Le quote di bankitalia: un approfondimento

/ Articolo / Le quote di bankitalia: un approfondimento
  • Condividi

La recente rivalutazione delle quote di partecipazione al capitale della Banca d'Italia ha suscitato reazioni accese ma non sempre informate sui fatti e i concetti in discussione.  Vorremmo illustrare 3 punti che riguardano fatti storici (recenti e antichi) che ci paiono utili e che, sorprendentemente, sono assenti dal dibattito. Ci soffermiamo ad analizzare le politiche di distribuzione dei dividendi. Per il tema del capitale sociale rimandiamo al post di Giovanni Federico. 

Le nostre considerazioni possono essere così riassunte.  È un fatto, illustrato al punto 1 per gli USA,  che la partecipazione delle banche commerciali al capitale di una banca centrale sia una prassi diffusa in diversi paesi al mondo, in virtù della quale i partecipanti  ricevono un dividendo sul reddito (o sulle riserve, quindi sui redditi pregressi) della banca centrale.  Al punto 2 documentiamo che in Italia tale prassi è stata seguita dopo la riforma del  1936. La generosità del contributo è variata nel tempo, crescendo significativamente a partire dagli anni 90. È un fatto (giusto o sbagliato che sia, vedere dopo) che  il "trasferimento di risorse alle banche''  da parte della banca centrale avviene da decenni, e che la rivalutazione delle quote avvenuta di recente, discussa al punto 3,  ha trasformato una serie attesa di flussi  futuri in un valore attuale. Stabilire se la rivalutazione effettuata di recente sia un (aggiuntivo) trasferimento  alle banche (rispetto a quanto sarebbe accaduto in sua assenza) richiede di prendere posizione sulla grandezza dei dividendi  futuri e sui rendimenti usati per attualizzarli. L' andamento erratico dei dividendi passati, e la discrezionalità  che lega i dividendi alle scelte dell'istituto, rendono possibile giustificare un ventaglio di valori enorme.  Concludiamo con una riflessione sull'efficienza del meccanismo di avere le banche commerciali quali partecipanti al capitale.

La partecipazione al capitale negli USA

La partecipazione da parte di privati al capitale di una Banca Centrale è  prassi diffusa nel mondo (succede in Belgio, Giappone, Svizzera e USA, solo per fare alcuni esempi). Ove tale partecipazione privata è  prevista essa dà diritto a godere di un dividendo annuale, determinato secondo i criteri definiti nello statuto della banca centrale stessa. Come semplice esempio di una banca centrale a partecipazione privata prendiamo il caso del sistema della Riserva Federale americana.  Il sistema di partecipazione privata al capitale della banca centrale statunitense si basa su due pilastri. Il primo pilastro è rappresentato dall'obbligo, per ciascuna banca commerciale americana, di versare al sistema delle Riserve Federali un ammontare di capitale proporzionale alla somma del proprio capitale e delle proprie riserve. In sostanza, più grande è la banca commerciale, maggiore sarà la somma che, sotto forma di quota partecipativa, essa deve versare alla Riserva Federale. A fronte di quest'obbligo, le banche commerciali ricevono in cambio un diritto (il secondo pilastro)  a godere di un dividendo annuale in percentuale fissa, pari al 6% del capitale versato (vedere la nota per secchioni #1 a pié di pagina per una verifica di questi conti).  

Due aspetti del sistema statunitense forniscono un  interessante termine di paragone per il caso italiano. Il primo riguarda l'andamento dei dividendi nel tempo. Come già sottolineato il primo pilastro implica che al crescere nel tempo dell'economia, e dunque al progressivo aumentare della capitalizzazione delle banche commerciali, cresca pure il capitale che, tramite nuove emissioni di titoli partecipativi, viene versato dalle banche commerciali alla Federal Reserve (si veda per esempio la discussione al terzo paragrafo di pagina 35). Di conseguenza i dividendi totali distribuiti dalla Federal Reserve sono destinati ad aumentare nel tempo. Si noti, tuttavia, che sebbene il valore complessivo dei dividendi cresca,  il  rendimento nominale del capitale versato rimane costante nel tempo,  pari appunto al 6%.  Il secondo aspetto riguarda l'adeguatezza o meno del rendimento del 6% previsto dallo statuto. In linea di principio, non è assolutamente scontato che le quote partecipative al capitale della banca centrale debbano essere remunerate. In particolare, se la remunerazione fosse fissata a zero, l'obbligo di partecipazione al capitale della banca centrale si configurerebbe semplicemente come una tassa sulle banche commerciali. In questo caso, infatti, la legge imporrebbe alle banche di immobilizzare un parte del proprio patrimonio presso la banca centrale, ricevendo in cambio un rendimento (zero, appunto) significativamente più basso di quello che avrebbero potuto ottenere impiegando le medesime risorse in altre attività poco rischiose (titoli di debito pubblico, per esempio). Per contro, garantire alle banche commerciali una remunerazione molto più elevata di un "ragionevole" rendimento di mercato, implicherebbe di fatto un sussidio da parte della banca centrale a favore delle banche private. Chiaramente, che il 6% sia da considerarsi come un "ragionevole" rendimento nominale dipende da vari fattori, primo fra tutti il livello d'inflazione (che, paradossalmente, è determinato proprio dalle politiche monetarie della banca centrale). Questa ultima osservazione può servire a interpretare la storia italiana. 

Italia:  la partecipazione al capitale dal 1936 a oggi 

Ci sono notevoli differenze tra il sistema americano e il sistema italiano (pre-riforma).  Come spiegato nel post di Giovanni Federico, nel sistema italiano il capitale sociale era stato versato nel 1936  per un ammontare pari a 300 milioni di lire. Per avere una idea delle grandezze, in euro odierni quel valore è circa 2.000  volte maggiore, circa  300 milioni di euro. Da allora non ci sono stati altri apporti di capitale da parte del sistema bancario. Nei primi 10 anni di vita dell'istituto, con il governatore Einaudi,  la  remunerazione di questo capitale era una parte fissa del capitale pari al 6 per cento (18 milioni di lire).  Il valore reale di questi flussi venne tuttavia presto eroso dall'altissima inflazione alla fine della 2a guerra.  In pochi anni il valore dei dividendi si polverizzo'  (si veda la figura 1).  

A partire dal 1948, il governatore Menichella integra la remunerazione al capitale di ulteriori 4% punti percentuali (portandola al 10% del capitale versato), aggiungendovi inoltre la distribuzione di un trasferimento  proporzionale alle riserve, secondo quanto consentito dall'articolo 56 dello statuto (di allora).  L'entità  dei dividendi distributi rimase in quegli anni su valori contenuti. Le ampie variazioni del rendimento nominale dei dividendi dimostrano che la partecipazione al capitale non aveva la natura di un bond nominale (a differenza di quanto succede oggi  negli USA).  I dividendi sulle partecipazioni sembrano avere  una natura più vicina all'equity,  o a un titolo reale (... a scoppio ritardato!). La Figura 1 mostra l'evoluzione dei dividendi, misurati a prezzi costanti in euro del 2011 (quindi in valore reale). Si vede come l' ammontare dei dividendi sia rimasto esiguo dagli anni 50 fino agli anni 90. A partire dal 1996 il valore dei dividendi liquidati ai partecipanti aumenta significativamente, passando da circa 10 milioni di euro nel 1998  a 60  nel 2008.

Un modo utile per riassumere la dinamica sul capitale inizialmente investito è quello di calcolare il rendimento dell'investimento.  La figura 2 riporta una misura di rendimento reale nell'anno calcolato come il rendimento nominale nell'anno (cioé i dividendi nell'anno in rapporto al capitale sociale espresso in euro di quell' anno), depurato dall'inflazione d'anno. È immediato vedere che fino agli anni 90 il rendimento è  pessimo, quasi sempre negativo.  Il rendimento annuo diventa molto elevato a fine anni 90,  salendo fino a quasi il 20%  del capitale investito.  Si potrebbe interpretare la dinamica recente come una "compensazione" per i tanti anni di cattivo rendimento.   La domanda, ovviamente, è a che titolo sia avvenuta questa compensazione. La questione pone anche domande interessanti sulle privatizzazioni bancarie degli anni 90. Come  furono valutate allora le partecipazioni?  Poiché i dividendi diventano significativi in una fase successiva alle privatizzazioni, è probabile che questi non fossero stati valorizzati ex-ante, cioé nella fase in cui la proprietà pubblica aveva messo sul mercato le partecipazioni nelle banche private, a loro volta detentrici delle quote nella Banca d'Italia.  

Sarebbe interessante comprendere a che titolo il "contratto" originario di partecipazione implicasse una qualche forma di partecipazione ai profitti dell'istituto (come ci sembra sia avvenuto), ovvero una qualche forma di indicizzazione che ne garantisse il valore del flussi. La differenza rispetto a un bond a rendimento fisso nominale è evidente. Qual è la ratio economica e/o giuridica sottostante alla scelta di integrare i rendimenti nominali iniziali  (del 6+4%)?  A noi questa sembra una domanda interessante, a cui non abbiamo trovato una risposta chiara. Lo statuto, si è detto, prevedeva questa possibilità. Si potrebbe anche osservare che nel quadro normativo esistente l'amministrazione della Banca è stata "conservative": avrebbe potuto pagare molto di più (fino al 4% sulle riserve).  Questo non  toglie interesse alla domanda di cui sopra. Era possibile, per esempio nel 1948, decidere che l'investimento dei partecipanti era stato bruciato dall' inflazione e che i loro dividendi si erano praticamente azzerati?  E come si spiega l'impennata dei dividendi (anche in rapporto alle riserve) alla fine degli anni 90? Inoltre, come vedremo nella prossima sezione, la metodologia di valorizzazione delle quote della Banca d'Italia ha alla base l'assunto che gli attuali alti tassi di rendimento reale sarebbero per sempre mantenuti (o addirittura accresciuti). Come giustificare ciò?

 

La rivalutazione delle quote 

Ricapitoliamo due fatti importanti. Primo, utilizzando uno sguardo che copre quasi un secolo, è molto difficile rintracciare l'esistenza di "regole", anche solo implicite, che siano state stabilmente seguite nella determinazione delle politiche di dividendo della Banca d'Italia. I dividendi sono variati molto, sia in termini reali, che in rapporto al capitale e alle riserve. Secondo, dalla seconda metà degli anni '90 il dividendo distribuito è cresciuto molto raggiungendo livelli consistenti, caratterizzandosi dunque come un trasferimento annuale non-simbolico a favore delle banche private. Considerare entrambi questi aspetti è cruciale per rispondere alla domanda: qual è il valore economico ("quanto valgono") le quote di partecipazione nella Banca d'Italia?

Il valore economico di un titolo altro non è che il valore economico del flusso di reddito (di dividendi, nel nostro caso) che da esso ci si attende di ottenere. Tuttavia, vista l'assenza di criteri, impliciti o espliciti, che aiutino con una certa affidabilità a prevedere il flusso atteso di dividendi pagati dalla Banca d'Italia, ogni esercizio volto a (ri)valutarne le quote di partecipazione è necessariamente soggetto a grandi incertezze.  Si noti che questo rimane vero anche col nuovo statuto recentemente approvato che, a differenza di quanto visto per il caso della Riserva Federale, continua a prevedere ampi margini di discrezionalità nella determinazione del dividendo da distribuire (il 6% di renumerazione del capitale rivalutato è solo il valore massimo). Nel tentativo di navigare tra queste difficoltà, i "saggi" chiamati ad effettuare l'iniziale esercizio di valutazione si sono affidati a vari scenari riguardanti l'andamento delle future distribuzioni di dividendi da parte della Banca d'Italia. Attraverso l'analisi degli scenari, i saggi sono arrivati a suggerire che il valore economico delle quote dovrebbe collocarsi nell'intervallo 5-7,5 miliardi di euro (Nota per secchioni  #2).

Non ci dilunghiamo qui a discutere quanto questa forchetta di valori sia ragionevole. Ci basti sottolineare che se la Banca d'Italia continuasse a seguire le  politiche di dividendi degli ultimi quindici anni, allora  la forchetta fornita dai saggi non sarebbe insensata. Ciononostante, sarebbe stato piu' prudente che il legislatore non avesse scelto, come invece ha fatto, di rivalutare le quota proprio al valore superiore della forchetta di stima. Ciò che ci preme sottolineare, piuttosto, è che il valore economico delle quote altro non è che il riflesso delle future politiche di distribuzione di dividendi. A fronte di generose politiche di distribuzione, il valore economico della quota sarà necessariamente elevato. Riconoscere tale valore economico nel bilancio delle banche non ha di per sé nulla di errato. Viceversa, se il Parlamento decidesse che la Banca d'Italia non dovesse più distribuire dividendi alle banche private, non avremmo dubbi su quale sarebbe il valore economico delle quote: zero. Sono le politiche di distribuzione del dividendo ad essere il nocciolo della questione, non tanto il processo di valutazione della quota. In tal senso, concordiamo con le considerazioni  presentate da un lettore di questo blog (primo commento del thread). 

L'analisi fatta sopra si è mantenuta all'interno del quadro normativo e istituzionale che ci ha condotti fin qui. La nostra curiosità di studiosi di economia non si ferma a ciò che è  stato. È interessante chiedersi se una tale struttura del capitale, che prevede la partecipazione di soggetti privati alla banca centrale, sia efficiente dal  punto di vista dell'uso delle risorse. La domanda non riguarda solo l'Italia. Questa pratica, legittima e storicamente consolidata in diversi paesi, non è scritta nella pietra o nel DNA delle economie monetarie moderne. La nostra opinione è che  un assetto proprietario che vede il settore privato partecipare al capitale dell'istituto centrale non sia efficiente, per un argomento di tassazione ottimale che, a partire da Ramsey, dimora nella testa degli economisti. Pensiamo al settore consolidato fatto da banca centrale + tesoro, che chiameremo lo "Stato". Lo Stato tassa cittadini, imprese e banche per finanziare la spesa pubblica. E allo stesso tempo retrocede ad alcuni di questi soggetti (in questo caso particolare alcune banche) un po' di dividendi (ottenuti da una delle sue tante attività: la banca centrale).  Se la tassazione e'  distorsiva delle scelte degli agenti, l'economia funzionerebbe meglio, ovvero il prodotto crescerebbe (perché le imposte sono distorsive) eliminando i dividendi e riducendo la tassazione per un ammontare equivalente, in modo da mantenere il saldo di bilancio dello Stato invariato. Quello dei dividendi pagati dalla banca centrale non è certo l'unico caso. Gli aiuti alle imprese manifatturiere sono un altro classico esempio.  Questi meccanismi creano inefficienze. Tenerlo a mente è utile, pur sapendo che  non sempre si riesce a fare ciò che si vuole. Da questo punto di vista, crediamo che sarebbe stato importante cogliere l'occasione del dibattito parlamentare per fornire un chiaro e trasparente obiettivo a cui la remunerazione delle quote, e cioé il traferimento di risorse dalla banca centrale alle banche private, dovrebbe attenersi. Al momento si presume (o almeno i "saggi" presumono) che la remunerazione reale sul capitale originariamente versato rimarrà alta, pur potendo però essere discrezionalmente ridotta in ogni momento. 

Indietro

Commenti

Ci sono 26 commenti

La rivalutazione delle quote delle banche (in sé piuttosto tardiva!) rientra nella storica caratteristica del rapporto  tra il Potere e le banche, di mutui favori e ricatti (questi specialmente da parte dello Stato).  Non è "un regalo alle banche", ci piaciano o meno gli effetti sull'erario, sul Core Tier  o altro.

Alle banche che finanziavano i Governi, questi ripagavano con  privileggi.  Quando lo stato riesce a imporre alla società  il monopolio dell'emisione di moneta...  può concedere il privileggio di farlo alla sua (sue) banca/e favorita/e.

Ma nessuno regala niente. Il sistema bancario nel suo complesso, con al vertice la Banca Centrale, diventa strumento dei politici. In cambio  ottiene diversi privileggi, modulabili nel tempo: non ultimo prestare denaro non suo (i depositi altrui). E da custode diventare "banca".

Le  Banche Centrali (ancora private o meno) nella misura che rispondono alla politica fanno prevalere le politiche inflazionistiche:  tutti (i governi e loro clientele) vogliono più occupazione e benessere, quindi più credito, fino a generare le bolle e le crisi.

Quindi, quello di cui dovremmo preoccuparci (per ora) è di salvaguardare  il più possibile l'indipendenza delle Banche Centrali rispetto ai governi, ed evitare come lapeste  statuti come quello della FED, che mettono la difesa dell'occupazione accanto alla difesa della moneta (sempre sacrificata inutilmente rispetto alla prima).

A me questo discorso sulla rivalutazione delle "quote" Bankitalia mi sembra il classico dilemma contabile tra Fair Value e Valore Storico. Quali dei due mettere in bilancio?

In un commento al primo articolo della serie avevo azzardato un ragionamento e qualche conto. In breve, una rivalutazione delle partecipazioni in BdI a 7.5 mld€ da 156.000 € significherebbe, su 78 anni, un rendimento nominale medio annuo di 14.8% (senza tener conto dei dividendi e, magari, del fatto che, come scrive Giovanni Federico nel post precedente, "Il valore nominale delle azioni fu fissato in 1000 lire, di cui però solo 600 versate"). Considerando che il tasso di inflazione medio sul periodo è stato di circa 10.4%, risulterebbe un rendimento reale medio del 4% annuo.

Da questo post scopro che la partecipazione in Fed paga il 6% nominale annuo (dai link non capisco bene se sia sempre stato così, ma mi pare di capire di sì). Da qui ottengo che l'inflazione media USA dal 1936 ad oggi è stata circa 3.7%, per cui mi pare si possa dire che negli ultimi 78 anni la partecipazione in Fed abbia reso mediamente qualcosa come un 2% reale annuo.

Ora, capisco che comparare un "investimento" in Fed con uno in BdI sia cosa complicata (non ho idea, ad esempio, di quale potrebbe essere la differenza nel premio al rischio, specie in termini storici). Comunque le osservazioni sopra mi portano alla seguente domanda: avrebbe avuto senso, da parte di BdI, "calibrare" le politiche di dividendo in maniera che la valorizzazione conseguente del capitale fosse coerente con un rendimento reale storico considerato "equo"? (E comunque, perché non rimborsare le quote oltre il 3% secondo tale valorizzazione "equa", indipendentemente dalle promesse per il futuro?)

una piccola precisazione: il capitale nominale era 500 milioni (500000 azioni da 100000) - di cui versati 300 (600 lire per azione)

La media del rendimento dal 1936 è fuorviante, perché fino ai primi anni 90 i soci erano istituti pubblici. In seguito alle privatizzazioni la politica di dividendi divenne molto più generosa, passando dallo 0,1% allo 0,5% delle riserve (ringraziamo Fazio per questo): è come se, conclusa una compravendita, il venditore decidesse di apportare costose migliorie a proprie spese al bene venduto. Il gentile omaggio è da parte degli ignari contribuenti verso gli azionisti delle banche.

Ho paura che le banche, dopo averci comunque pagato una fraccata di tasse, si sdebiteranno prestando i nuovi fondi ... allo stato italiano: vai con nuove masse di CCT e BTP nei bilanci delle banche: si sa, sono sicuri !, tipo i titoli greci. Ed all' economia presteranno questo (ah, no, peccato: non mi potete vedere).

Nell'articolo, per altro molto interessante, si sottolinea più volte come il valore delle quote sia in funzione esclusivamente (oltre che del tasso di rischio associato) dei dividendi futuri e relative politiche. Mi chiedo: se come sembra le quote saranno trasferibili allora il prezzo/valore delle quote non sarà soprattuto funzione della capacità della BdI di produrre utili in futuro e solo in parte funzione di quanto di questi sarà distrubuito?

complimenti per il blog!

BdI produce una marea di utili, credo il signoraggio sia pari a 0.1-0.2 punti percentuali di PIL. La diatriba e' su quanti sia giusto distribuirne ai soci).

(mi scuso, avevo scritto in precedenza 1-2% per errore)

Nel 2012 l'utile al lordo delle imposte della BdI è stato di circa 4 miliardi e mezzo di euri, al netto delle imposte di 2 miliardi e mezzo di euri.
Di questi 2 miliardi e mezzo, la BdI ha deciso di mettere mezzo miliardo in riserva ordinaria e mezzo in riserva straordinaria, e poi ha deciso di dare 1 miliardo e mezzo allo Stato e quindi i 15 mila euri obbligatori ai partecipanti.
In pratica in riserva sono andati 1 miliardo di euri, lo Stato si è pappato 3 miliardi e mezzo, e i partecipanti al capitale invece miseri 15 mila euri.

In più, hanno deciso di dare ai partecipanti anche una mancia di 70 milioni di euro (lo 0,5% delle riserve).
[Ricordo che la "mancia" (nella mente degli ideatori di questo sistema nel 1936), serviva più che altro come possibilità per rimpinguare le casse dei partecipanti con le riserve nazionali, nel caso in cui quest'ultimi abbisognassero di pecunia: dato che un tempo i partecipanti erano banche e assicurazioni pubbliche, non era considerabile come uno scandalo che ricevessero trasferimenti, ancorché straordinari, dalla banca dello stato].

A mio parere, il valore delle quote dipende esclusivamente dai dividendi, dato che la proprietà delle quote non dà nessun altro diritto (a parte il diritto a vendere temporaneamente le quote eccedenti alla banca d'italia, ma questo vale solo per gli attuali partecipanti, quindi ha un valore di mercato nullo).

Ferma il mio apprezzamento,

mi pare pero' , again, che - pur nel contesto cosi' molto ben approfondito e ricostruito, non si sposti di una virgola la questione di quantum di cui all'editoriale

<<Le quote di Bankitalia: la solita porcata in data 30 gennaio 2014alberto bisin, michele boldrin e andrea moro

Ne', meno che meno, quella sulla ..'.eterogenesi dei fini' (ossia: mancato gettito....IMU..sic! )

 

"causa è quella la quale posta seguita l'effetto, e rimossa si rimuove l'effetto".

GGalilei

vs.

"Nel caso della Banca d'Italia, invece, il 6% sarebbe applicato ad un capitale mai versato (a parte gli originari 300 milioni di lire), ma nominalmente ottenuto attingendo alle riserve di valore della Banca d'Italia stessa."

Proprio li', il tema....preliminare...

 

Uno degli obiettivi di questa legge è dare alla banca centrale uno strumento per aiutare le banche in caso di difficoltà senza pesare sul bilancio dello stato. In fin dei conti parliamo di un trasferimento discrezionale (decide il governatore della BdI perchè la legge fissa solo il limite massimo del dividendo) dal bilancio di Banca d'Italia alle banche. E' quindi uno degli strumenti di politica monetaria a disposizione della banca centrale.

La cosa può piacere o non piacere, ma è un fatto che una banca non può essere lasciata fallire (le conseguenze del fallimento di Lehman Brother ce le tiriamo dietro ancora oggi). Perciò se è possibile evitare il fallimento senza andare a fare debito pubblico (come ha fatto l'Irlanda) tanto meglio per quel che mi riguarda. 

Semmai visto che una banca non può fallire è la regolamentazione delle banche stesse che dovrebbe essere rivista.

Meglio chiarire: - ci sono banche  che falliscono e vengono lasciate fallire in continuazione senza danni per il sistema bancario e finanziario  - il trasferimento di dividendi della banca centrale pesa sul bilancio perché si tratta di fondi che potrebbero essere trasferiti allo stato - ci sono modi per aiutare banche in difficoltà senza trasferire dividendi - non tutte le banche posseggono quote della banca centrale, e anche queste possono essere aiutate, se ritenuto opportuno, cosa che non sempre succede

Un articolo molto interessante che entra nel merito e spiega molti arcani di questa intricata vicenda. Mi ha colpito particolarmente come gli autori stessi hanno rimarcato sull'importanza di un dibattito parlamentare (mancato) per fornire una spiegazione al traferimento di risorse dalla banca centrale alle banche private. Se qualcuno della nostra classe politica si sentisse responsabilizzato in merito non sarebbe male.

Ottimo articolo per lucidita' di analisi e chiarezza espositiva! Anche le conclusioni sono condivisibili.

A questo proposito voglio sottolineare il caso della Banca d'Inghilterra, che costituisce un modello diverso da quello della Banca d'Italia e la Riserva Federale Americana discussi nell'articolo. Infatti il capitale della Banca d'Inghilterra e' totalmente detenuto dal governo brittannico. I dettagli si trovano qui.

Banca d' Italia comunica che i dividendi ai partecipanti son passati da 70 mln a 380 mln.
( l' unica spiegazione che mi viene in mente è che sia una sorta di rimborso dopo il cambio di aliquota  sulla rivalutazione dovuto alla mossa degli 80 euro. Oppure è solo un modo per rendere appetibile l' acquisto delle quote, che non starà andando tanto bene )

380 milioni? Urge ulteriore rivalutazione, direi!