazioni di forma ridotta che non dipendono dal tipo di politica economica adottata. Per esempio, in un mondo in cui l'inflazione è bassa, gli agenti detengono molti titoli nominali e non indicizzano i salari al tasso di inflazione. Ma è ingenuo ipotizzare, come questi modelli fanno, che i comportamenti rimarrebbero gli stessi se si passasse a un regime di alta inflazione. I modelli macroeconomici costruiti dai primi anni 80 in poi fanno dell'interazione tra politiche e reazioni di consumatori (imprese e banche) il fulcro dell'analisi. Poiché questo comporta un aumento delle esigenze computazionali, la scala dei modelli (numero di equazioni e numero di fattori stocastici coinvolti) è stata drasticamente ridotta a poche equazioni. I modelloni stile AB, comunque integrati da qualche forma di "risposta allla policy da parte degli agenti'', rimangono in uso presso le istituzioni di policy dov'è necessario fare previsioni coerenti (nel senso della contabilità nazionale) per molti aggregati, come succede al Tesoro quando si prepara la legge di bilancio (a questo servono le molte identità contabili). Ma conoscere questi modelli vuol dire in primis capirne i limiti, e le condizioni di uso appropriato: essi sono al massimo buoni per previsioni economiche che riguardano piccole variazioni di breve termine intorno alla "norma'', cioe al comportamento e alla politica economica seguite sino ad allora. Utilizzare un modello così fatto per studiare le conseguenze di un grande cambiamento strutturale, come l'uscita dell'Italia dall'euro e la probabile crisi sistemica descritta al punto (a) equivale, per usare le parole dello stesso AB, a fare ipotesi eroiche. Un po' come assumere che il comportamento degli uccellini sul balcone non dipenda dalla presenza del gatto.
d) Nel preparare la discussione FL ha ricevuto diversi aggiornamenti del lavoro di AB, come spesso succede quando un paper è ancora in fase di preparazione. Piccoli cambiamenti delle politiche economiche ipotizzati nelle diverse versioni parevano implicare grandi differenze nei risultati rispetto alla crescita degli occupati o ale variazioni del rapporto debito/PIL. Tutti i modelli sono per natura incerti. Tuttavia quantificare l'incertezza intorno alle previsioni sarebbe utile, per dare ai lettori un'idea di quanto siano affidabili.
Cercare di valutare con precisione le opzioni sul tavolo, incluso il possibile abbandono dell'euro, o la rinegoziazione del debito pubblico, è un esercizio utile. Sarebbe sbagliato considerare l'attuale situazione come una camicia di forza dalla quale non si può uscire: come i matrimoni, le unioni monetarie nascono con l'idea di durare per sempre ma a volte finiscono anzitempo, ed è utile che esista questa opzione (come nel paper 2006 di Fuchs e Lippi , che formalizza la formazione di un'unione monetaria, e la possibile successiva rottura, in un modello dinamico). Le risposte che oggi possiamo dare sono parecchio incerte, è bene riconoscerlo. L'analisi degli episodi di default sovrani (anche parziali) suggerisce che un'eventuale uscita non sarebbe una passeggiata, come nel modello di AB, ma sarebbe accompagnata da un ulteriore notevole inasprimento della recessione. Potrebbe ancora essere la cosa migliore da fare: se il paese riconosce di poter competere solamente con l'Europa dell'Est è bene adottare subito salari da Europa dell'Est, non vi pare? Due o tre svalutazioni così e, nel giro di un decennio circa, il gioco è fatto.
Quanto, della stagnazione, è dovuto all'euro?
La seconda parte della discussione di FL si chiede quanto sia sensato attribuire al cambio fisso rispetto ai paesi dell'area euro la grave situazione economica dell'Italia di oggi. Innanzitutto l'analisi dei dati sulla crescita mostra che il nostro è un problema strutturale, non ciclico: la bassa crescita italiana comincia nei primi anni 90, quando ha inizio una stagnazione della produttività del lavoro (prodotto su ora lavorata) che da allora non fa che aggravarsi, fino a oggi (vedere le figure nelle slides). Un dato straordinario è che la stagnazione della produttività in Italia si registra in tutti i settori produttivi, non solo nei servizi, ma anche nel settore manifatturiero (in questo siamo unici, anche tra i PIIGS). Tra le imprese italiane che fanno meglio in termini di produttività ci sono proprio quelle che esportano (e, ovviamente, non a caso esportano). Ma un'analisi macro coerente, con moltiplicatori sensati, suggerisce che la crescita non può venire solamente dall'export. Questi dati dovrebbero far nascere seri sospetti sull'ipotesi che il problema dell'Italia origini in gran parte da un vincolo esterno. La recessione legata all'ultima crisi finanziaria globale ha certo peggiorato le cose, ma è stata un'influenza che si è aggiunta a uno stato di salute già parecchio precario. Ne è riprova che mentre oggi molti paesi (europei e non) ricominciano a crescere, l'Italia rimane in recessione (da 13 trimestri). Anche questi dati suggerirebbero di non pensare al cambio (una rigidità nominale), i cui effetti possono al più essere temporanei. Sebbene l'identificazione delle cause prime del declino italiano sia impresa ardua, molte analisi puntano alle pervasive rigidità strutturali che caratterizzano il nostro paese: un sistema avverso all'attività d'impresa, un'inefficiente e pervasiva amministrazione pubblica, un sistema della giustizia che paralizza le controversie civili e ostacola la presenza di attività di ristrutturazione d'impresa, un sistema finanziario fortemente influenzato da cordate politiche e relazioni di scambio (leggi fondazioni bancarie), un cattivo sistema d'istruzione superiore e universitario ed una pessima gestione delle risorse ad esso destinate. La litania è ben nota ai lettori di questo blog, quindi non insisteremo.
Il dibattito tra Michele e Alberto Bagnai
D'altro canto, quello delle cause profonde del declino italiano doveva essere il tema del dibattito fra Michele Boldrin (d'ora in poi MB) e AB, avvenuto il giorno dopo, 9 novembre. Un confronto a due, moderato dal giornalista Mario Giordano, sui mali italiani e su cosa bisognerebbe fare per curarli. Riassumerlo è piuttosto complicato (potete vedervelo nella registrazione indicata nel sommario) per cui cercheremo di darne una sintesi, inevitabilmente di parte, per temi. Di temi, alla fine, ce n'è stato uno solo che era ed è quello caro all'ospite: l'Euro ci fa male ed occorre uscirne. L'argomento di AB è semplice e si articola su quattro punti:
Come Bagnai propone di fermare il declino
1) L'Euro impedisce la svalutazione dei prezzi (dei prodotti italiani sui mercati esteri) indipendentemente da quelli degli altri paesi europei, Germania in primis. Le imprese italiane hanno prezzi troppo alti (dati i loro costi, evidentemente) e non potendo svalutare i loro prezzi senza che lo facciano anche le imprese degli altri paesi europei hanno difficoltà a vendere all'estero.
2) L'Euro, via patto di stabilità e il non finanziamento del debito pubblico italiano attraverso l'emissione di moneta di una banca centrale nazionale che non esiste più, impedisce allo stato italiano di fare un deficit maggiore del 3% circa concordato con gli altri partner europei. Questo ostacola la crescita del paese.
3) Uscendo dall'Euro e ritornando alla lira i prezzi dei prodotti italiani all'estero potrebbero ridursi, via svalutazione, quando espressi in monete estere ("Euro-tedesco", Yuan, Yen, Dollaro, eccetera) e questo permetterebbe alle imprese italiane esportatrici di crescere. La loro crescita si trasformerebbe in crescita dell'occupazione e del reddito italiano.
4) Uscendo dall'Euro la spesa pubblica (finanziata in deficit) italiana potrebbe crescere maggiormente di quanto non faccia o abbia fatto sino a ora e questa addizionale "domanda interna" permetterebbe alle imprese che producono per il mercato interndo di accrescere occupazione e valore aggiunto.
Questa la "ricetta AB", crediamo onestamente riprodotta. Che dire?
Due commenti
Ancora una volta solo due commenti sono possibili. Il primo guarda all'esperienza storica italiana e non (senza andare troppo indietro nel tempo basta guardare ai risultati di Abenomics in Giappone) e conclude che la "ricetta AB" non porta da alcuna parte, anzi probabilmente continua ad aggravare i mali profondi che stanno uccidendo il paese. In fin dei conti la ricetta "svalutazione+spesa pubblica" l'abbiamo già vista messa in pratica da, almeno, la metà degli anni '70 in poi. Non serve riprodurre qui i dettagli delle "svalutazioni competitive" che si sono susseguite da allora sino al 1993 né, tantomeno, è il caso di riportare di quanto la spesa pubblica (finanziata in deficit, con conseguente aumento del debito) sia cresciuta da allora. I risultati sono quelli che tutti hanno davanti o, a voler essere fiscali, avevano davanti sino all'adozione dell'euro. Un paese con un debito pubblico enorme ed una crescita del PIL asfittica e senza dubbio incapace di sostenere il peso del debito stesso tanto da arrivare quasi, nel 1992, al default ed alla crisi finanziaria. Dalle orrende conseguenze della quale venne salvata, nel bene e nel male, proprio dalla prospettiva di adottare l'Euro! Questo per quando riguarda ciò che storia e teoria economica insegnano.
Sulla credibilità e fattibilità concreta oggi della proposta di "svalutazione cum spesa extra", il secondo commento possibile, abbiamo già detto a iosa più sopra illustrando la discussione tecnica che FL aveva svolto il giorno precedente. La quale, a nostro avviso, non lascia spazio a dubbi: trattasi, nella migliore delle ipotesi, di cerotto di brevissimo periodo e, nella peggiore, di salto nel buio dalle conseguenze probabilmente drammatiche.
La probabile contro-risposta di AB
A questa osservazione AB risponderebbe, non ricordiamo lo abbia fatto ma lo facciamo noi, che comunque un minimo di crescita si ottenne durante quegli anni mentre - a partire dalla metà degli anni '90, quando le parità di cambio vennero fissate in preparazione dell'entrata nell'euro qualche anno dopo - le cose sono andate ancora peggio. E questo fatto, incontrovertibile, è il vero oggetto della discussione. Siamo quindi di fronte prima ad un controfattuale:
(i) cosa sarebbe successo in Italia se a partire dal 1995-96 circa non ci si fosse indirizzati ad entrare nell'Euro,
e poi ad una previsione per il futuro:
(ii) cosa succederebbe se, per dire, nel 2015 l'Italia uscisse dall'Euro e ritornasse alla lira e a un finanziamento del deficit pubblico addizionale (e di parte del debito pubblico in scadenza) attraverso l'emissione di lire da parte di una rinata Banca d'Italia.
Un controfattuale ed un paradosso: tanto peggio tanto meglio?
Esaminiamo qui solo la parte (i) della probabile contro-risposta di AB perché la parte (ii) e' stata discussa attentamente nella sintesi della presentazione di FL ed il verdetto, repetita juvant, è semplice: trattasi non di previsione economica ma di chimera basata su antica numerologia a cui nessuno piu' crede.
Durante il suo intervento, e in conversazioni precedenti, AB ha proposto il seguente argomento, derivato da un articolo di tre economisti spagnoli: Jesus Fernandez-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos. Secondo la loro analisi, l'adozione dell'euro ha "allentato" il vincolo di bilancio che la finanza pubblica dei paesi europei "deboli" (PIIGS) dovevano fronteggiare a metà anni '90. Questo allentamento ha permesso alle classi dirigenti di quei paesi di rinviare sine die le riforme strutturali già allora necessarie. Le mancate riforme hanno poi aggravato l'impatto della crisi finanziaria del 2008 su questi paesi e impedito sino a ora il loro ritorno alla crescita (eccezion fatta per l'Irlanda che alla crescita sostanziale sembra essere ritornata, guarda caso ... ah, sta succedendo anche in Spagna e forse in Grecia? Ma guarda un po' ...).
L'argomento regge se e solo se si riconosce che questi paesi hanno ricevuto un bonus sostanziale grazie all'adozione dell'euro. Infatti noi concordiamo sia con la premessa dell'argomento (il bonus) sia con le conseguenze (limitandoci all'Italia: riforme strutturali mai fatte, proseguimento e peggioramento delle politiche precedenti) ed è proprio qui il punto che non si vuole intendere. Visto che persino AB (contrariamente a molti suoi seguaci o compari di strada) riconosce che il mega-bonus da euro è esistito (quello che qui ed altrove abbiamo quantificato fra i 500 e gli 800 miliardi di euro di interessi risparmiati) cosa dedurne? Noi ne deduciamo che uscire dall'euro potrebbe implicare l'opposto: i mercati (che, non scordiamocelo, son fatti al 70% da risparmiatori italiani) ci farebbero ripagare quel bonus con salati interessi! E a questo punto torniamo a capo: uscire vuol dire per certo una crisi immane di finanza pubblica e, forse forse, una fiammata di crescita pari a due massimo tre punti di PIL. Poi, a meno di riforme radicali e profonde, si ricomincia a declinare.
Dalla premessa, condivisa, AB deriva invece una predizione controfattuale: se l'euro non si fosse adottato il bubbone italiano sarebbe esploso ben prima, durante la seconda metà degli anni '90, e oggi saremmo in una situazione migliore! Migliore perché? Perché il dramma del default sul debito pubblico e della mostruosa recessione che lo avrebbe accompagnato avrebbero spinto gli italiani a scegliersi una classe politica altra da quella che elessero al tempo e nei due decenni seguenti, una classe politica in grado di fare le riforme mai fatte. Si noti che, anche se purtroppo non lo dice mai in pubblico, pure AB concorda su questo punto: l'Italia non uscirà mai dal suo declino di lungo periodo senza una rivoluzione istituzionale ed economica senza precedenti nella sua storia. Solo che, lui dice, le riforme si farebbero se il vincolo diventasse drammaticamente stringente. E qui diventa evidente il paradosso.
Da un lato si invoca un "tanto peggio tanto meglio" che, declinato al passato ha ovviamente l'effetto psicologico di illudere i fedeli i quali sono portati a sognare una catarsi che, avendo potuto accadere nel passato, riverbera sul presente solo i suoi (improbabili) effetti benefici (le mitiche riforme adottate under duress) permettendo di rimuovere il fatto che da catastrofi economiche di quel tipo è sempre uscito di peggio e non di meglio a meno di interventi esterni (la troika avrebbe dovuto occuparsi ed occupare l'Italia 20 anni fa, AB? Perché certo BS e Prodi quelle riforme tanto agognate non le avrebbero comunque introdotte!). Insomma, una fiaba di espiazione (i cui costi oggi non sono percepibili) e redenzione (tanto improbabile, alla luce della classe politica che l'Italia aveva allora ed ha oggi), quanto comprensibilmente agognata.
Dall'altro si sostiene che fare oggi l'opposto di allora (uscire dall'euro e così via) non avrebbe oggi i costi drammatici che avrebbe avuto allora (rendere il vincolo di bilancio drammaticamente stringente, forzare un default o una monetizzazione massiccia del debito, chiudere il flusso di credito e capitale all'economia nazionale, eccetera) ma solo benefici. I quali benefici, ritorniamo alla discussione di FL, sono tanto imprecisi e di breve periodo quanto altamente improbabili. Stiamo girando in tondo.
Infine ...
A questo punto la discussione fa cortocircuito, come la registrazione del dibattito fra AB ed MB crediamo provi. Perché, ed è qui il dramma, né AB, né chi lo segue, né, soprattutto, chi cavalca politicamente questa fantasia, ha alcuna intenzione di dire chiaramente agli italiani che, svalutazione o no, senza drammatici, dolorosi e lunghi cambiamenti strutturali da questa situazione non se ne esce. E allora diventano rilevanti i tre mali che MB ha elencato in apertura del dibattito rispondendo alla domanda di Mario Giordano. Che sono (1) la profonda ignoranza che permea la società civile italiana, in generale e sulla situazione economica in particolare; (2) la conseguente ed antica tendenza a credere in fantasie, cospirazioni, bugie ed affermazioni tanto roboanti quanto demenziali nello stile "perfida Albione", "posto al sole", "spezzeremo le reni", "un milione di posti di lavoro" ... e, finalmente, (3) lo stato e la classe politica italiana che sul trinomio ignoranza-menzogne-credulita' continua a costruire il proprio potere guidando il paese ad un declino che, occorre cominciare a dire, la grande maggioranza degli italiani sembra essersi scelto.
It's politics, stupid.
Sul punto che "Bagnai non ha usato i modelli post 70s" la critica è semplice. Quei modelli hanno fallito miseramente nel prevedere la crisi, quindi neanche quelli sono un granché. Detto ciò il resto della critica mi sembra fin troppo fondata. Mi pare di capire peraltro, correggetemi se sbaglio, che il modello non tenga conto del fatto che una parte non piccola dei debiti esteri non è sotto legislazione italiana e quindi non verrebbe rinominata. Le stime divergono ma Nordvig calcola almeno 500 miliardi solo in bond (o forse addirittura 800) di cui la metà in euro. Poi vanno aggiunti i saldi target2 ed eventuali altri debiti di diversa natura. E' per vero che alcuni italiani ci guadagnerebbero, che bisogna vedere la composizione dei portafogli, ecc. ma appunto sono tutte incognite. Certo si potrebbe fare un grande esproprio capitalista (non proletario) ai danni di chi ha speculato bene e a favore di chi ha speculato male, ma la vedo dura... nel frattempo quelli che ci hanno guadagnato temo si saranno messi al sicuro.
Devo dire che Nordvig è molto più guardingo su questi temi, infatti i suoi paper iniziano dicendo che la fine dell'euro non ha precedenti storici e conclude dicendo che l'uscita di un singolo paese avrebbe l'effetto di "sbucciare la cipolla" dell'eurozona provocando potenzialmente una catastrofe per tutti. La sua soluzione non è "uscire dall'euro" la "ridefinire l'unione monetaria" ovvero tornare allo SME e lasciare una parte di debiti in Euro/ECU il che però ha evidentemente un costo.
marcodivice riporta qui panizza che , citando edlen, indica in circa il 2% del debito l'ammontare emesso sotto giurisdizione estera. cioè non più di 44 miliardi, importo che un qualunque matteorenzi sicuramente si direbbe capace di maneggiare con facilità. come ordine di grandezza, 500 miliardi potrebbe essere il debito detenuto da soggetti esteri, che è tutt'altra cosa.
ripeto la mia perplessità: il default dell'italia, interno od esterno, parziale o totale, sul capitale o sugli interessi, è cosa di cui preoccuparsi per via dell'aspetto legale? non è che per gli importi in gioco dovrebbero interessare molto di più gli sconvolgimenti economici conseguenti?
Il poco spazio evidentemente mi ha impedito di spiegarmi. Nelle scienze, incluse quelle sociali, non si butta un modello quando non prevede bene. Questo accade sempre (pensi al meteo). Si licenziano forse i geologi quando arriva un terremoto? (lasciamo stare ironie su l'Aquila...). I modelli si cestinano quando si riesce a costruirne uno migliore (sempre imperfetto, ma meno peggio). Il fatto di usare modelli (tipo pre-70) in cui le i comportamenti (ovvero le relative equazioni) non dipendono dalle politiche, e' cosa oggi facilmente risolvibile, e anche assai utile per capire come funziona la politica economica, in cui spesso l' effetto su aspettative (via annuncio e future politiche attese, pensi alla tassazione) e' cruciale. Per questo i vecchi modelli sono scomparsi. E' stato un importante passo avanti del metodo di analisi. A differenza di quanto molti dicono (senza sapere cio di cui parlano evidentemente) la questione di metodo e' fondamentale e indipendente da quello che nel modello risultera essere una "buona politica" (esempio: quanta spesa pubblica, quante tasse, quanta inflazione, etc).