Tempi duri per gli economisti: due articoli di Zingales

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Tempi duri per gli economisti. La nostra professione non è mai stata tanto amata, per mille ragioni. Molte di esse son risibili o frutto di incomprensione delle questioni economiche o, peggio ancora, prodotto dell'eterno sogno di un mondo in cui vi sia il free lunch. Ma alcune critiche dall'interno, contenute in due recenti articoli di Luigi Zingales, le condivido da tempo ed approfitto dell'occasione per discuterne.

All’inizio di questo mese, durante il congresso annuale delle associazioni di economisti americane - durante il quale si svolge il “mercato” dei nuovi dottorandi - alcuni attivisti hanno inscenato un'inedita protesta per combattere “il mondo fantastico dell’economia neoclassica, una religione basata sulla fede nei mercati perfetti, consumatori illuminati e crescita infinita, che condiziona il destino di miliardi di persone”. Si trattava di cosa alquanto folcloristica, esempio delle critiche risibili menzionate nel sommario.

I due documenti che Luigi Zingales ha distribuito di recente criticano gli economisti accademici, sia nel loro ruolo di ricercatori che in quello di docenti, in modo molto più convincente. Gli articoli (in inglese) che linko qui sotto, sono comprensibili dal lettore informato, pur se non specialista. In quanto segue, ve li riassumo criticamente, ma ne consiglio la lettura completa. 

1. La cattura degli economisti

L’articolo Preventing Economists’ Capture è un capitolo di un volume collettaneo curato da Daniel Carpenter e David Moss dedicato al fenomeno della regulatory capture, la “cattura” del regolatore. I mercati, com'è noto, non sempre si auto-regolano generando spontaneamente concorrenza, libertà d'entrata, diffusione uniforme d'informazione veritiera, eccetera. Per questa ragione spesso necessitano di un “regolatore” che cerchi di limitare i fenomeni monopolistici e la tendenza, già notata dal buon Adam Smith, delle imprese dominanti a colludere. Ma il regolatore spesso è un burocrate che può essere succube delle imprese che dovrebbe regolare. Queste ultime spingono per orientare la regolamentazione a proprio vantaggio. Gli esempi sono innumerevoli (uno su tutti: le rivelazioni risultanti dalla recente pubblicazione delle registrazioni segrete di una impiegata della Federal Reserve di New York) ed il problema non di facile soluzione. La corruzione o scorrettezza etica non sono nemmeno necessarie: regolamentatore e regolamentato spesso lavorano fianco a fianco per giornate intere, condividono ambiente di lavoro, uffici, festini aziendali, ecc., sviluppando a volte rapporti personali oltre che di lavoro. Non è raro poi per gli specialisti cambiare impiego passando dall’agenzia regolamentatrice all’impresa regolamentata, pratica che poi influisce sugli incentivi di chi rimane a sorvegliare le attività delle imprese.

Zingales si è occupato molto spesso di questi temi e nei due articoli in questione non dice cose sorprendenti, se non fosse che si concentra su un aspetto spesso sottaciuto: anche gli economisti possono essere “catturati” dall’industria oggetto della loro ricerca. Gli economisti possono essere tentati sia di distorcere i risultati, o, senza supporre malizia, di scegliere il tema di studio in modo da favorire alcune categorie a danno di altre. Nell’analisi empirica, per esempio, gli economisti a volte usano dati riservati, forniti da aziende che hanno interesse ad ottenere determinati risultati dall’analisi degli stessi. Non solo. Il successo di (alcuni) economisti spesso dipende dalla popolarità dei propri risultati al di fuori dell’ambiente accademico, successo che fornisce credibilità e sostegno alla ricerca effettuata. Infine, nota Zingales, le opportunità di reddito degli economisti aumentano con la possibilità di effettuare consulenze esterne, le cui offerte arrivano solo se si è considerati “amici” da parte dell’industria, per non parlare poi della possibilità di ricevere offerte di lavoro fuori dall’ambiente accademico. Il problema è infine aggravato dal processo di pubblicazione: per pubblicare occorre il consenso dell’editor di una rivista scientifica, generalmente uno studioso affermato, quindi bastano pochi editor “catturati” per disseminare gli effetti negativi in tutta la professione.

Per corroborare queste supposizioni, Zingales illustra una propria meta-analisi di articoli scientifici pubblicati dalle principali riviste sul tema della compensazione manageriale. A volte queste ricerche prendono una posizione sostenendo che i salari dirigenziali sono (o non sono) eccessivamente alti rispetto ad uno standard di efficienza. L’analisi di Zingales rivela che nelle riviste di economia vengono pubblicati risultati “pro-manager” più che nelle riviste di management o in quelle giuridiche. Questa meta-analisi non ha la pretesa di essere esauriente, quindi mi astengo dal criticarla e prendo per buone (perché le condivido da tempo) le conclusioni a cui vuole arrivare. Ciò che non mi convince sono le proposte di “soluzione” avanzate, che vado ad elencare e discutere.

(i) Stabilire una norma sociale fra economisti che consenta di svergognare chi adotta posizioni estreme in modo ingiustificato: “un economista che si oppone sempre all’intervento del governo, ma che sostiene un’eccezione speciale quando il governo salva una particolare industria dove ha un’interesse diretto dovrebbe essere ridicolizzato pubblicamente”.

(ii) Obbligare gli economisti che fungono da consulenti [e, suppongo, da expert witnesses] a pubblicare le loro testimonianze giudiziali, per permettere agli altri di svergognarli in caso prendessero posizioni prive di obiettivo supporto scientifico. 

Campa cavallo che l'erba cresce: Zingales non può essere così ingenuo da pensare che le "norme sociali" si possano modificare per fiat, ossia attraverso qualche mitico "accordo collettivo" fra gli economisti buoni, quelli che non si fanno catturare. Quanto alla seconda proposta, non sono nemmeno sicuro che sia legalmente possibile concretizzarla, anche tralasciando il fatto che decidere quando un'affermazione sia "obiettiva" o meno sarebbe fonte di mille diatribe.

(iii) Cambiare gli standard di uso dei dati riservati. Il rischio è che il ricercatore trovi risultati indesiderati da chi ha fornito i dati e per questo non li riveli. Qualche impresa fornisce ai ricercatori i propri dati con l’accordo, implicito o esplicito, di poter impedire la pubblicazione dei risultati a proprio giudizio. Zingales propone di chiedere ai ricercatori di rivelare esplicitamente il tipo di accordo intercorso con l’azienda fornitrice di dati, di rivelare quanti studi simili si siano effettuati senza arrivare alla pubblicazione, o di “aumentare” il numero di dataset pubblici.

Anche in questo caso, si tratta di soluzioni piuttosto deboli. Meglio sarebbe stata la proposta di un’iniziativa interna alla professione che mirasse convincere le migliori riviste a non pubblicare articoli con risultati non verificabili (per esempio perché i dati non sono disponibili a condizioni ragionevoli). Quel tipo di studi verrebbe relegato a riviste “di settore” che acquisirebbero naturalmente una minore reputazione, e diminuirebbe l'incentivo a specializzarsi in quei campi. Questo purtroppo implicherebbe penalizzare certi tipi di ricerca, ma la penalizzazione sarebbe compensata dai guadagni alternativi che questi ricercatori hanno a disposizione proprio perché accettano di essere "captured" da interessi particolari. Va detto, comunque, che nelle riviste migliori è già da tempo consuetudine fornire i dati ed il codice usato per analizzarli, consuetudine che viene però derogata quando i dati sono vincolati dalla loro fonte originaria.

(iv) Aumentare la concorrenza fra riviste scientifiche permettendo di inviare gli articoli a più riviste simultaneamente (in economia, contrariamente ad altre discipline come la giurisprudenza, lo si può fare con i libri ma non con gli articoli), permettendo la pubblicazione, da parte degli autori, delle rejection letters delle riviste (questo influenzerebbe la reputazione degli editor, per renderli meno influenzabili dall'industria), e imponendo agli editor di non accettare consulenze esterne. 

Misure, queste, senza dubbio desiderabili anche se probabilmente non sufficienti.

2. I benefici della finanza sono sovrastimati dagli economisti?

Una valutazione simile mi sento di dover dare per le proposte contenute in Does Finance Benefit Society?”, il discorso presidenziale che Zingales ha tenuto al convegno dell’associazione di economisti specializzati in finanza (AFA), proprio durante i meetings di cui parlavo all’inizio.

Zingales si chiede come mai gli economisti sovrastimino i benefici delle attività finanziarie rispetto a quanto faccia il resto della popolazione. Questa affermazione, per quanto plausibile, è documentata in modo a mio parere un po’ impreciso. Da una parte vengono citati alcuni “classici” risultati che studiano la risposta (affermativa) alla domanda che titola il suo articolo. Dall’altra, cita un sondaggio dei lettori dell’Economist, riportante che il 57% delle risposte è  in disaccordo con l’affermazione che “l’innovazione finanziaria favorisce la crescita economica”. Ma pensare bene della “finanza” in generale non è la stessa cosa del pensar bene dell’innovazione finanziaria. Senza “finanza” non ci sarebbero mutui, molti negozi al dettaglio chiuderebbero, molte imprese non potrebbero operare, molti studenti non potrebbero studiare. Senza titoli derivati molti agricoltori rischierebbero la fame in periodi di scarso raccolto. Ma questo non implica che anche qualche economista non possa avere avere qualche dubbio sull’efficienza complessiva di high frequency trading, o di derivati costruiti su altri derivati costruiti su altri derivati.

Comunque sia, diamo per scontato il dubbio. Zingales prende le difese dell'opinione apparentemente diffusa fra il pubblico: per quanto noi esperti possiamo essere tentati di sbeffeggiare le espressioni populistiche anti-finanza alla Grillo&Co., il problema è serio. Potrebbe derivare non solo dal fallimento della nostra professione nell’educare il pubblico ai benefici della finanza, ma anche da una sovrastima di tali benefici da parte nostra.

Ci sono, a suo avviso, due "tipi” di finanza: quello concorrenziale, che richiede un veloce ed equo sistema giudiziario che riesca far valere i contratti stipulati, e quello relazionale, dove il finanziere riceve il proprio rendimento mantenendo un potere di monopolio sull’impresa finanziata. Tale monopolio richiede barriere all’entrata ovviamente, che possono essere generate da regolamentazione che limita l’entrata di concorrenti sul mercato.

Il sistema concorrenziale è più efficiente ma è anche molto difficile da sostenere perché, oltre alla libertà d'entrata e tutto il resto, richiede un sistema giudiziario ed amministrativo impeccabile, quindi costosissimo. I mercati concorrenziali non hanno una lobby, e il loro partito, in Italia, ha preso nel 2013 l’1%, ricordate? Negli USA dopo la crisi, il Congresso ha approvato a stragrande maggioranza una tassa retroattiva del 90% sui bonus percepiti dai dirigenti delle banche salvate dal governo. I contratti erano legittimi, ma i loro effetti odiosi per il grande pubblico. Per quanto la misura fosse desiderabile, lo stato di diritto non è stato rispettato. L'aneddoto rivela quanto difficile sia sostenere il modello concorrenziale.

Cosa c’entrano gli economisti in tutto cio? Zingales ricorda che non esiste evidenza teorica né empirica che in presenza di mercati incompleti (i mercati sono sempre incompleti, alla luce della nostra definizione di completezza) ridurne l'incompletezza aumenti l’efficienza. In soldoni: la teoria ci dice che se i mercati non sono vicini all’ideale teorico, una misura che consenta di avvicinarsi a quell’ideale teorico senza raggiungerlo potrebbe ridurre, non aumentare l’efficienza del sistema complessivo. Questa è una vecchissima osservazione ben nota a chi si occupa di equilibrio generale ma non è chiaro cosa possiamo dedurne, perché l'argomento vale sia nel caso si passi dal deserto finanziario a due banche che fanno solo depositi e prestiti sia in quello in cui HFT viene esteso all'intera popolazione. 

La questione, infatti, è empirica, ma manca anche evidenza empirica a favore del modello concorrenziale: da un lato perché, nella sua forma ideale, nessuno l'ha mai visto e dall'altro perché non esiste una letteratura empirica capace di confrontare "concorrenziale" con "relazionale". L'affermazione secondo cui uno è "buono" mentre l'altro è "cattivo" rimane quindi un atto di fede, condivisibile ma tale. In ogni caso, rinvio all’articolo (pagina 10) chi volesse una serie di riferimenti interessanti.

Zingales fa un interessante parallelo con il settore medico-sanitario, che negli Stati Uniti soffre di sovradimensionamento e storture regolamentari simili a quelle del settore finanziario. In entrambi i settori la fiducia nei confronti del professionista che offre il servizio è cruciale. Tuttavia, e non si capisce quanto creda sia importante, Zingales indica una differenza nel giuramento di Ippocrate, che non esiste in finanza. Anzi, nei corsi di finanza si insegna agli studenti come sfruttare ogni opportunità di guadagno, senza riserve. E questo genererebbe problemi aggiuntivi. 

Che fare? Come nell'articolo precedente, la parte propositiva è un po’ debole. Per esempio, propone di supportare la ricerca quando riveli qualche forma di comportamento illecito o anti-concorrenziale delle imprese (famose per esempio le rivelazioni di comportamenti collusivi nel Nasdaq da parte di Christie e Schulz (nell’articolo trovate altri esempi). Come spingere i ricercatori a perseguire linee di ricerca di beneficio per il grande pubblico?

In teoria, la concorrenza fra ricercatori dovrebbe incentivare questo tipo di scoperte, ma anche il "mercato" della ricerca può essere inefficiente: gli economisti non hanno scoperto molto velocemente le frodi nel mercato immobiliare pre-crisi. Le agenzie pseudo-pubbliche responsabili di garantire i mutui (le cosiddette “Fannie Mae” e “Freddie Mac”) si guardavano bene dal concedere i propri dati, e anche adesso sono riluttanti a concederli.

Propone, poi, ai teorici di non sforzarsi di essere policy-relevant, ma di privilegiare una ricerca rigorosa piuttosto che produrre formalizzazione del consenso esistente: “un buon lavoro teorico, [...], ci fa vedere il mondo con occhi diversi”. In realtà questo già avviene ed esiste, in ogni campo, serio e sostanziale lavoro teorico che mette in discussione il consenso esistente. La domanda, difficile, che occorre porsi è invece un'altra: perché mai sia i giornali scientifici maggiormente prestigiosi che la "pubblica opinione interessata alla ricerca accademica in economia" (per essere espliciti: dal lettore di The Economist al partecipante al Festival di Trento) sembrano così affascinati dal "consenso esistente" e scarsamente interessanti alle posizioni maggiormente eterodosse? Detto altrimenti: come mai teorie strampalate e con poca sostanza come quella di Piketty diventano immediatamente il "consenso" mondiale e rimangono tali anche dopo essere smontate scientificamente?

Infine, Zingales sospetta che nelle business schools i metodi di insegnamento distorcano la già naturale predisposizione dello studente di economia e finanza all’egoismo e alla ricerca di comportamenti dai dubbi standard morali. L’evidenza (sia sulla selezione di studenti egoisti agli studi economici, sia sul loro successivo ulteriore “indottrinamento”) a mio parere è piuttosto scarsa, e soffre della distorsione più volte notata: vengono pubblicati solo gli studi che trovano qualche effetto. Quelli che non trovano differenze fra studenti di economia e di altre discipline, finiscono nel cassetto.

Ma la preoccupazione è legittima e non è male ricordare che massimizzare l’utilità non significa né massimizzare i consumi né i profitti. Zingales auspica che nelle business schools si insegnino le “norme sociali” che fonderebbero un mercato equo ed efficiente, dimenticando che, se queste norme ci fossero, non servirebbe insegnarle. Ma se i comportamenti “equi” non sono norme sociali, come improntare lo studio di economia e finanza a farli diventare tali? Sarebbe sufficiente cambiare i programmi di insegnamento? La risposta non è per niente ovvia, e l'articolo non ci illumina.

Insomma, che il problema dell'economista "catturato" sia reale e in qualche caso grave non lo dubito, da parecchio tempo, così come non dubito che la ricerca in finanza potrebbe essere maggiormente orientata al perseguimento del bene comune. Ma la carenza della parte propositiva è proporzionale, in realtà, alla rilevanza sociale degli economisti accademici. Zingales, a mio avviso, commette l’errore di ritenere la nostra professione più influente di quanto non lo sia mai stata e sarà. Il nostro contributo al benessere dell’umanità può essere stimato (con buona approssimazione) con la percentuale del PIL che va destinata al nostro lavoro: lo zero virgola zero zero zero….. per cento. E non vedo in giro grandi esternalità che rendano questa stima "diretta" del nostro valore aggiunto moltiplicabile per un qualche fattore molto maggiore di uno. Quindi, un miglioramento del nostro output aumenterà l'efficienza complessiva mondiale dello zero virgola zero zero ...

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Commenti

Ci sono 13 commenti

Andrea, in larga misura sono d'accordo, ho letto due libri di Luigi Zingales e trovo molto interessante il modo in cui riesce a identificare i problemi, ma solitamente ho delle forti riserve sulle possibili soluzioni che propone. 

Per quanto riguarda il processo di referaggio si potrebbe andare anche al di la della proposta riportata sopra, e imporre che i referaggi delle migliori riviste siano completamente pubblici (ossia referaggio e referee sono informazione pubblica). Questo creerebbe sicuramente dei disincentivi ad accettare di referare paper, che dovrebbero essere compensati da opportuni incentivi. L'incentivo potrebbero essere che si inizia a riconoscere il valore scientifico di un referaggio. Se faccio da referee per Econometrica significa a) che l'editor ritiene che io sia adatto al ruolo e b) che con la mia decisione ho una certa capacità di "direzionare" la letteratura attraverso una accettazione o una rejection. I referee report potrebbero diventare delle vere e proprie pubblicazioni scientifiche fatte dalla rivista che ha richiesto il referaggio. Questo garantirebbe un miglioramento qualitativo dei referaggi (solo se veramente sei in grado di fare da referee accetti il lavoro, e lo devi far bene perchè sarà pubblico), una diminuzione del numero di submission (non mi tento la submission come gli studenti si tentano un esame perchè verrei ridicolizzato pubblicamente dal referee) e sarebbe riconosciuto il lavoro di referaggio ai fini della carriera. 

Ho pensato molto anch'io al referaggio pubblico, tanto che anni fa ho anche prodotto un documento-proposta che poi non ho mai rilasciato. Io pensavo di mantenere l'anonimato pero', in ogni caso ci sono alcune riviste che lo hanno adottato, mi pare in fisica. 

... il giuramento ippocratico poi sia efficace al 100%: anche perche' chi e' ethically challenged senza giuramento lo e' anche col giuramento.

E poi, dipende anche da quali economisti: quelli che lavorano per banche centrali o istituti di ricerca pubblici sono tenuti moralmente a perseguire il pubblico interesse, ma chi lavora per una banca d'investimento o in genere un'istituzione privata ha solo il dovere di massimizzare gli utili di chi lo impiega, entro i vincoli della legge.

Che la nota si debba leggere in senso filosofico. La medicina è vincolata da vincoli etici, la finanza non lo è, o lo è molto meno. Non so se secondo lui sia bene o male (non ho letto Zingales) ma giudico con favore ogni finestrella che viene dischiusa tra il mondo dell'Economia e la madre Filosofia Morale. Se l'Economia riuscisse a superare il suo Complesso di Elettra se ne gioverebbe.

 

Non e' che anche per i medici il giuramento ippocratico poi sia efficace al 100%:

 

Aneddoticamente, avendo avuto significative esperienze lavorative nel settore, ci sono tanti dottori che sono dei santi, ma ce ne sono alcuni che farebbero vergognare Gordon Gekko.

ancora di più se la scriviamo con l'iniziale maiuscola, ma ha il difetto di riferirisi a principi alquanto generici.

Diritto e regolazione, ben impostati ed applicati, dovrebbero prevenire gli scandali finanziari: ma, temo, la conoscenza di come operano i mercati e degli effetti delle regole che intendono indirizzarli verso il c.d. bene comune è ancora approssimativa.

Un link facile: www.project-syndicate.org/commentary/are-economists-good-by-robert-j--shiller-2015-01

Per il primo punto. Nella ricerca medica esiste un analogo problema di correttezza e trasparenza, molto dibattuto. Si è cercato di risolverlo in vari modi. Per esempio con una disclosure sui potenziali conflitti di interesse; oppure con la proposta (mai realizzata) di un registro dei clinical trials, in modo da evitare che vengano pubblicati solo lavori con esito positivo. In realtà il problema è, credo, irrisolvibile con norme, ed alla fine quello che conta è il prestigio che ognuno faticosamente si conquista.