In questi mesi di profonda recessione è comprensibile se tutta l’attenzione si focalizza su come uscire nell’immediato dalla crisi. Quale politica fiscale e quale politica monetaria bisogna adottare? Additare l’euro sta diventando un po’ la caccia alle streghe della politica monetaria, come già accennato. Mentre per la politica fiscale il rimedio delineato da Fermare il Declino (meno tasse per stimolare la crescita, finanziate da meno spesa pubblica) dovrebbe essere condiviso anche da chi non ne capisce i meccanismi. Questo per il semplice fatto che è l’opposto della spirale di più tasse e più spesa pubblica che ha gradualmente soffocato la crescita e che ha portato l’Italia al capolinea dell’indebitamento.
Queste soluzioni sono però delle ricette temporanee che non tengono conto del problema di fondo che ha spinto lo stato italiano ad essere all’ultimo posto al mondo in crescita economica. E’ come un colpo di reni in una gara di ciclismo, che ti permette al massimo di fare uno sprint, ma non di mantenere un passo sostenuto. In sostanza non basta proporre una programma adeguato, e nemmeno cambiare la classe politica, perché se non riformi la struttura di uno stato mancheranno sempre gli incentivi per effettivamente cambiare l’attuale meccanismo politico. Si può anche riempire il parlamento di grillini, come vent’anni fa lo si è riempito di leghisti, sempre per mandare a casa la classe politica precedente, per cambiare tutto e non cambiare nulla, ma si manterrà lo stesso una traiettoria in graduale decadenza.
Il problema strutturale è noto. L’Italia è un paese che gestisce una realtà molto eterogenea in maniera centralista. Da una parte ci sono delle regioni che danno molto di più di quanto ricevono, e sono quindi oberate da una pressione fiscale al netto eccessiva che le rende poco competitive e perdenti nel mercato globale. Dall’altra parte ci sono regioni che ricevono cronicamente più di quanto danno alimentando un sistema clientelare che incrementa il loro sottosviluppo.
Fermare il Declino ha incorporato nel suo programma una proposta di riforma strutturale con effetti di lungo termine: l’introduzione del “vero” federalismo. Questo è l’unico punto che mi trova fondamentalmente contrario. Non metto in dubbio che un vero federalismo potrebbe in teoria fare funzionare lo stato italiano. Introdurrebbe quel minimo di efficienza stimolando la crescita sia nelle regioni settentrionali che in quelle meriodionali, se solo fosse possibile attuarlo. La ragione per cui sono contrario a questo punto, non è l’obiettivo per se, ma l’impossibilità matematica di ottenere il consenso politico necessario per approvarlo. E se manca un’analisi su come sia possibile raggiungere un obiettivo, questo diventa una vuota promessa elettorale.
Ecco perché ritengo impossibile che uno stato cristallizzato in un centralismo cronico venga riformato dall’alto.
Semplifichiamo al massimo il ruolo dello stato come ente pubblico che prende (tasse) e da (spesa pubblica). Quanto viene prelevato e elargito dipende da chi viene eletto, e viene eletto chi soddisfa la maggioranza degli elettori. Guardiamo quindi cosa interessa all’elettore: il nostro cittadino, i, trae beneficio (utilità, ☺) dal bene pubblico, g, che viene finanziato con delle tasse, t, che però a loro volta svantaggiano il nostro signor i perché riducono il suo consumo privato, c:
☺i = ci + ge siccome ci = (1 - t)yiallora ☺i = (1 - t)yi + g
Pensiamo ad una città-stato dove il bene pubblico, g, è un ospedale che porta un beneficio standard a tutti i cittadini (e quindi non è indicizzato con i), e per finanziarlo ogni cittadino paga una tassa in percentuale fissa, t, sul proprio reddito, yi. Naturalmente, ogni cittadino ha un reddito diverso e quindi pagherà un livello di tasse diverso per poi avere tutti il medesimo bene pubblico. Per questo ognuno ha un’idea diversa di quale sia la politica fiscale ottimale, perché ognuno avrà delle faccine,☺i, diverse a seconda del reddito e della politica fiscale adottata.
Nella nostra città-stato vige la democrazia e i politici si candidano a governare proponendo una determinata politica fiscale. Supponiamo che il pareggio di bilancio sia obbligatorio (non ci si può indebitare), quindi i due candidati propongono una spesa pubblica, g, che automaticamente corrisponderà ad una tassa, t, che servirà a finanziare questo bene pubblico:
Pareggio di Bilancio (T=G): Totale Entrate Fiscali, T, è uguale a tot spesa pubblica, G
Dove le entrate fiscali sono la somma delle tasse su ogni individuo: T = ∑i t*yi
Dove i bene pubblico gustato dal singolo, g, equivale alla spesa pubblica totale, G, divisa per il numero di abitanti, I: g = G/I
Ora, in questa città-stato c’è chi è più ricco e chi è più povero. Il povero ci guadagna (☺) da questo bene pubblico, perché paga meno tasse di quanto usufruisce di questo bene pubblico. Mentre il ricco ci perde (☹) perché paga in tasse di più di quanto beneficio gli porta il bene pubblico. Più povero sei, più bene pubblico e più tasse vuoi. Invece più ricco sei meno bene pubblico e meno tasse vuoi.
In un confronto elettorale vincerà il candidato con in programma una spesa pubblica che soddisfa il 51% dei cittadini, e cioè che soddisfa marginalmente quell’elettore mediano che si trova nel bel mezzo della distribuzione di reddito. Più povero sei rispetto al elettore mediano, più ci guadagni dalla politica fiscale vincente, più ricco sei di quel elettore mediano, più ci perdi.
[NOTA TECNICA: Da come è impostato il problema si avrà una corner solution con tasse al 100%. Basta supporre un’utilità semi lineare, ☺i = ci + H(g) , dove H(∙) è una funzione concava, per avere un risultato più realistico con tasse tra lo 0% e il 100% ]
Può piacere o no, ma questo è quanto succede in democrazia con un bene pubblico finanziato da tasse: esiste una redistribuzione di risorse dettate dalla maggioranza. Chi sta in mezzo è indifferente, chi è povero ci guadagna dallo stato sociale, e più uno è ricco più si sente fregato.
Ora, invece di una città-stato consideriamo un paese di 60 milioni di abitanti. Non la Francia dove non ci sono forti discrepanze di reddito tra regioni, ma l’Italia dove questa eterogeneità di reddito è distribuita anche geograficamente. Questa è una differenza importante perché in un paese geograficamente omogeneo come la Francia, anche se esiste una eterogeneità di reddito in ogni regione, i parlamentari che vengono eletti da ogni regione cercano di soddisfare i loro rispettivi elettori mediani (che garantiscono il 51%, e cioè la vittoria elettorale), e quindi si assomiglieranno per quanto riguarda la politica fiscale. In Italia invece, per vincere in Veneto devi essere per meno tasse, mentre per vincere in Calabria devi essere a favore di più fondi pubblici.
Riprendo la distribuzione di tasse e di spesa pubblica per regione, calcolata dai Conti Pubblici Territoriali.
Si può notare come la distribuzione delle entrate fiscali per regione è molto diversa e combacia con un eterogeneità dei redditi medi regionali. La distribuzione di spesa pubblica non è piatta, ma è molto più omogenea. Questo produce i noti residui fiscali che sono preoccupanti solo per 5 regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana). In queste 5 regioni vivono 27 milioni e mezzo di abitanti, e quindi anche se un partito territoriale prendesse il 100% in queste regioni (e 0% nelle altre) sarebbe comunque in minoranza in parlamento.
Quando si parla di vero federalismo si intende sicuramente qualcosa che dia un alto grado di autonomia fiscale ad ogni regione, magari addirittura la possibilità di abbassare l’IVA a piacimento, come negli stati d’America. Questo è naturalmente impossibile in Italia, a meno che non introduci una riforma costituzionale, che richiede i due terzi del parlamento. Allora il nostro elettore decisivo non è più al 51%, ma al 67%.
Si potrebbe convincere i rappresentanti politici eletti in quelle regioni intermedie (Marche, Trentino, Friuli, Liguria, Umbria, Abruzzo) che i loro residui fiscali persi nel breve termine sono modesti, e che nel lungo termine ci guadagnerebbero da un sistema federale. Volendo magari sarebbero favorevoli anche Valdostani e Sardi che pur perdendo notevoli residui fiscali, magari appoggiano un sistema federale per ragioni culturali. Aggiungendo anche il 100% dei voti in queste ulteriori regioni arriviamo ad una popolazione di 37 milioni di abitanti, che è meno del 67% del totale.
Perché mai 5,8 milioni di campani, 5,7 milioni di laziali, 5 milioni di siciliani, 4 milioni di pugliesi, 2 milioni di calabresi, 500 mila lucani, e 300 mila molisani dovrebbero rinunciare a decine di miliardi di euro all’anno? Ci sono sicuramente diversi meridionali che pagano molte tasse e i soldi pubblici non li vedono neanche con il binocolo, ma sono una minoranza. L’elettore mediano in una regione del Sud decisamente ci perde, e nessun parlamentare verrebbe mai eletto in Sicilia con l’intento di attuare una vera riforma federale che eliminerebbe fondi che ammontano al 20-30% del Pil siciliano.
Questi sono calcoli semplificati, ma il punto è il seguente. Si può argomentare che nel lungo termine un sistema federale gioverebbe a tutti. Però nel breve termine è un gioco a somma zero, e il guadagno per l’elettore mediano veneto è una perdita per l’elettore mediano siciliano. Nel parlamento italiano non ci sarà mai una super maggioranza per questo tipo di riforma. Ne sa qualcosa la Lega Nord, che ha tentato di salvare la faccia proponendo un federalismo solo di nome. Un vero federalismo non lo potevano passare perché totalmente contro gli interessi dei loro stessi alleati del Pdl Sicilia. Per questa ragione è impossibile che qualsiasi maggioranza democraticamente eletta nel parlamento italiano abbia gli incentivi necessari per attuare una vera riforma dello stato italiano.
La conclusione è esatta, ma non condivido il percorso logico.
Prima di tutto, perché tutti i partiti, da 30 anni, promettono invece la stessa cosa: meno tasse e meno spesa pubblica. Tanto anche se ci provano (pensiamo al quell'invasato antistatalista di Brunetta) non ci riescono, in quanto la spesa cresce da sola automaticamente senza possibilità di frenarla.
Secondo, perché alla classe politica importa un baffo del consenso. Neanche di fronte a milioni di firme la ns. classe politica fa una piega. Neanche se il 90 % dei votanti gli abolisce la proporzionale o il finanziamento dei partiti muovono un dito contro se stessi.
Maddài. O li prendi alla sprovvista con un sotterfugio, come fece Cossiga quando approvò all'ultimo minuto il referendum Segni (e gliela fecero pagare). Oppure gli basta un semplice "no". Anzi, neanche quello. De miminis non curant.
Per questo io credo che invece, la chiave di volta potrebbe proprio venire dal locale, da una regioncina che dia il buon esempio e si stacchi.
Quale? Secondo me, da quella che meno di tutti è sotto il controllo della classe politica. Quella che più di tutti necessita di cambiamenti. Quella che è già a statuto speciale ma non gli basta. Quella che "altro che consenso": i propri concittadini delle altre regioni li chiama ancora "i piemontesi". Quella che allo Stato converrebbe non farsi dare una lira di imposte, se potesse rinunciare a sovvenzionarla.
Sì, sì, proprio quella li che non vuole nessuno. Forse le permetterebbero uno statuto specialissimo, ovvero una costituzione vera e propria che l'Italia non ha, ade esempio con diritti inalienabili (anche fiscali), con forme di democrazia diretta da spazzare via ogni traccia di partitocrazia, con vincoli di competenza degli amministratori (anche del potere legislativo ed esecutivo) e di buonafede per le cariche elettive (ex: remunerazioni compensanti solo il reddito perso).
E allora sì, che converrebbe attuare un processo di annessione federale.
Impossibile anche questo? Allora ci rimane solo una cosa: un processo di evoluzione culturale dei cittadini, un neo-illuminismo che spazzi via tutti i retaggi demagogici, cosicché quando tra un paio d'anni diranno agli statali che a fine mese non si paga lo stipendio, la gente saprà dove mirare.
Perché adesso, nessuno lo sa.
Siamo come nel seicento con le teocrazie. Lo status quo è un dato di fatto. L'idea è che "tanto, è così dappertutto".
Sarebbe necessario un "neo illuminismo" liberale, con unitarietà e solidarietà ideologica e di intenti. Una nuova "Alleanza Costituzionale", come quella di Giuseppe Maranini (che nel '48, all'indomani della pubblicazione della nostra orrenda ed inutile costituzione, coniò il termine "partitocrazia").
Ma chi potrebbe farlo passa invece il tempo ad insultare il collega o a fare la bella statuina. Anche in questo blog. Come diceva Ricossa, i liberali in Italia sono come mosche bianche, che si pasciono edonisticamente della loro originalità e solitudine.
Peccato.