Dobbiamo preoccuparci della deflazione? Forse che sì forse che no.

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Dove si illustra perché la diffusa preoccupazione per le tendenze deflazionistiche nell'area Euro è almeno in parte infondata.

Introduzione

Di questi tempi si fa un gran parlare di deflazione, cioè della tendenza dei prezzi (per esempio misurati dall'indice dei prezzi al consumo o, misura forse più appropriata, dal deflatore del PIL) a diminuire o a ristagnare anziché aumentare come succede quando c'è inflazione, condizione più frequente in Europa e altrove negli ultimi 70 anni.

Nel corso del 2013, per esempio, l'indice dei prezzi al consumo armonizzato nell'area Euro è aumentato dello 0,85%. L'aumento a maggio 2014 rispetto a maggio 2013 è stato dello 0,51%, per cui anche per il 2014 ci si aspetta un tasso di inflazione molto basso nell'area, forse più basso che nel 2013. Lo stesso indice era aumentato del 2,2% del 2012, in linea con la media del decennio 2000-2009, quando il tasso di inflazione medio annuo era stato pari al 2,1%. Anche se tecnicamente quello 0,85% (così come lo 0,51%) non è deflazione, in molti sono convinti che vista la notevole velocità di rallentamento dell'inflazione, il livello dei prezzi nell'area Euro abbia imboccato un piano inclinato e insaponato che conduce dritto allo spettro della "spirale deflazionistica", una situazione in cui la riduzione dei prezzi genera ristagno dell'attività economica, che a sua volta deprime ulteriormente i prezzi e così via. La deflazione è l'argomento economico del giorno in Italia e altrove; ecco, a mò, di esempio la prima pagina del Sole 24 Ore di sabato 6 giugno 2014:

sole 24 ore 6 giugno 2014

La presunzione che la deflazione sia necessariamente un male (e che vada quindi contrastata con tutti i mezzi disponibili) perché premessa e veicolo della stagnazione economica sembra comunemente accettata ed è stata sostanzialmente incontrastata nel dibattito degli ultimi anni. Che questa presunzione sia ormai conventional wisdom è ben testimoniato da un recente post di Paul KrugmanQuesto "unanime consenso" è sorprendente (ma non troppo, come illustriamo tra un attimo) perché nell'ultimo decennio la ricerca economica ha prodotto ampia evidenza contraria a tale presunzione. Si veda, per esempio, qui e qui.

Deflazioni cattive e deflazioni buone

La presunzione che la deflazione causi la stagnazione non è troppo sorprendente, dicevamo. Il motivo è che la nostra idea di deflazione è associata alla Grande Depressione degli anni 30 del 1900, quando sia i prezzi che la produzione diminuirono. La figura qui sotto mostra le due serie dal 1925 al 1940 in quattro paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Italia e Francia. è evidente nella figura una "spirale deflazionistica" lunga 5 anni (1929-1933) negli Stati Uniti e nel Regno Unito, un po' più lunga (fino al 1935) in Italia e in Francia. [Nota tecnica. In queste figure e nelle successive i prezzi sono misurati dall'indice dei prezzi all'ingrosso e la produzione dal PIL pro-capite in dollari 1990 a parità di potere di acquisto, o PPP, cioè aggiustati per i diversi livelli di prezzo fra i vari paesi. Non sono indici ottimali, ma sono quelli disponibili ed utillizzati correntemente nelle analisi di lungo periodo]. 

bad deflation

Dall'esperienza della Grande Depressione molti inferiscono che la deflazione è un male. Questa inferenza è sbagliata, come a nostro avviso è sbagliata nel caso del Giappone negli ultimi 20 anni, l'altra esperienza che determina la comune percezione della deflazione come premessa della depressione economica (torneremo tra poco sul caso giapponese). Il motivo è che il legame tra deflazione e stagnazione economica osservato durante la Grande Depressione è un'eccezione rispetto alla regolarità empirica deducibile dalla storia economica dei paesi occidentali. Uno sguardo più ampio alla storia economica dei paesi che sono oggi ricchi, infatti, mostra moltissimi casi di deflazione associata a forte crescita economica. Il caso che forse meglio illustra il punto è la lunghissima deflazione sperimentata da questi paesi per buona parte della seconda metà dell'800 (20-30 anni, a seconda dei paesi) mentre il loro PIL pro capite cresceva a tassi molto sostenuti, come mostra la figura qui sotto.

good deflation

L'esperienza deli ultimi duecento anni rivela quindi due tipi di deflazione, una "buona", che si è accompagnata alla crescita, ed una "cattiva", che si è accompagnata alla stagnazione o addirittura alla depressione economica. Ma sono i primi i casi più comuni. Andy Atkeson e Pat Kehoe, nell'articolo citato poco sopra, provano a verificare l'esistenza di una relazione stabile fra variazione dei prezzi e variazione del PIL in un campione di 17 paesi dal 1820 al 2000 e non la trovano. Ovvero, non sembra esistere nei dati alcuna relazione statistica sistematica fra deflazione e depressione economica. Che noi sappiamo, non esistealtra evidenza empirica "robusta" a supporto dell'idea secondo cui l'assenza di inflazione causa o porta con sé stagnazione economica o peggio .

Questo per quanto riguarda l'evidenza empirica. Cosa dice la teoria? Così come la presunzione che la deflazione sia necessariamente un male è basata su inferenza incorretta dalla più recente esperienza di deflazione, questa stessa presunzione è razionalizzata da un'artificio teorico che potremmo chiamare "pregiudizio per estensione": se è vero (ma è vero?) che il livello di attività economica (o dell'occupazione) cresce all'aumentare del tasso d'inflazione, allora (in questo "allora" sta l'artificio) più bassa è l'inflazione minore è il tasso di crescita dell'attività economica. Da cui seguirebbe che se il tasso di variazione dei prezzi è negativo allora tale deve essere anche il tasso di variazione del PIL. Questa deduzione deriva dalla  "curva di Phillips", che ipotizza una relazione fra tassi di variazione di prezzi e disoccupazione. La curva fu disegnata nel 1958  e la riproduciamo dall' articolo orginale di Phillips (la figura è storta nell'originale, non esisteva LaTex allora). Mette in relazione disoccupazione e variazione dei salri nominali: come si vede, la curva minacciava disoccupazione a due cifre in caso di deflazione, anche modesta. Si noti che, ironicamente, il diagramma includeva tutti i punti della deflazione "buona" sperimentata dal Regno Unito dal 1875 al 1895 documentata nella nostra figura sopra (sono i punti sotto l'asse orizzontale), ma che la procedura di fitting di Phillips trattava come deviazioni random; già nel 1958 era evidente che la "curva di Phillips" non era una relazione stabile!

curva di Phillips

Concettualmente, la distinzione tra i due tipi di deflazione (quella "buona" associata a crescita e quella "cattiva" associata a depressione) è molto semplice e altrettanto importante: il processo di riduzione dei prezzi può essere dovuto o a shock dal lato della domanda (per una ragione o per l'altra si riduce la domanda di beni e servizi e i produttori, cercando di vendere, abbassano i prezzi), o a shock dal lato dell'offerta (la produttività dei fattori esistenti o l'offerta aggiuntiva di fattori produttivi aumentano in un modo che consente alle imprese, in concorrenza, di abbassare i prezzi), o a una combinazione dei due. Il primo tipo assomiglia alla deflazione "cattiva" degli anni 30 del '900, il secondo tipo assomiglia alla deflazione "buona" della seconda metà dell'800. Se dobbiamo preoccuparci o no per le attuali prospettive deflazionistiche dipende dunque in larga misura dalla natura degli shock sottostanti o, come argomentiamo sotto, dai cambiamenti di lungo periodo che sono in corso. Noi non possiamo dire che quanto si osservi oggi sia completamente spiegabile attraverso shock di offerta e, per la stessa ragione, crediamo che né Paul Krugman né altri possano dire con ragionevole certezza che si tratti solo di shock da domanda.

Più probabilmente, entrambi gli shock (da domanda e da offerta) sono presenti in un mix che è difficile decomporre, mentre Krugman, Draghi (Draghi?) e (quasi) tutti i commentatori si preoccupano della deflazione perchè assumono che si tratti di una deflazione primariamente da domanda. Questa assunzione non è molto plausibile alla luce di quando sta accadendo da dieci anni a questa parte - e continuerà ad accadere - nell'economia mondiale. Il progresso tecnico  e la globalizzazione che hanno esercitato una enorme pressione al ribasso sui prezzi a partire dalla metà degli anni '90 del 1900 sono ancora in corso e spingono in basso i prezzi di molti beni, soprattutto a parità di qualità. Allo stesso tempo la globalizzazione non vuol dire solo produzione addizionale a costi più bassi ma anche crescita della domanda aggregata. Basta guardare alla crescita delle esportazioni della maggior parte dei paesi, compresa l'Italia, dopo la frenata determinata dalla crisi globale del 2009-2010,  per capire che la "domanda" di beni e servizi nel mondo c'è e non siamo certo di fronte ad una sua riduzione globale.

Il caso teorico della deflazione da domanda

Ma ammettiamo pure che la deflazione sia solo da domanda. Perchè una deflazione da domanda dovrebbe avere conseguenze negative sulla crescita?

Un primo, classico, argomento è che la deflazione indurrebbe i consumatori a rimandare al futuro l'acquisto di beni e servizi; questa riduzione della domanda corrente riduce ulteriomente i prezzi inducendo quindi una "spirale deflazionistica" fatale che porta alla depressione. Se posso aspettare, perché acquistare oggi quello che domani costerà meno? Una semplice risposta potrebbe essere: perchè intanto mi godo il bene. Se io rinvio l'acquisto di una automobile, rimango senza macchina o mi tengo la vecchia. Dovessero i prezzi ridursi in un anno del 10% forse ne varrebbe la pena ma se rimangono stabili o calano dello 0,2%, che ragione dovrebbe esserci per rimandare? Inoltre, questo argomento vale, ovviamente, solo per i beni durevoli come le case, le automobili e le televisioni. Non vale di certo per i beni di consumo non durevoli (per quanto pensate si possa posporre l'acquisto della pasta in attesa d'una sua riduzione di prezzo?) né, soprattutto, per i servizi. Questo secondo aspetto è molto rilevante: siccome l'effetto "spirale" vale solo per i beni (molto) durevoli dovremmo osservare segnali di deflazione particolarmente forti per i beni durevoli e molto meno per il resto. Invece basta andare qui e controllare gli indici settoriali dei prezzi per scoprire che così proprio non è. Fatte salve oscillazioni stagionali o particolarità locali lo stesso vale per tutti i paesi che, in questi ultimi anni, stanno sperimentando una riduzione generalizzata del tasso d'inflazione: la riduzione è pressoché omogenea settorialmente e rimandare acquisti di beni non durevoli e di servizi, ossia di più dei 2/3 della spesa totale per consumi, è alquanto impossibile.

Inoltre, in linea di principio, 
questo argomento si applica a tutte le deflazioni; quindi perché un americano rimandava l'acquisto di un bene durevole nel 1931 aspettandosi prezzi più bassi nel 1932 mentre suo nonno non faceva la stessa cosa nel 1874 quando era sensato aspettarsi che i prezzi sarebbero stati più bassi nel 1875? La risposta, in questo caso, dipende da molti fattori. Per esempio, dalla struttura dei consumi. L'effetto negativo della deflazione sulla domanda aggregata attraverso il canale del rinvio degli acquisti è tanto più probabille quanto più alta è la percentuale di prodotti dal consumo differibile e che i consumatori sono disposti a differire, e tanto più elevata è la percentuale di acquisti di sostituzione rispetto a quelli di nuovi beni. Dipende inoltre dalle aspettative sul reddito futuro: se i salari sono flessibili (punto su cui torniamo sotto), io mi aspetto che anche i miei redditi diminuiranno in termini nominali e quindi non ho ragione di differire l'acquisto. Ambedue ipotesi plausibili ma da valutare empiricamente. Che noi sappiamo, non esiste evidenza robusta a supporto dell'ipotesi che i consumatori rinviino l'acquisto di beni durevoli durante una deflazione. E quando c'è un po' di evidenza basata su intenzioni auto-riportate (come in questo studio sul Giappone) l'effetto sembra del tutto marginale: secondo lo studio appena citato, l'aspettativa di maggiore deflazione pari a un punto percentuale (come avverrebbe, per esempio, se oggi mi aspettassi che lo 0,5% di inflazione nell'area Euro registrato tra maggio 2013 e maggio 2014 si trasformi in un -0,5%), indurrebbe una riduzione di un punto percentuale nella probabilità di (riportare di essere intenzionato ad) acquistare un bene durevole. In altre parole: solo 1 consumatore su 100 rinvierebbe l'acquisto del frigorifero o dell'auto!

Un secondo argomento è l'effetto della deflazione sul peso dei debiti. Per lo stesso motivo per cui l'inflazione alleggerisce il peso reale di un debito non indicizzato (che, cioé, resta fisso in termini nominali), la deflazione aggravia tale peso. Per i debitori, la deflazione implica maggior debito reale. Questi ultimi, pertanto, si troverebbero costretti a contrarre la spesa, innescando così la spirale deflazionistica di cui sopra. Inoltre, il maggior debito reale aumenta la probabilità di default e quindi di una crisi finanziaria che indurrebbe ulteriore contrazione dell'attività economica. Il primo argomento non ci pare molto solido. Per ogni debito c'è un credito, e l'effetto ricchezza per i creditori va nella direzione opposta - aumenterebbe la domanda. Se assumiamo che il debito pubblico e privato di un paese sia detenuto in larga parte all'interno del paese stesso (come di fatto è, specialmente in Europa) si avrebbe un effetto depressivo della deflazione attraverso il canale del debito se e solo se i creditori fossero meno propensi al consumo dei debitori. Questo argomento riecheggia l'ipotesi "Kaldoriana" per cui i ricchi (i quali tipicamente hanno un ampio stock di risparmio e quindi sono tipicamente creditori) hanno una più bassa propensione al consumo dei poveri (i quali, tipicamente, si indebiterebbero). Se questi ultimi, tuttavia, hanno redditi nominali da salario che sono anch'essi fissi in termini nominali, allora la deflazione lascia il loro debt/income ratio invariato.

 L'ipotesi  "kaldoriana" è plausibile: il tasso di risparmio cresce al crescere del reddito, anche se non c'è alcuna soglia magica. È quindi possibile che in media i creditori siano più ricchi dei debitori. Le implicazioni per il dibattito sono però diverse da quelle sostenute dalla conventional wisdom.  Si avrebbre  non tanto una radicale diminuzione della domanda aggregata quanto un cambiamento nella sua composizione. Infatti, i ricchi creditori magari consumano una percentuale minore del loro reddito ma, certamente, lo "spendono" tutto (non sotterrano banconote in giardino, cioé). La parte che non consumano la risparmiano investendola in questa o quell'altra attività. Ed anche questo genera domanda. Dovremmo quindi osservare almeno una delle tre seguenti cose: (a) una crescita maggiore nei prezzi dei beni d'investimento che in quelli dei beni e servizi consumati; (b) un cambiamento nella composizione settoriale dell'output (meno beni di consumo per i poveri debitori, più beni di consumo e beni d'investimento per i ricchi creditori); (c) una relazione negativa fra i tassi di variazione degli indici dei prezzi al consumo e degli indici dei valori patrimoniali, immobiliari e non. Che noi si sappia nessuna di queste predizioni è confermata dai fatti. In ogni caso, si noti il punto cruciale: il tutto non implica una depressione economica ma un cambiamento nella composizione della produzione, che son cose diverse. La deflazione, secondo questa teoria, cambia la composizione del PIL ma non necessariamente il suo tasso di crescita. 

Ed infine, relativamente al punto creditori-debitori, vi è la questione debito pubblico. Se il livello dei prezzi diminuisce allora il peso reale del debito aumenta, sostiene la conventional wisdom, e diventa quindi sempre più difficile per lo stato sostenere il peso del debito. L'effetto principale dovrebbe passare attraverso il tasso d'interesse: se questo è fisso ed i prezzi calano si riduce il PIL nominale (assumiamo per semplicità crescita reale uguale a zero, che nel caso italiano è una approssimazione realistica), quindi si riduce il gettito fiscale nominale ed il peso degli interessi aumenta. Tutto giusto ma dipende dall'ipotesi di tassi rigidi, la quale funziona per il debito già emesso e di lunga durata ma non funziona per quello che viene continuamente emesso. Detto altrimenti, l'impatto nel breve periodo è senza dubbio negativo sul bilancio pubblico ma l'effetto è solo a breve e dipende moltissimo da quanto i tassi sul debito di nuova emissione si riducono. Vi è un secondo effetto: i maggiori interessi reali aumentano il reddito dei proprietari di debito pubblico, mentre le maggiori tasse su tutti riducono il rddito di chi non possiede debito ma paga le tasse. Si genera quindi un effetto redistributivo simmettrico a quello dell'inflazione. Quest'ultima redistribuisce dai creditori ai debitori, la deflatione dai debitori ai creditori . A priori non vi è ragione di concludere che una redistribuzione di reddito sia favorevole alla crescita e l'altra sfavorevole, vale insomma l'argomento precedente. Concludendo: la deflazione, nel breve periodo, ha un effetto negativo sul bilancio pubblico dei paesi indebitati e questo spiega perché, noi crediamo, essa sia oggi lo spauracchio europeo e, in particolare, italiano. Ma questo non implica depressione economica.

Notavamo sopra che un ruolo cruciale è svolto dalla flessibilità o rigidità dei salari nominali. Poiché quello che conta per le decisioni di consumo e offerta di lavoro dei lavoratori e per le decisioni di investimento e domanda di lavoro delle imprese è il salario reale (il rapporto tra salari nominali e livello dei prezzi, W/Pnel caso in cui i salari nominali decrescano allo stesso tasso dei prezzi, la deflazione è sostanzialmente irrilevante. Il timore della deflazione è quindi legato all'idea che essendo i salari rigidi verso il basso (gli altri prezzi evidentemente non lo sono, visto che c'è per ipotesi la deflazione) il mondo sarà risucchiato nella spirale deflazionistica perché si abbasseranno i prezzi ma non i salari e le imprese falliranno (magari prima di fallire cercheranno di sostituire lavoro con altri fattori produttivi e i ci saranno quindi più opportunità di lavoro nei settori che producono questi ultimi, ma sorvoliamo su questo).  In teoria è possibile spiegare la rigidità dei salari nominali quando tutti gli altri prezzi, compresi i tassi di interesse. Ma se il salario nominale rimane fisso e i prezzi diminuiscono, il salario reale cresce e la distribuzione del reddito va a favore dei lavoratori/consumatori.  In questo scenario la domanda reale aumenta, eliminando quindi il problema del calo della domanda di consumi e quindi anche il rischio di una spirale deflazionistica.

Il caso del Giappone

Veniamo ora alla deflazione giapponese. Siccome questo articolo è già lungo abbastanza ci limiteremo ad alcune affermazioni apodittiche rinviando il lettore dubbioso ai lavori di ricerca dove i dati su cui si basano le nostre affermazioni vengono riportati (qui trovate svariate statistiche macroeconomiche, qui vi interessano invece le figure 1-3, svariati papers di Selo riportano informazioni su debito e TFP mentre qui trovate le statistiche dettagliate sulla produttività). Il punto di fondo che vorremmo comunicare è il seguente: dopo due decenni dall'inizio della "depressione deflazionistica" giapponese, vale la pena osservare che

  • Il PIL reale pro capite in Giappone era nel 2012 circa il 18% superiore al livello del 1990, in Italia leggermente minore di allora.
  • Il prodotto lordo per ora lavorata (produttività) in Giappone è oggi circa il 35% maggiore di 20 anni fa, in Italia è del 6% maggiore di allora. 
  • Il tasso di disoccupazione giapponese è quasi un terzo (1/3!) di quello italiano a fronte di una partecipazione alla forza lavoro maggiore di circa il 25%.

Detto altrimenti: se il Giappone è in una "recessione ventennale" a causa della persistente "deflazione" noi siamo da vent'anni in un disastro molto peggiore e questo nonostante che il tasso d'inflazione italiano, nello stesso periodo, sia stato positivo e fra i maggiori dell'area euro (non a caso l'Italia ha bisogno di deflazionare ed i profeti dell'uscita dall'euro sperano di ottenere questo via svalutazione della moneta, ma lasciamo stare). A noi pare che, un minimo di riflessione, dovrebbe permettere a chi non ha fette di salame sugli occhi di comprendere che la lunga deflazione giapponese ha una causa fondamentale, che è la seguente:

 

Seemingly, there would be no linkage between demography and deflation. But it may not be the case. A cross-country comparison among advanced economies reveals intriguing evidence: Over the decade of the 2000s, the population growth rate and inflation correlate positively across 24 advanced economies. That finding shows a sharp contrast with the recently waning correlation between money growth and inflation. How could we square those facts with each other? [Shirakawa, Masaaki,  BofJ2012.]

 

Un post su nFA, per serio e meditato che possa essere, non è il luogo adatto per sviluppare nei dettagli questa riflessione, ragione per cui la lasciamo in sospeso. Vale la pena menzionare, però, che essa non è patrimonio esclusivo del governatore della BofJ. Da tempo svariati ricercatori, a cui la conventional wisdom non ama prestare troppa attenzione, si chiedono senza pregiudizi quali possano essere gli effetti di lungo periodo che il cambiamento demografico (calo delle nascite e crescita speranza di vita) possa avere sull'attività economica. Una riduzione progressiva e duratura dei prezzi dei beni immobili è ovviamente la prima conseguenza dalla quale, a noi pare, seguono ovviamente altre. Ma questo è un paper i cui dettagli non sono ancora stati scritti e che sarà bene scrivere anche perché permette di capire in che senso ed attraverso quali canali non ovvi l'immigrazione di forza lavoro giovane dia un contributo positivo al benessere economico di un paese. 

La morale, comunque, è che il Giappone non è in alcuna particolare depressione economica da deflazione e che quest'ultima, nello specifico, ha cause complesse che non si possono facilmente alleviare né con gigantesche emissioni di debito per finanziare spesa pubblica inutile, né con espansioni monetarie che mirino ad una drammatica svalutazione della moneta. E se qualche lettore pensa che la parte "spesa+svalutazione" dell'approccio "Abenomics" sia la strada giusta, ci pensi meglio.

Conclusioni

Nè la teoria, né tantomeno i dati suggeriscono che la deflazione possa essere la causa di una profonda depressione economica. Anche nell'unico caso storico significativo in cui deflazione e depressione sono andate assieme, gli anni '30 del 1900, la relazione causale è abbastanza dubbiosa ed oggetto di continua discussione fra i ricercatori di storia economica. In media la deflazione si accompagna a crescita economica, non a recessione. Dal punto di vista della teoria economica, poi, l'argomento secondo cui "quando ci si attende che i prezzi calino si rimandano gli acquisti e questo crea un circolo vizioso recessione/deflazione" fa, con buona pace di Mike Woordford e di tutto il teorizzare sulla "forward guidance", acqua da tutte le parti sia sul piano logico che su quello delle predizioni. E tolta quella particolare teoria rimane nulla o quasi nulla a motivare la grande paura deflazionistica.

L'unica, assolutamente unica, ragione per cui oggi, nell'Europa del 2014, una seria e persistente deflazione potrebbe essere un fattore negativo di rischio è il debito pubblico a lungo i cui tassi non sono indicizzati alle variazioni dei prezzi. Paesi che, come l'Italia, sono altamente indebitati ed hanno emesso una quantità sostanziale di debito a lunga scadenza e con tassi nominali fissi vedrebbero accrescersi l'onere reale del debito se, davvero, il livello dei prezzi cominciasse a diminuire o ristagnare per svariati anni. Questo è un rischio reale, senza dubbio alcuno. Ma, da un lato, non ha alcunché a che fare con i problemi della crescita e dello sviluppo e, dall'altro, ha una soluzione non semplice ma senz'altro più diretta ed efficace di quella che i teorici del "pompa Mario pompa" pensano di aver trovato nella BCE, ed è la seguente. Emettere debito indicizzato e, a fronte di segnali seri di deflazione e di tassi reali in crescita, sedersi al tavolo con i detentori di debito pubblico a rinegoziare non tanto l'ammontare ma i tassi in essere. In un mondo in cui arriva ogni giorno qualche nuovo teorico della "ristrutturazione del debito" (leggesi, default concordato dello x%) proporre di rivedere i tassi nominali qualora un fenomeno deflattivo serio si manifestasse ci pare proposta ragionevole e moderata, oltre che fattibile. Tutto il resto ci sembra classificabile come fantasia giornalistica o specchietto per le allodole, a seconda dei gusti del lettore.

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Commenti

Ci sono 54 commenti

Una sola osservazione ad un articolo molto ben scritto e comprensibile anche ai non esperti.

Nell'articolo affermi:"Si genera quindi un effetto redistributivo simmettrico a quello dell'inflazione. Quest'ultima redistribuisce dai creditori ai debitori, la deflatione dai debitori ai creditori"

Se supponiamo che i debitori siano meno ricchi (come tu stessi anticipi "È quindi possibile che in media i creditori siano più ricchi dei debitori") non è plausibile che in deflazione la redistribuzione da debitori vs creditori possa comprimere la capacità di spesa dei meno ricchi a tal punto da incidere anche sui beni di consumo non durevoli?

Grazie

Il ragionamento incomincerebbe ad avere un minimo di senso se i debitori rimborsassero interamente i creditori. Ma la deflazione porta all'aumento dell'onere reale del debito con conseguenti fallimenti e guai grossi anche per i creditori. 

Che i debitori siano mediamente meno ricchi dei creditori.
Assunzione che a prima vista pare ovvia, anzi triviale, ma che non tiene conto della psicologia collettiva, e della situazione contingente italiana (e non), dove l'accesso al credito è precluso a chi non abbia una situazione finanziaria solida, e quindi è impossibile indebitarsi per far fronte alle necessità.

"Creditori", in italia, sono in molti casi padri di famiglia coscienziosi, che tirando la cinghia risparmiano una quota del loro reddito preoccupandosi dei loro figli. Uomini con stipendi da 2000€, che hanno un piccolo dossier titoli o un libretto di risparmio, dove hanno accumulato in trenta  anni di lavoro uno stock di 50-100 k€. I risparmi di tutta una vita.

"Debitori" sono spesso degli arruffoni affaristi, mestatori e trappolatori di dubbia moralità, che si definiscono "imprenditori" insultando la categoria. Mi vengono in mente gli esempi più clamorosi: Berlusconi e Briatore. Quest'ultimo un tempo era soprannominato Il Tribüla, per la mole di debiti che riusciva a fare.

Mi sa che Kaldor non è mai venuto in italia, e questi personaggi non li ha mai conosciuti.

Innanzi tutto complimenti per l'articolo. Veramente interessante.

 

In secondo battuta vorrei segnalare due refusi presenti circa a metà dell'articolo: "avrebber" e "rddito".

 

anche salri nominali

fare paragoni tra deflazioni in periodi e contesti storici radicalmente diversi non porta a risultati (per me) credibili, infatti, la deflazione che si ha quando si passa ad un sistema industriale (come viene fatto giustamente notare) è ovvio che sia associata alla crescita, ma questa non dipende sicuramente dalla deflazione quanto piuttosto al passaggio ad un nuovo sistema di produzione (non son mica le cartoline di natale che causano il natale...): anche se poi vendo a prezzi più bassi, produco comunque molti più beni che verranno venduti rispetto ad un modello non industriale (si hanno i primi impatti delle economie di scala giustamente), gli imprenditori dell'epoca son scesi a patti con questa realtà abbassando (giustamente) i prezzi dei beni.

il parallelo che si può fare al giorno d'oggi è che in effetti c'è un surplus nell'offerta a causa di una produzione industriale esagerata (l'ingresso di paesi come india e cina e altri paesi dell'asia pacific tra i produttori a basso costo ha cambiato parecchio le carte in tavola, e le cambieranno nuovamente quando i circa 3 miliardi di persone dei loro mercati potranno avere accesso a ciò che producono) per i consumi dei paesi ai quali è indirizzata (mi chiedo da quanto saremmo in deflazione se le BC di molti paesi non si fossero messe a fare quantitative easing...) ma gli imprenditori di oggi non vogliono scendere a patti con questa nuova realtà, da qui la crisi dei consumi: se io consumatore (che di questi tempi non lavoro nemmeno più o sono precario perché sei andato a produrre in altri paesi) so che a te imprenditore uno smartphone (o qualsiasi altro bene industriale, uso questo per facilità) costa (inclusi i costi di engeneering) circa 200/300 dollari e ne produci milioni perché devo comprarlo al doppio del suo valore e farmi fregare?!?!? la deflazione mi sembra la normale conseguenza di un sistema che si è inceppato, ma da qui a dire che la "crescita" (un giorno vorrei che qualcuno mi spiegasse cos'è la "crescita economica" nel momento in cui se io inizio a pagare milioni di tizi per fare una buca e ricoprirla ho di fatto avuto una crescita di pil per come è misurato...) si può avere con la deflazione anche in un economia basata sul terziario mi pare una forzatura...

 

in sostanza, devo ammettere che per quanto sia strampalato, il successo che sta avendo piketty con il suo illegibile tomo (molto bella la review che è stata fatta qui qualche mese or sono) è tutto fuorché insensato...

Visto che siamo circondati da ipotesi varie su sticky prices/wages, considerando il punto

 

"se i salari sono flessibili (punto su cui torniamo sotto), io mi aspetto che anche i miei redditi diminuiranno in termini nominali e quindi non ho ragione di differire l'acquisto"

 

non dovrei AUMENTARE l'acquisto di beni durevoli se i prezzi scendono piu' velocemente dei salari?

Altro punto:

 

Dovremmo quindi osservare almeno una delle tre seguenti cose: (a) una crescita maggiore nei prezzi dei beni d'investimento che in quelli dei beni e servizi consumati; (b) un cambiamento nella composizione settoriale dell'output (meno beni di consumo per i poveri debitori, più beni di consumo e beni d'investimento per i ricchi creditori); (c) una relazione negativa fra i tassi di variazione degli indici dei prezzi al consumo e degli indici dei valori patrimoniali, immobiliari e non. Che noi si sappia nessuna di queste predizioni è confermata dai fatti. 

 

Si fa un gran parlare di asset prices bubble, che e' esattamente (a). I rendimenti dei bond sono ai minimi, i P/E crescono, le IPO proliferano...

Credo che il primo punto sia ribadito nel testo: SE i salari sono rigidi ed i prezzi calano per deflazione ALLORA il reddito reale dei lavoratori dipendenti cresce e con esso la loro domanda di beni e servizi. 

Per quanto riguarda il secondo, occorre fare attenzione. I prezzi delle azioni e dei titoli finanziari in generale hanno una ben scarsa relazione con i prezzi dei beni fisici di investimento, delle costruzioni industriali, eccetera. Ossia, con il costo effettivo dei beni capitali, per i quali vale quanto osservato: predizione non confermata perche' i prezzi dei beni fisici d'investimento calano in termini relativi a quelli dei beni di consumo da almeno 40 anni, ossia i loro valori nominali crescono meno della media.

"Il cambiamento demografico (calo delle nascite e crescita speranza di vita) possa avere sull'attività economica. Una riduzione progressiva e duratura dei prezzi dei beni immobili è ovviamente la prima conseguenza dalla quale, a noi pare, seguono ovviamente altre."

Ci sono degli studi in proposito? Sono molto interessato a questo aspetto 

queste le sue considerazioni sull'inflazione, invece

 

krugman.blogs.nytimes.com/2014/04/06/oligarchy-and-monetary-policy/

bell'articolo, chiaro e semplice. provo a capire meglio un punto cruciale, la rivalutazione dei debiti pubblici in caso di deflazione.

 

(la spaziatura è mia) Paesi che, come l'Italia, sono altamente indebitati ed hanno emesso una quantità sostanziale di debito a lunga scadenza e con tassi nominali fissi vedrebbero accrescersi l'onere reale del debito se, davvero, il livello dei prezzi cominciasse a diminuire o ristagnare per svariati anni. Questo è un rischio reale, senza dubbio alcuno. Ma, da un lato, non ha alcunché a che fare con i problemi della crescita e dello sviluppo e, dall'altro, ha una soluzione non semplice ma senz'altro più diretta ed efficace di quellache i teorici del "pompa Mario pompa" pensano di aver trovato nella BCE, ed è la seguente.

1)Emettere debito indicizzato e, a fronte di segnali seri di deflazione e di tassi reali in crescita,

2)sedersi al tavolo con i detentori di debito pubblico a rinegoziare non tanto l'ammontare ma i tassi in essere.

In un mondo in cui arriva ogni giorno qualche nuovo teorico della "ristrutturazione del debito" (leggesi, default concordato dello x%) proporre di rivedere i tassi nominali qualora un fenomeno deflattivo serio si manifestasse ci pare proposta ragionevole e moderata, oltre che fattibile.

 

sorvolo su debito-crescita non correlati: è vero nel senso che le prestazioni di un veicolo non sono legate direttamente all'eventualità che collassi in modo imprevedibile. è ovvio che però entrambi i fattori vanno considerati con la stessa priorità.

principalmente, ho dubbi sugli interventi 1) e 2).

1)una elevata duration finanziaria dei titoli garantisce infatti parecchia inerzia nei confronti di perturbazioni dei tassi anche elevate ma di breve durata, le fluttuazioni incontrollabili. chi sceglie un mutuo a tasso fisso piuttosto che variabile, gode sempre  della certezza della rata e la convenienza, a priori non è determinabile,  si vedrà alla fine. la indicizzazione proposta è poi all'indice dei prezzi, molto peggio perchè questo è meno prevedibile dei tassi a breve, su cui c'è il controllo delle banche centrali.

un buon esempio  lo si può leggere qui: il mercato è arrivato ad accettare anche tassi reali negativi, apparentemente incomprensibili in un titolo indicizzato, pur di tutelarsi dall'incertezza dei prezzi, massima in prossimità di inflazione nulla. vuol dire che l'emittente si è accollato qualche rischio! è per questo motivo che i vari BTPei, tips, OATi, tutti con struttura molto simile, son emessi con parsimonia sul totale dei debiti (quelli italiani sono il 12,5%, i tips meno del 10%, chi ha dati più precisi faccia la carità), perchè possono sfuggire di mano. la "scala mobile" quando è stata inventata, sembrava una buona idea.

2)  rinegoziare coi creditori principali differisce dal default solo se l'adesione è volontaria e non ha valore erga omnes. è irrilevante che si parli di interessi e non di capitale, anche i creditori dell'argentina nelle due operazioni di concambio del 2005 e 2009 hanno avuto titoli dello stesso valore nominale, che il mercato poi ha prezzato a meno di 50.

nel caso italiano, avere un importante consenso alla rinegoziazione è molto facile,  i grandi creditori sono banche  a controllo politico. i risparmi che ottiene lo stato sono però perdite che vengono iscritte pari pari nei  bilanci bancari,  e conseguente restrizione del credito eccecc. la coperta è corta.

un obiettivo di inflazione quasi certa, attorno a quel 2%  magico, sembra allora una situazione molto meno pericolosa del barcollare attorno allo zero.

 

Per una sola e semplicissima ragione: il debito pubblico, emesso a tassi nominali.Aggiungo qualche commento a ciò che dice dragonfly qua sopra.

La soluzione proposta nel post mi pare assai poco credibile. L'emissione di titoli indicizzati può avvenire solo nel tempo e certo non è una soluzione di breve periodo. In più, con aspettative incerte di deflazione rischiamo di dover pagare tassi più alti sui titoli a breve.  Quando c'è deflazione il contante tenuto in cassaforte offre un rendimento reale pari al tasso di deflazione attesa, anziché un rendimento reale negativo come adesso. I titoli a breve dovrebbero offrire qualcosa di più (anche se non molto) del contante. Questo farebbe alzare il costo medio del debito.

Anche sulla rinegoziazione del debito mi sembra che la facciate troppo facile.  Non ci può essere alcuna rinegoziazione volontaria, nessun creditore accetta spontaneamente di rinunciare ai suoi diritti. La rinegoziazione ci può essere solo se la deflazione conduce lo stato italiano alla bancarotta, con tutto ciò che questo comporta in termini di turbolenze nei mercati finanziari (e conseguente riduzione del livello di attività reale).  Onestamente, non vedo proprio perché rischiare una cosa del genere. Anche perché non vedo quali effetti negativi potrebbe mai avere una inflazione stabilizzata al 2-3%.

Non c’è più la buona deflazione di una volta, signora mia!

 scrivo a nome dei prof Feinstein (autore delle stime del PIL inglese), Gallman (USA) Hoffman (Germania) e Toutain (Francia).  Nessuno di loro è ancora fra noi, e quindi mi incarico io di scusarmi a nome loro per aver passato anni a produrre delle stime del PIL per

 

Un’epoca in cui l’econometria neppure esisteva e le cui serie sono state ricostruite a posteriori, a partire dagli anni ’60, sulla base di notizie frammentarie circa la produzione del grano o l’estensione delle ferrovie.

 

Se solo avessero avuto la possibilità di conoscerLa, avrebbero sicuramente usato meglio il loro tempo e il tempo dei loro collaboratori. E mi scuso anche a nome del mio vecchio amico  Angus Maddison, anche lui purtroppo scomparso che ha passato anni a rendere comparabili le stime del PIl per paese.  Le suggerisco di rendere meglio noto al pubblico degli economisti e degli storici economici il Suo illuminato parere. Purtroppo sono ancora ottenebrati e usano questi dati per i loro lavori che poi vengono citati e magari finiscono per influenzare l'opinione pubblica. Ma basterà una Sua parola per disperdere le tenebre e far finire questa inutile idolatria dei dati




Segnalo anche quest'altra recensione.

.... che keynesblog interviene.

Devo ancora leggere tutto (qui ed anche su kb) ma intanto segnalo che questo articolo su nfa è firmato mentre quello su kb no (io almeno ad una prima lettura lo reputo anonimo). Già il fatto che qui economisti ci mettano la firma e la faccia la dice tutta.

 

Tranquillo, se vai su "chi siamo" ci sono i nomi. E' il tipo qui sopra che non e' riuscito ad evitare di autocitarsi. 

Lasciando perdere il fatto che sarebbe stata cosa sensata disaggregare i dati sull'inflazione, visto che l'area Euro è tutt'altro che omogenea;  prescindendo dalla considerazione che tutti i banchieri centrali occidentali, che in un modo o nell'altro hanno operato dei QE, siano imparuti dalla perdurante e più che probabile deflazione,  perché anche loro " ignorano la teoria"; non menzionando la circostanza che siamo in un periodo dove gli investimenti privati, persino in Germania e Irlanda,  sono ai minimi storici,  e che dai bollettini BCE si evidenzia come anche la DOMANDA di credito sia in costante calo, e che quindi parlare per l'Europa di "deflazione BUONA da progresso tecnico" o di origine demografica come in Giappone, o per la Globalizzazione (processo in atto da almeno 30 anni)  non si sa che senso abbia;  MA:

 

 

 

qui si sta sostanzialmente suggerendo di fare DEFAULT de facto sul debito,  come un qualsiasi paese che si rivolge al Club di Parigi, e per giunta rimanendo nell'euro zona?  E poi chi ci va a parlare con gli investitori esteri? 

 

Questa è una roba che se l'avessero affermata Grillo o Paolo Savona gli saremmo saltati al collo. 

 

prescindendo dalla considerazione che tutti i banchieri centrali occidentali, che in un modo o nell'altro hanno operato dei QE, siano imparuti dalla perdurante e più che probabile deflazione,  perché anche loro " ignorano la teoria"

 

 

Attenzione, complotto keynesiano in corso...

Ah no, era il buon Milton che suggeriva di gettare i soldi dall'elicottero :)

Ma segnalo questo articolo perché è in tema

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/24/pil-crescere-nonostante-la-deflazione-sarchiaponica/959419/

se ho ben inteso, dà una versione pop dell'articolo ex cathedra pubblicato qui sopra.

in effetti se vediamo quanto costava una FIAT topolino (20 volte lo stipendio di un operio specializzato) e quanto costa una 500 oggi, se vediamo quanto costava il primo PC IBM del 1984 (9 milioni di lire) e quanto costa oggi (non parliamo della qualità, in entrambi i casi), se vediamo quanto pesava un TV del 2000 e quanto pesa oggi nonché quante ore di lavoro erano necessarie allora ed oggi per fare un TV, un PC o una vettura, è chiaro che l'aumento di produttività nel settore privato implica incremento dei redditi, del PIL e diminuzione dei prezzi. La diminuzione dei prezzi non implica una diminuzione della domanda. Questa, causata da aumento di produttività, è la la deflazione buona, a cui si contrappone l'incremento di spesa statale unita alla sostanziale riduzione di qualità dei servizi pubblici. Che genera la deflazione "cattiva".

No, niente, ho solo letto un paio di commenti ...

se la deflazione è così perniciosa, occorre una legge che impedisca di ridurre i prezzi e incentivi invece gli aumenti.

nonostante sia una risposta semplice e  nel caso di inflazione, piena di precedenti storici, nell'attuale contingenza sembra che non ci abbia ancora pensato nessuno.

mi riservo tutti i diritti. :-)

Tempo fa leggendo di inflazione ho recepito il concetto per cui l'inflazione di per se stessa non è tanto o solo l'incremento generalizzato dei prezzi ma per essere tale deve essere associata anche ad aumento dell'offerta di moneta. Ricordo (male?) di aver letto un ragionamento del tipo che non basta che i prezzi aumentino, per avere inflazione. Bisogna anche che circoli una massa monetaria superiore, da qui poi la svalutazione della moneta stessa. Ok, ora i termini sono diventati tre, aumento di prezzi, aumento della massa monetaria, svalutazione della moneta.

Magari ho recepito male, magari è un tema controverso tra studiosi (o scuole), ma intanto mi chiedo se per la deflazione valgano ragionamenti speculari. Qui la deflazione è stata definita come una diminuzione generalizzata dei prezzi. Nessun accenno a dinamiche relative alla massa monetaria ed al valore della moneta.

Eppure qualche legame potrebbe esserci. Se l'offerta di moneta diminuisse, i meno soldi in circolazione innescherebbero una rincorsa a prezzi piu' bassi? Meno soldi in circolazione significherebbero maggior valore della moneta?

Queste dinamiche servono per discriminare tra deflazione buona e cattiva?

in realtà come oggi segnalato qui

www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-06-28/si-chiude-semestre-record-borse-e-btp-occhi-puntati-inflazione-ue-200850.shtml

al crescere della massa monetaria del 1% corrisponde un'inflazione bloccata allo 0,3% sui prezzi e -0,1% sui prezzi alla produzione

Non vorrei scrivere una fesseria, ma l'inflazione È la crescita del livello dei prezzi.

 

Mi dicono che "inflation is always and everywhere a monetary phenomenon", che penso voglia dire che a lungo termine una crescita degli aggregati monetari causa inflazione.

Banalmente alla moneta, come ad ogni altro bene, si applica la legge della domanda e dell'offerta.La domanda dipende dall'andamento dell'economia e un sacco di altri fattori (esempio: in periodi di crisi tanti comprano dollari), l'offerta la decide la banca centrale.

Poi i dettagli mi sfuggono, ma credo che il nocciolo sia quello

  con una considerazione e una seconda domanda; quando ero giovane (a cavallo del 1980) "rincorrevo" l'inflazione nel senso che, visto un bene che costava X, nel tempo che ci mettevo ad accumulare la cifra necessaria il prezzo era aumentato e quindi dovevo rinviare l'acquisto o rinunciarvi del tutto; oggi (che non sono più giovane) il prezzo rimane stabile (qualche rara volta diminuisce) ma io non ho più una fonte di reddito costante per cui non mi lancio in acquisti che potrebbero rivelarsi controproducenti. Dove sta la differenza?

Mi chiedo se tuttavia la deflazione non potrebbe avere effetti distorsivi sugli investimenti in attività produttive, in quanto essi rischierebbero di entrare in concorrenza con la semplice tesaurizzazione, e quindi sarebbero scoraggiati investimenti che, pur dando un ritorno in termini reali, non lo dessero ad un tasso superiore a quello della deflazione stessa, tra l'altro potendo fare diminuire l'investimento complessivo - in un certo parallelo a quanto dice del debito Sandro Brusco sopra, alle 14:04 del 26-6.

Specularmente, in una situazione inflattiva potrebbero venire premiati anche investimenti non remunerativi in termini reali, distruggendo ricchezza.

 

 

I casi del Giappone e del Regno Unito fanno pensare che stimoli importanti all'economia siano sostanzialmente inflattivi (forse solo gli USA se li possono permettere).

Anche la Cina rallenta (è il Punto di svolta di Lewis..)

Interessante il commento di questo economista giapponese sugli "aiuti" all'economia.. "The higher the mountain, the greater the descent"  (Takeshi Minami)

Una deflazione necessariamente comporterebbe un calo degli investimenti e dei consumi, quindi l'aumento di produzione non potrebbe continuare, visto che il mercato si è ridotto.
Infatti non ha 
alcun senso mettere i soldi in banca, basterebbe metterli in cassaforte.
Se poi si volessero investire quei soldi, l'interesse (reale) sarebbe necessariamente maggiore.

Se la moneta si svaluta del 2%, e la banca mi da il 2% d'interesse, io sono disposto a mettere i miei soldi in banca, quindi investire.

Se la moneta si rivaluta del 2% allora la banca mi deve dare il 4%. Sennò cassaforte...

Infatti nel primo caso, la banca chiede il 4% di interesse su 100 euro di prestito.
L'impresa restituirà 104 euro alla banca, che se ne tiene 2 (il suo ricavo), e ne dà 102 a me, che accordato all'inflazione al 2% significa 0% reale.
Non ci ho guadagnato, non ci ho perso, ma mi è convenuto altrimenti se li tenevo in cassaforte perdevo 2 euro!


Nel secondo caso la banca deve chiedere il 6% d'interesse all'impresa, che restituirà dopo un anno 106 euro, alla banca, che se ne tiene 2 (il suo ricavo), e ne dà 102 a me, che accordato alla deflazione del 2% significa 2% reale (in realtà sul valore futuro è meno del 2%).
Ora diranno: ma perchè nel primo caso ti andava bene l'interesse reale dello 0%, mentre nel secondo caso vuoi almeno il 2%?

E' presto detto se si ragiona razionalmente: 
- caso inflazione, se non metto i soldi in banca perdo 2 euro, quindi se li metto e ne perdo 0 la banca mi ha fatto guadagnare 2 euro.

- caso deflazione, se non metto i soldi in banca guadagno 2, quindi se li metto e ne ricavo 4, la banca mi ha fatto guadagnare 2 euro.

In pratica il valore aggiunto della banca è sempre 2 euro, ma l'interesse nominale e anche quello REALE, cambia.

Perciò il costo del denaro si alza, quindi si alzano anche i costi di avviamento delle imprese dato che si alzano gli interessi REALI.

A questo punto le imprese per avere lo stesso utile avendo avuto delle spese superiori, devono anche alzare i prezzi. E qui arrivano dei complessi algoritmi, per cui se prima ti vendevo il prodotto a 100 euro, adesso nonostante la deflazione, per giustificare l'investimento nel breve periodo, devo venderti il prodotto per lo meno a 104 euro (per lo meno, di solito a molto di più).

Quasi sempre, dal 700 olandese, all'800 americano, al 1929, agli anni 70 britannici, quando blocchi l'emissione di moneta senza alcun criterio, le imprese falliscono a catena, aumenta la disoccupazione, e i prezzi continuano a salire.


Anche se questo meccanismo si reggesse a livello di mercato interno crollerebbe dato che crollerebbero le esportazioni.

Insomma è difficile pensare che la deflazione sia sostenibile.

http://www.atkearney.com/documents/10192/4572735/Ready+for+Takeoff+-+FDICI+2014.pdf/e921968a-5bfe-4860-ac51-10ec5c396e95 persino da noi..che siamo rientrati nelle prime 10 più "appetitose". Certo..mi si dirà che era meglio investire che essere investiti.. Effetto calo dei prezzi. Vi sarebbe anche un interessante aspetto forse trascurato che differenzia sostanzialmente, qualficandole, inflazione e deflazione. L'effetto sulla gente. Ma è tardi, la prossima volta semmai. ::)

ps: qui uno studio di causalità cadrebbe a fagiolo (il calo dei prezzi favorisce gli investimenti stranieri in entrata? La Deflazione è impermeabile alla globalzzazione)